di Alfio Mastropaolo
Sul fatto che il risultato elettorale sia, a dir poco, urticante, nulla quaestio. Ma è eccessivo definirlo sorprendente. Per chi abbia un minimo di consapevolezza delle condizioni del paese. E per chi si soffermi a considerare l’offerta politica.
Iniziamo dall’antefatto, che sono le condizioni del paese, che pure ci sono ben note. La crescita manca a livelli accettabili almeno da un quarto di secolo. Da un quarto di secolo non c’è ombra di politica industriale. Lo Stato ha alienato i gioielli di famiglia e spesso chi li ha comprati li ha fatti a pezzi. Le imprese delocalizzano a tutto spiano. Le disuguaglianze sono cresciute in maniera esponenziale. Profondissima è la crisi della società meridionale. Da quando è stato dismesso l’intervento straordinario, dirottando l’azione di governo a beneficio del centronord, il Mezzogiorno sta peggio e si è rimangiato i progressi compiuti dal dopoguerra in avanti. Divenuto superfluo per bilanciare la presa delle sinistre a centronord, lo si è abbandonato tra le mani di una classe politica, che, tranne qualche eccezione (Bassolino, Vendola, Orlando) è prevalentemente corrotta e inefficiente e del tutto omologata: De Luca e Emiliano stanno a sinistra, ma comodamente potrebbero stare a destra.
La crisi investe tutta la politica. Auspici le cosiddette riforme istituzionali, dal ’92 è stata per i partiti una sequenza ininterrotta di fondazioni, rifondazioni, unificazioni, secessioni, ecc. Sono diventati, i partiti, marchi elettorali e niente più. In generale il livello di moralità della classe politica è molto basso. L’amplificazione mediatica degli scandali è stata dissennata. Ma i media non sono onnipotenti. Le forze politiche si sono fatte la guerra tra loro non parlando di cosa fare del paese, e per il paese, ma reciprocamente, accusandosi e discolpandosi, d’immoralità, conflitti di interesse, e quant’altro.
Tutta la macchina pubblica è in crisi. Il federalismo competitivo ha messo in guerra le regioni del sud e quelle del nord. Le pubbliche amministrazioni sono stremate dalle riforme New Public Management, la scuola e l’università sono sottofinanziate, così la sanità pubblica, e tengono per miracolo. Gli enti locali sono stati strangolati finanziariamente. In più una campagna di discredito nei confronti di ciò che è pubblico dura anch’essa da un quarto di secolo.
A questo disgraziato paese è capitata pure un’azione di governo a dir poco inadeguata. Il centrosinistra non è stato esaltante, ha fatto le privatizzazioni, ci ha portato a forza nell’euro, pensando di alienare una parte dei poteri di governo. Il centrodestra ha perpetrato un sistematico saccheggio, con la tolleranza dell’Europa, che si è scoperta severa solo all’ultimo: come del resto in Grecia. Così su un paese in difficoltà sono piombate le misure d’austerità del governo Monti. Non entriamo nei dettagli. Il ragioniere, nominato senatore per grazia sovrana, e poi con una sorta di colpo di Stato designato capo del governo per volontà dell’Europa, ha somministrato agli italiani una cura da cavallo, riforma Fornero in testa. Ai greci e agli spagnoli è andata peggio. Ma non è consolante.
Finalmente sono arrivate le elezioni del 2013. Hanno fatto finta di niente. Una formazione politica nata quasi miracolosamente, i 5 Stelle, ha preso un quarto dei voti. Ma una legge elettorale avvelenata ha dato la maggioranza alla Camera al Pd. Subito dopo la legge elettorale è stata dichiarata in gran parte incostituzionale. La cosa più appropriata sarebbe stato cambiarla e tornare subito al voto. Il Pd ha preteso di governare per cinque anni, stipulando accordi ben poco limpidi con i vari Alfano e Verdini. Tutto nell’intento di insistere con le terapie prescritte da Bruxelles. L’unico ad avere una buona idea, si fa per dire, è stato Renzi, che ha provato a anticipare il prevedibile disastro cambiando le regole del gioco. Ha perso la partita del referendum. A pensarci, viene da sorridere. Era l’illusione di un po’ di menti malate. A che punto saremmo oggi se la riforma fosse passata?
