di Giulia Locati
1. I termini del problema
Il rapporto tra le regole dell’economia e il potere politico di incidere su di esse tramite il diritto è sempre stato complesso. Da tale confronto è nato un conflitto di posizioni, in prima battuta riconducibili alla seguente dicotomia: primato dell’economia o primato del diritto?
In Italia, la diversa configurazione del binomio in esame ha determinato, a partire dall’entrata in vigore della Costituzione, l’ambiguità dell’espressione “costituzione economica”, che, secondo un primo generalissimo schema, può essere intesa in due sensi completamente differenti (Luciani):
1) descrittivo, potendo essere:
a) una formula riassuntiva delle disposizioni della Costituzione riguardanti i rapporti economici e delle altre norme che, pur contenute in leggi ordinarie, sono di rilevanza costituzionale (come, per esempio, la legge antitrust n. 287/1990 o la legge n. 369/1992 che ha privatizzato le maggiori imprese pubbliche);
b) l’insieme di tutti gli istituti di diritto positivo che si propongono di regolare l’economia;
c) l’insieme delle norme costituzionali, delle leggi ordinarie e delle fonti secondarie riguardanti i rapporti economici, così come emergono dalla prassi applicativa, che vengono così a definire il «quadro complessivo dell’ordinamento economico definito da scelte politiche» (Raiser);
2) prescrittivo, indicando il modello ideale di struttura economica.
2. Modello descrittivo (debole) e modello prescrittivo (forte): considerazioni generali
Coloro che ritengono che l’economia rappresenti uno degli ambiti di intervento del potere statuale utilizzano l’espressione “costituzione economica” in modo neutro, indicante dunque l’insieme delle norme costituzionali concernenti i rapporti economici. Coloro che ritengono, al contrario, che la sfera economica sia esclusa dalla progettualità statale, in quanto l’ordinamento giuridico della vita economica è contraddistinto da regole e valori propri, autonomi e differenti rispetto a quelli che fondano la disciplina delle altre attività umane, utilizzano la locuzione attribuendole un valore prescrittivo.
Nel primo caso l’economia è trattata come qualsiasi altra materia, con la conseguenza che la costituzione economica non è diversa qualitativamente dalle altre parti della Costituzione; lo è solo contenutisticamente. Il termine è dunque utilizzato come formula riassuntiva e ricognitiva dell’insieme degli articoli rilevanti in materia economica, vale a dire gli articoli dal 35 al 47 e gli articoli 4, 53, 81 e 99 della Costituzione italiana, tendenzialmente letti nel quadro dei principi generali e fondamentali. L’intervento pubblico nell’economia in questa prospettiva non può essere ricondotto a un insieme sistematico e autonomo di principi, ma è concettualmente uno dei settori dell’intervento pubblico in generale.
Nell’altro caso invece l’economia dà vita a «un modello normativo autofondantesi, capace di trovare in se stesso il proprio specifico valore e, come tale, in grado di dar vita altresì a nuove categorie giuridiche» (Baldassarre) con la conseguenza che l’espressione “costituzione economica” configura «un complesso normativo in qualche misura autonomo rispetto all’insieme della Costituzione, della quale peraltro sarebbe il nocciolo essenziale, il dato realmente infungibile attorno al quale finiscono per ruotare i (viceversa) contingenti contenuti delle disposizioni relative ai rapporti politici e sociali» (Luciani). In sostanza accanto a una costituzione politica c’è una costituzione economica che pone condizioni e regole, limitando così l’una l’autonomia dell’altra. In quest’ottica «il mondo economico, nell’intricatissimo intreccio di rapporti in cui si concreta e nel dinamico e quasi febbricitante succedersi di momenti in cui si evolve, rivela pur sempre una sua specifica razionalità; e rivela pure l’esigenza intrinseca a essere elaborato e vissuto nell’ambito della legge morale; per cui domanda di essere attuato secondo un ordine a esso immanente, che è appunto l’Ordine Economico» (Pavan). La realtà economica è dunque portatrice di un ordine, che il diritto ha il solo compito di attuare e rispettare.
