di Francesco Pallante
La lettura dei risultati elettorali che si sta facendo strada nei commenti giornalistici e nell’opinione pubblica è che le urne abbiano restituito un Parlamento ingovernabile a causa dei vizi della legge elettorale Rosatellum. Una legge – è stato detto – fatta apposta affinché nessuno potesse vincere o, quantomeno, configurata in modo tale da impedire l’annunciata vittoria del Movimento 5 Stelle.
Limitandoci alle forze politiche che hanno avuto accesso alla distribuzione dei seggi, dal voto emerge il quadro seguente. Alla Camera: Movimento 5 Stelle 32,66%, Partito democratico 18,72%, Lega 17,37%, Forza Italia 14,01%, Fratelli d’Italia 4,35%, Liberi e Uguali 3,39%. Quasi identica la situazione al Senato: Movimento 5 Stelle 32,21%, Partito democratico 19,12%, Lega 17,62%, Forza Italia 14,42%, Fratelli d’Italia 4,26%, Liberi e Uguali 3,27%. Un dato è evidente: nessun partito si avvicina, nemmeno lontanamente, alla soglia della maggioranza assoluta. Al meglio posizionato – il M5S – mancano ben 18 punti percentuali e anche ricomponendo il quadro politico per coalizioni la distanza dalla metà più uno dei consensi rimane abissale (la compagine di centrodestra, la più votata, avrebbe comunque bisogno di un ulteriore 13% dei consensi). Che senso ha, allora, dire – come hanno fatto i principali esponenti del Pd all’indomani del voto – «gli elettori ci hanno mandato all’opposizione, dunque se la sbrighino gli altri»? Nessuno, dato che tutte le forze politiche sono, oggi come nel 2013, minoritarie.
La realtà che ci restituisce la distribuzione degli orientamenti politici degli italiani è quella di un sistema politico che, fallito il tentativo di Liberi e Uguali, permane articolato su tre poli, sia pure di consistenza differente: il centrodestra (che pesa intorno al 37% dell’elettorato), il centrosinistra (pari a poco meno del 20% degli aventi diritto) e il M5S (che raccoglie il 32% dei voti). Tale realtà sostanzialmente si rispecchia nella distribuzione dei seggi parlamentari. Alla Camera: il centrodestra può contare su 260 deputati (pari al 41,2% del totale), il M5S su 221 (il 35,1%), il Pd su 112 (il 17,7%). Al Senato: 135 senatori vanno al centrodestra (il 42,8% del complesso), 112 al M5S (il 35,5%), 57 al Pd (18,1%). In definitiva: il Rosatellum ha funzionato come una legge essenzialmente proporzionale, producendo un Parlamento che rispecchia da vicino l’articolazione e la consistenza delle posizioni politiche presenti nel corpo elettorale.
Data questa realtà numerica, che cosa allora realmente significa accusare la legge vigente di essere stata congegnata per non far vincere nessuno? La sola risposta possibile è: auspicare una legge elettorale che permetta di determinare comunque un vincitore, nonostante l’articolazione tripolare del quadro politico. Vale a dire, non una legge “semplicemente” maggioritaria, ma una legge in ogni caso majority assuring. Una legge, cioè, strutturata in modo analogo a come lo era … l’Italicum!
Come si può leggere qui, l’Istituto Cattaneo ha ipotizzato che con i risultati delle ultime elezioni nessuna forza politica avrebbe comunque conseguito la maggioranza assoluta se si fosse votato con Porcellum o con il Consultellum. YouTrend ha esteso la simulazione al Mattarellum e alle leggi elettorali inglese, francese, tedesca, spagnola e greca: in tutti i casi, nessuna forza politica o coalizione sarebbe uscita dalle elezioni con una pattuglia di parlamentari idonea a sostenere il governo autonomamente. Da sottolineare il caso della legge francese, anch’essa improduttiva di una maggioranza assoluta posto che, accedendo al ballottaggio i partiti forti almeno del 12,5% al primo turno, in moltissimi collegi la sfida sarebbe comunque stata a tre e non a due. Niente governo «la sera stessa delle elezioni», dunque, né col proporzionale, né col premio di maggioranza, né col maggioritario a turno unico, né col maggioritario a doppio turno.
Torna, allora, la domanda poco sopra formulata: cosa significa addossare al Rosatellum[1] la responsabilità dell’attuale situazione di ingovernabilità? Significa – nessun’altra risposta è possibile – invocare l’Italicum, la sola legge elettorale che, in virtù di un secondo turno di ballottaggio nazionale, anziché di collegio, e ristretto ai due soli partiti più votati, avrebbe certamente assegnato più della metà del Parlamento al partito prescelto dall’elettorato nella seconda votazione.