Nel frattempo un’altra crisi si è aggiunta, quella migratoria. Forse i numeri non sono stati enormi. Forse è stata amplificata anch’essa dai media e dalla propaganda leghista, ma è sicuro che è stata mal gestita. Prima l’Italia ha dato spettacolo di generosità, con la marina che setacciava il Mediterraneo. Poi però non ha condotto un’adeguata e realistica politica di accoglienza. Non è stata aiutata dall’Europa – ognuno è meridionale di qualcuno – e non ha saputo governare il fenomeno. Come minimo andava nominato un ministro o un alto commissario ad hoc. Alla lunga, vista la malaparata, si è messa la questione in mano a Minniti, che l’ha gestita con una severità non solo discutibile, ma soprattutto fuori tempo massimo. Prima buoni, poi cattivi: pasticcioni prima e dopo. Fino alla vergogna della rinuncia ad approvare lo jus soli.
Bene, se un po’ semplificando questo è l’antefatto, viene poi il fatto, che sono le elezioni, cui si è arrivati con una legge proporzionale, riscritta proprio per mettere in difficoltà i 5 Stelle. Peccato che gli apprendisti stregoni si sono rivelati assai maldestri. Ma concentriamoci anzitutto sull’offerta elettorale. Quelle più significative erano quattro. Con un’appendice. La prima è quella di 5 Stelle. È un’offerta che può definirsi a pieno titolo welfarista, in salsa antipolitica. Il reddito di cittadinanza è una misura di welfare. Possiamo discuterne l’efficacia e la fattibilità. Ma se ne discute da molto tempo, in tutta Europa, per fronteggiare la contrazione dell’offerta di lavoro imputabile alle nuove tecnologie e alla globalizzazione. Nell’offerta di 5 Stelle c’era anche altro. Una discreta dose di ambientalismo. Qualche opportunistico irrigidimento sul fronte dell’immigrazione. Ma la coronava soprattutto la promessa di un radicale ricambio di personale politico.
La seconda offerta è quella leghista. Due gli ingredienti fondamentali. L’eccitazione identitaria e razzista – “padroni a casa nostra” – e l’abbattimento della pressione fiscale. C’era pure un’offerta di rinnovamento profondo del personale politico, che ha un’interessante appendice meridionale. Salvini a Mezzogiorno ha fatto campagna acquisti di ex-fascisti o post-fascisti. Non è stata decisiva, ma gli ha assicurato qualche voto.
La terza offerta è quella berlusconiana. Roba stantia e un po’ grottesca. Non avesse avuto alle spalle un impero mediatico, sarebbe passata sotto silenzio. Solite promesse di benefici fiscali e niente più. In realtà, c’era anche una larvata prospettiva di matrimonio col Pd.
La quarta offerta è quella del Pd. Il Pd ha adottato un linguaggio e un progetto blairista fin dalla sua fondazione. Prima ci si è messo Veltroni ed è stato il disastro del 2008. Poi quel galantuomo di Bersani l’ha un po’ corretta nel 2013, dopo però aver sopportato senza resistenze la terapia di Monti. Visto che l’esito elettorale è stato sghembo, al governo è andato Letta, che ha provato a insistere sulla linea Bersani, finché Renzi non si è impadronito del partito. Per fare blairismo a oltranza, con qualche dose di demagogia. Renzi era, rispetto alle tradizioni cui il Pd si richiamava, un alieno a pieno titolo e pure a libro paga. Uno che si fa dare del cazzone impunemente da uno dei maggiori imprenditori del paese non è un modello d’indipendenza. Comunque, l’offerta elettorale che il Pdi ha avanzato per le elezioni era di seguitare sulla medesima strada blairista. Con in più la prospettiva, ipocritamente negata, ma ovvia, alla luce dei sondaggi, di un accordo con Berlusconi. Così un bel po’ di elettori si è astenuta e un’altra ha trasmigrato verso 5 Stelle.