In altri termini mentre l’uso descrittivo della locuzione “costituzione economica” presuppone una visione normativa della Costituzione complessiva, di fronte alla quale la materia economica si pone come un qualcosa da plasmare, forgiare, sulla quale intervenire, l’uso normativo dell’espressione si fonda invece su una visione descrittiva della Costituzione complessiva, all’interno della quale l’economia viene assunta come un dato da descrivere prendendo atto dei rapporti esistenti, e dunque intesa come fenomeno naturale, le cui forme storiche danno vita a un complesso di principi e valori relativamente autonomi dalla Costituzione «che si impongono di per sé sino a costituire un vincolo alla libera determinazione dei poteri democratico rappresentativi» (Cantaro).
In sostanza, la lente interpretativa attraverso cui analizzare le posizioni di coloro che utilizzano l’espressione costituzione economica rimanda a due modelli: uno normativo, o forte, l’altro descrittivo, o debole. Si può definire “forte” o “prescrittivo” quel modello secondo il quale il dato economico deve essere preso in considerazione come oggetto naturale, in riferimento al quale le norme costituzionali che lo disciplinano sono dunque norme deboli, perché prive di potere d’incidere su di esso. La locuzione “costituzione economica” rimanda, secondo questa impostazione, a qualcosa di extrapositivo. Si può definire invece “debole” o “descrittivo” quel modello che attribuisce alle norme giuridiche – e in primis a quelle costituzionali – la forza di agire sulla realtà economica, per dirigerla, programmarla e indirizzarla verso fini che sono estranei alla scienza dell’economia, ma che vengono invece individuati dalla politica. In tale contesto, la locuzione “costituzione economica” viene utilizzata in modo meramente topografico, in quanto mira a indicare quelle norme che, all’interno del testo costituzionale, si occupano di economia.
Nell’un caso lo Stato, intervenendo sul dato tecnico, giuridico e culturale, modella la società, affinché l’ordine economico possa autorealizzarsi, con la conseguenza che lo Stato è neutrale rispetto al mercato, ma interventista rispetto alla società per indirizzarla verso il mercato. Nell’altro caso invece lo Stato «modella l’ordine economico indirizzandolo ai fini generali dettati dalla costituzione» (Bucci – Patruno).
L’uso extrapositivo del termine è dunque caratterizzato dal ruolo forte del dato economico e dalla conseguente debolezza delle norme costituzionali; l’uso topografico è al contrario fondato sulla debolezza della materia economica e sulla forza della capacità d’incisione delle norme (in primis costituzionali e poi positive).
3. Precisazioni sui diversi modelli
Può essere utile analizzare tali modelli nel dettaglio, cercando di comprenderne le diverse varianti.
3.1. Il modello debole
Il primo paradigma di pensiero, vale a dire quello caratterizzato da un uso descrittivo-topografico della locuzione “costituzione economica”, si fonda su una serie di dubbi suscitati dal suo valore polisemantico, e segnatamente:
1) la formula in esame può presupporre una poco chiara e pericolosa distinzione tra una costituzione economica e una politica, laddove la Costituzione deve invece essere intesa unicamente come «decisione globale sull’organizzazione della società e dell’economia» (Schmitt);
2) tale formula può ammettere la legittimità concettuale di una distinzione tra sfera dell’attività economica e le altre sfere dell’attività umana; la critica contesta tale legittimità, sottolineandone così la sua sostanziale inutilità (Luciani);
3) essa può rimandare a una separazione tra economia e politica che, tipica dello Stato liberale, non ha più ragion d’essere negli Stati contemporanei. In questo senso si è sottolineato, a seguito del dibattito sorto sulla modifica dell’art. 109 della Costituzione tedesca, che «la cosiddetta nuova politica economica non darà vita a nessuna nuova costituzione economica. L’economia è e rimane parte della vita politica che è regolata della Legge fondamentale» (Wietholter);
4) essa può mirare a capovolgere l’idea secondo la quale la Costituzione non debba configurare limiti all’attività legislativa prendendo atto di dati economici, ma, al contrario, debba condizionare i valori del privatismo economico ai principi di cui all’art. 3, comma secondo, delle Costituzione italiana, con la conseguenza che i limiti alle attività produttive devono essere visti come strumenti in grado di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che di fatto limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impedendone il pieno sviluppo.