Non è qui necessario tornare sulle ragioni di incostituzionalità di tale legge, motivate dalla Consulta, tra l’altro, proprio per le modalità del ballottaggio eccessivamente distorsive della volontà popolare. A rilevare, in questa sede, è il profilo politico della questione, il riflesso condizionato che oramai, dopo venticinque anni di maggioritario, induce anche molti di coloro che si sono opposti alle riforme renziane a vedere nella «governabilità» il valore assoluto al quale affidarsi nei momenti di difficoltà. La mentalità maggioritaria si è radicata in profondità nel tessuto sociale, penetrando anche nello strato della popolazione che dovrebbe avere maggiore consapevolezza dei meccanismi istituzionali.
Possibile sia così lontana dal comune sentire l’idea che, a fronte di una società politicamente (e non solo) divisa come la nostra, l’urgenza è quella di ricomporre la frammentazione e non di attribuire, pro tempore, a uno dei frammenti il potere di spadroneggiare sugli altri?
Nelle situazioni come quella che stiamo vivendo, il compromesso politico non è soltanto una necessità, è un valore, perché veicola l’idea che gli «altri» non siano necessariamente nemici da combattere, ma (almeno alcuni) possano essere avversari da sfidare alla ricerca di punti di convergenza. L’accordo politico, in quest’ottica, è una dimostrazione di forza, non di debolezza. Solo chi è sicuro della propria identità, delle proprie idee, della propria visione del mondo può avere la sicurezza di sé necessaria a mettersi in discussione e di eventualmente accettare la realizzazione per il momento solo parziale dei propri ideali. Dietro la voce grossa dei Salvini, dei Di Maio e dei Renzi di questi giorni si staglia, nemmeno tanto nascosto, il terrore di chi teme che qualsiasi compromesso possa squarciare l’identità di carta velina che si sono calati addosso. Viene da sorridere a leggere che Pd e M5S non potrebbero allearsi perché i rispettivi elettorati «si stanno antipatici»… Ma è del Parlamento o di un asilo nido che stiamo parlando? Al momento del bisogno, il Pci di Berlinguer si astenne per far nascere un governo guidato da Andreotti, che, secondo la Corte di Cassazione, era (non antipatico, ma) un esponente politico in rapporti organici con la mafia! Non è certo un caso che la massima capacità di incidere sull’assetto socio-economico dell’Italia si sia avuta quando massima fu la forza parlamentare di quei partiti. Altro che governabilità! Dalla riforma della scuola media (1962) all’introduzione del Sistema sanitario nazionale (1978), passando per la nazionalizzazione dell’energia elettrica (1962), la previdenza sociale (1969), l’abolizione delle gabbie salariali (1969), i diritti dei lavoratori (1970), il divorzio (1970), la legislazione sul referendum (1970), le Regioni (1970), la progressività fiscale (1974), il diritto di famiglia (1975), la legge urbanistica (1977), l’aborto (1978), la chiusura dei manicomi (1978): tutte queste riforme vennero realizzate quando massima fu la capacità di realmente rappresentare in Parlamento le molteplici articolazioni dell’elettorato.
Oggi l’Italia è divisa come, e forse più (date le crescenti diseguaglianze), di allora. A fronte di una sistema politico diviso in tre orientamenti principali oscillanti tra il 20 e il 35% delle preferenze, qualsiasi meccanismo elettorale che trasformi artificialmente una minoranza in maggioranza finisce solo col costruire giganti con i piedi d’argilla – forti in Parlamento, deboli nella società –, privi della capacità di creare consenso popolare intorno alle decisioni imposte dentro il Palazzo. Quel che occorre, al contrario, è riscoprire la valenza profonda della funzione parlamentare, che è quella di far dialogare i diversi, non di metterne uno in condizione di prevalere a qualsiasi costo sugli altri. La legge deve tornare a essere il frutto di una discussione volta a costruire il massimo consenso possibile intorno alle soluzioni prospettate, non l’imposizione – magari a colpi di fiducia o di decreti-legge – di una parte sulle altre. Solo così si può sperare di tornare, davvero, a incidere sull’esistente.
[1] A scanso di equivoci: il Rosatellum è una legge elettorale irrazionalmente complicata e, con ogni probabilità, incostituzionale. Ma questo non perché impedisce la creazione di una stabile maggioranza parlamentare, bensì, soprattutto, per i meccanismi di manipolazione dei voti espressi dagli elettori (liste incapienti, liste deficitarie/eccedentarie, divieto di voto disgiunto, pluricandidature) che fanno dubitare dell’uguaglianza, della libertà e persino della personalità del voto in spregio all’art. 48 Cost.