Mettiamoci infine l’offerta di Liberi & Uguali. Lasciamo da parte la grigia confezione. Era un’onesta offerta welfarista, formulata però da gente in gran parte coinvolta nella svolta blairista del Pd. Non è riuscita a fare la differenza, come non ha fatto differenza l’offerta liberista di Emma Bonino, alleata del Pd.
Come hanno reagito gli elettori? Lo hanno notato tutti: in maniera diversa nel Centronord e nel Sud. Nel Sud l’offerta welfarista di 5 Stelle ha fatto furore. Partito dall’oltre il 25 per cento del 2013, ha di slancio superato il 40. Per contro il centrodestra ha mantenuto le posizioni del 2013 e il Pd, insieme a L&U hanno pagato pegno pesantemente. Bisogna conoscere poco la società meridionale, e nascondere dentro di sé qualche oscuro sentimento razzista, per leggervi una prova di una supposta inestirpabile vocazione assistenzialista. Donde i giovani fuggono verso lidi più accoglienti e dove la gente si affanna come pazzi, moltissimo sul fronte dell’economia informale, per sopravvivere. Il risultato nel Mezzogiorno non è comunque tale da stupire. Vaglielo a dire a una società disperata che il personale politico di 5 Stelle è incompetente. Che la Raggi a Roma è un disastro. A parte il fatto che altre amministrazioni locali che il movimento ha conquistato nel Mezzogiorno non se la cavano affatto male, l’azione di governo del centrosinistra in questi anni non è stata tale da distogliere gli elettori dal desiderio di cambiare.
Più articolato è l’esito elettorale del centronord, dove ad avere più successo è stato il mix identitario e antifiscale della Lega. Nella ex-zona bianca, nella provincia lombarda e piemontese, nella ex-zona rossa la spiegazione è piuttosto semplice. È cambiata la cultura locale. La Padania è ancora ben pasciuta. Ma ha paura. Il futuro non è così roseo. Sono pure caduti alcuni freni inibitori e alcuni soggetti che strutturavano la cultura locale sono svaniti. La secolarizzazione ha messo in dubbio il magistero della Chiesa. Magari le parrocchie restano affollate, il volontariato cattolico è attivo. Ma i discorsi solidaristici di Papa Francesco non trovano ascolto sufficiente. Nelle zone bianche la radicalizzazione a destra dell’elettorato moderato si è accentuata anche per il declino personale di Berlusconi. Nelle zone rosse il Pd non ha sostituito il Pci, ma ne ha deliberatamente svenduto il patrimonio. Dappertutto l’immigrazione non è stata governata a dovere.
E il Pd? La sconfitta è palese. E pure sanguinosa. Se la cava dignitosamente nei quartieri borghesi dei grandi centri urbani. Sembra però più l’erede del partito di Malagodi che non di quelli di Berlinguer e di Moro. Secondo un sondaggio SWG, il 15 per cento dei suoi elettori del 2013 ha votato 5 Stelle e un quinto pare si sia astenuto: è, quest’ultimo, il dato che brucia maggiormente. È consolante invece che solo il 2 per cento sarebbe emigrato verso la Lega. L’entrata in scena di L&U è stata con ogni probabilità troppo tardiva e troppo goffa per bilanciare il disastro. Il sospetto che i cocci siano troppo scombinati per rimetterli in sesto è fondato. Pd e L&U non sono soli: è successo ai socialisti francesi e greci. Quelli tedeschi e quelli spagnoli sono messi molto male. C’è l’eccezione del Labour. Dove sono però le idee e le energie per seguirne seriamente il modello?