Secondo questa corrente di pensiero, insomma, la formula “costituzione economica”, proprio per la sua ambiguità, può essere pericolosa: è dunque in primo luogo necessario svelare il fatto che se ne può fare un uso prescrittivo, il quale rimanda a una visione che viene presentata come descrittiva del compito del diritto, che si riduce a strumento di traduzione dei principi economici, intesi come indipendenti e dotati di validità e normatività proprie. In secondo luogo, si vuole svelare che quest’approccio, lungi dall’essere descrittivo del compito del giurista, nasconde una scelta eminentemente ideologica a favore di un assetto di organizzazione sociale che nessun concreto ordinamento recepisce mai come tale. In sostanza, coloro che ritengono che il diritto debba prendere atto del dato economico non stanno descrivendo un fenomeno, ma stanno decidendo di accettare i presupposti che stanno alla sua base e le conseguenze che esso produce.
Ne deriva che, sempre secondo questa prima impostazione, se si vuole utilizzare l’espressione in esame bisogna chiarire che con essa si vuole intendere, ricognitivamente e riassuntivamente, l’insieme delle disposizioni costituzionali in materia, che sono, al pari di tutte le altre, espressione di una decisione costituente, come tale libera da vincoli predeterminati e derivanti da ordinamenti paralleli – come può essere quello economico. La Costituzione deve essere intesa come il luogo della libertà e dell’eguaglianza politica e giuridica, con la conseguenza che l’ordine del mercato obbliga la comunità a seguire le sue leggi solo fino a quando – e, comunque, nei limiti in cui – la comunità stessa decida di affidarsi a esse. La Costituzione, così come rappresenta un vincolo per il potere politico, allo stesso modo lo rappresenta per quello economico: c’è in sostanza qualcosa, ossia la Costituzione, che gli uomini hanno deciso di adottare per arginare, razionalizzare, controllare il potere – sia quello politico, sia quello economico (Dogliani).
3.2. Il modello forte
All’interno del secondo paradigma (quello extrapositivo) rientrano diverse dottrine, accomunate dall’idea che il dato economico crei, autonomamente e indipendentemente dal processo politico, un insieme di principi e valori di cui i poteri democratico-rappresentativi devono tenere conto.
Il primo orizzonte di pensiero riconducibile a tale modello è quello liberista che, a partire dall’idea fisiocratica della netta separazione e contrapposizione tra società politica e società civile, tra sfera pubblica e sfera privata, «predica la legalità naturale dell’ordine economico di mercato, e segnatamente del regime della libera concorrenza che in esso si presume vigente» (Hirschman). Il mercato è in sostanza descritto come «ordine naturale», inteso come sfera autonoma dotata di proprie norme il cui insieme dà vita a una «legalità naturale» (Lombardini), a cui è connessa una rappresentazione della legge positiva (innanzi tutto della codificazione civile) come «costituzionalizzazione della proprietà e del contratto e del diritto privato come la vera costituzione della società civile» (Giorgianni). I principi di neutralità e astensione possono essere derogati solo nei settori in cui non c’è l’iniziativa economica privata oppure quando questa non dispone un proprio regolamento di interessi (Sorace).
Il mercato è visto non solo come naturale, bensì anche come razionale: «l’attività economica rivela una sua specifica immanente razionalità, che si esprime nel principio economico, il principio cioè del razionale impiego di mezzi in ordine alla produzione di beni o alla prestazione di servizi» (Pavan). In tale contesto le leggi economiche vengono intese come indicazioni oggettive e universali, la cui effettiva operatività deve essere ricercata e salvaguardata.
Il secondo orizzonte di pensiero afferente a questo medesimo modello forte è quello neoliberale (Amirante, Leisner), la cui idea centrale corrisponde al convincimento secondo il quale le Costituzioni contemporanee hanno operato delle precise scelte gerarchiche in ordine agli indirizzi di fondo del governo pubblico dell’economia, con la conseguenza che tali gerarchie obbligano i poteri pubblici a scelte politiche con esse coerenti. Dall’interpretazione sistematica delle disposizioni costituzionali riguardanti l’economia viene dedotta una scelta dell’ordinamento a favore dell’economia sociale di mercato, vale a dire «di un modello economico in cui l’interventismo statale ai fini di tutela di valori sociali e collettivi non deve mai arrivare a mettere in discussione il contenuto minimo (o essenziale) delle tradizionali libertà economiche» (Cantaro). In quest’ottica, la costituzione economica è quella parte della Costituzione che, attraverso regole e principi suoi propri, è deputata a garantire l’economia sociale di mercato. Sempre in questa prospettiva, la forma dell’impresa e il criterio dell’economicità sono considerati vincoli cogenti per i pubblici poteri che svolgono attività economica (Galgano).
Il terzo orizzonte di pensiero afferente al modello prescrittivo-extrapositivo nasce e si sviluppa in Germania, contestualmente all’affermarsi del concetto di «equilibrio dell’economia nel suo complesso», vale a dire all’indomani della modifica – approvata nel 1967 – dell’articolo 109 della Costituzione tedesca, a norma del quale il Bund e i Länder devono tenere conto nei rispettivi bilanci delle esigenze dell’equilibrio economico generale, e della coeva approvazione della legge a favore della stabilità e della crescita economica (Vobruda). Dall’analisi del dibattito sorto a seguito di tale cambiamento, si evince che i quattro obiettivi posti dalla legge sulla stabilità economica – la stabilità dei prezzi, un alto livello di occupazione, l’equilibrio della bilancia dei pagamenti, uno sviluppo costante ed equilibrato – vengono configurati come vincoli che lo Stato è chiamato a rispettare quando interviene nell’economia (Kottgen). Il termine “costituzione economica” viene allora utilizzato per indicare non più lo strumento di garanzia dell’economia sociale di mercato, bensì «dell’economia di mercato globalmente diretta» (Cocozza), che tramite un marcato interventismo pubblico cerca di ridurre a sintesi i principi liberisti e quelli keynesiani. Il riconoscimento dell’equilibrio economico generale comporta in sostanza l’introduzione di uno statuto economico definito e vincolante, che vale a rendere la parte della Costituzione in oggetto una parte speciale e differente rispetto alle altre, perché comportante inderogabili vincoli contenutistici sottratti al controllo parlamentare (Ridder).
3.3. Un possibile modello mediano: il paradigma solidarista
Tra questi due paradigmi antitetici se ne posiziona un terzo, quello solidarista, che può per certi aspetti essere definito mediano.
A cavallo tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, la necessità di sostenere e di compensare le fratture e gli squilibri indotti dai processi di modernizzazione avevano indotto lo Stato ad aumentare considerevolmente i propri interventi, i quali finirono per istituzionalizzarsi e per divenire «elementi strutturali dell’ordinamento giuridico» (Giannini). L’assunzione da parte dello Stato di interi comparti di attività economiche rese in sostanza del tutto palese l’inadeguatezza, sul piano tanto descrittivo quanto prescrittivo, del modello liberale di costituzione economica. In questo contesto, le tradizionali libertà economiche liberali cessarono di essere viste come sacre e inviolabili e si iniziò a porre l’accento sui doveri inderogabili di solidarietà economica e sul necessario sacrificio dei privati nel godimento dei diritti di proprietà e di libertà di impresa allorquando fossero in gioco valori sociali e interessi della collettività (Bognetti e Maier).
Con una torsione di centottanta gradi si arrivò allora a sostenere che, pur essendo la costituzione economica un insieme di principi separati dal resto della Costituzione, fondati su valori propri e costituenti un ordine normativo a sé stante, il suo nucleo non era più rappresentato dalla proprietà, dalla libertà di iniziativa economica privata e dal contratto, bensì dal perseguimento del benessere collettivo e del riequilibrio tra capitale e lavoro. In questo modo l’uguaglianza sostanziale, i diritti sociali e il vincolo dell’utilità generale nell’esercizio dei diritti di attività economica diventarono i principi cardine per la determinazione dell’ordine economico costituzionalmente tutelato. La nozione di “costituzione economica”, intesa come determinazione normativa di un ordine dell’economia ispirato a valori solidaristi, «è assunta allora come sintomatica dell’esistenza di una diversa forma di Stato: di un inveramento dello Stato sociale di diritto e dell’istanza tipica di questo ad affidare all’ordinamento pubblico il contemperamento di contrapposti principi regolativi dei rapporti economici e sociali (l’astratta libertà individuale da un lato, l’uguaglianza sostanziale dall’altro)» (Cantaro).
In quest’accezione, la costituzione economica è dunque espressione di valori meta-legislativi che vincolano il contenuto delle norme positive e che creano un vincolo indissolubile tra stato di diritto e stato sociale.
4. Considerazioni conclusive
L’uso dell’espressione “costituzione economica” implica il problema di quale sia il giusto ordinamento economico, di quale rapporto debba sussistere tra Stato ed economia, e rimanda a tre orizzonti culturali, filosofici ed epistemologici completamente differenti.
A) L’ordine economico è del tutto indipendente da qualsiasi tipo di volontà giuridica; esso è un dato naturale, che in quanto tale deve essere accettato e rispettato. In quest’ottica il diritto ha la mera funzione di “rispecchiamento” delle leggi economiche le quali, per la loro «forza pratica» (Severino), sono di per sé dotate di un criterio interno di giustizia, che di fatto coincide con quello di efficienza. L’economia diventa dunque il parametro per valutare la l’opportunità, o meno, di ogni intervento giuridico. Secondo tale impostazione, avrà allora senso parlare di costituzione economica solo se la si intende non come categoria giuridica, bensì come locuzione, da un lato, descrittiva dell’insieme delle strutture e delle leggi economiche che caratterizzano il sistema economico e, dall’altro, prescrittiva del contenuto delle disposizioni giuridiche riguardanti l’economia. Rientrano in tale orizzonte di pensiero tutte quelle dottrine che, a grandi linee, si rifanno alla scuola classica, sottolineando la flessibilità di prezzi e salari e la conseguente capacità dell’economia di autocorreggersi (Costa e Nassisi).
B) L’ordine economico determina l’ordine giuridico, ma ciò non implica che esso sia un dato naturale che deve essere accettato; al contrario, è necessario cambiarlo, ma per farlo si deve agire sui meccanismi di produzione. È l’impostazione marxiana e marxista, che vede nella costituzione economica la sovrastruttura ideologica dei rapporti di forza dominanti.
C) Il diritto ha il potere di influenzare la struttura economica della società, la quale è frutto di una scelta politica (Keynes, Dasgupta). Esso ha una funzione autonoma e un ruolo fondamentale nel determinare l’ordinamento sociale ed economico. In particolare, si possono individuare tre funzioni del diritto: (1) rendere possibile l’attuazione della politica economica; (2) rendere valutabili le azioni economiche alla luce di criteri di giustizia a esse esterni; (3) rendere possibili politiche pubbliche che si conformino a criteri redistributivi, non ai principi del libero mercato e della tutela della concorrenza. In tale ottica è legittimo pretendere che la legittimità delle scelte attuate attraverso la legislazione ordinaria sia parametrata alle disposizioni costituzionali inerenti la materia economica. Peraltro, alcuni autori hanno sottolineato che se davvero si ritiene che il sottosistema economico possa essere, al pari di qualunque altro, oggetto di decisione politica, non abbia senso utilizzare l’espressione “costituzione economica”, essendo la Costituzione un qualcosa di unitario che disciplina, come insieme, differenti materie (Luciani).
I tre schemi concettuali sopra richiamati sono diversissimi, in quanto mentre i primi due ritengono che i termini in questione (economia e diritto) siano su piani diversi, il terzo li considera invece fenomeni storici paritetici, che si influenzano a vicenda. Nel corso della storia, gli elementi che compongono tali modelli concettuali si sono diversamente combinati, dando vita a sistemi economici differenti:
1) il sistema liberista, la cui dinamica e struttura è dominata dalle forze del capitale privato. Può a sua volta essere di concorrenza (con prevalenza del ruolo del consumatore su quello delle imprese) o oligopolistico (con prevalenza del ruolo delle imprese su quello del consumatore);
2) il sistema interventista, caratterizzato dalla presenza, accanto al capitale privato e al mercato, delle forze politiche, pubbliche e collettive;
3) il sistema collettivistico, caratterizzato – tanto nella struttura quanto nello sviluppo – dalla centralità delle forze pubbliche e collettive e dalla marginalità del ruolo del capitale privato.
L’ambiguità dell’espressione “costituzione economica” è indice, in definitiva, del contrasto tra due differenti visioni del rapporto tra economia e diritto: tra coloro che ritengono che il dato materiale sia la manifestazione di una necessità economica (presentata come) oggettiva, nei confronti della quale il diritto ha una mera funzione regolativa, e coloro che, al contrario, vedono nel diritto lo strumento principe idoneo a incidere sul dato di realtà, per modificarlo e orientarlo alla luce dei principi individuati in sede politica. Nel primo caso è l’essere del dato economico che incide sul dover essere della Costituzione, nel secondo caso è esattamente il contrario. Ecco perché sull’espressione in esame «si combatte anzitutto e soprattutto una lotta di ordine politico e culturale, e dunque almeno un senso e un valore della espressione vengono in tal modo già acquisiti: quel senso e quel valore che ne fanno un ottimo strumento ideologico» (Rescigno).
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