Buona a nulla. La scuola della riforma Renzi-Giannini

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di Giorgio Monestarolo

 

 

La “buona scuola”, cioè la legge 107 del 2015, è stata una delle riforme simbolo della breve, ma assai distruttiva, stagione del renzismo. Doveva essere un chiaro successo: assunzioni, investimenti e innovazioni sembravano ottimi slogan per veicolare la legge, conquistare l’opinione pubblica, consolidare la leadership riformatrice del fiorentino in un settore, dal punto di vista elettorale, cruciale per il Pd come la scuola. Invece, essa si è rivelata un boomerang, tanto che lo stesso Renzi nel governo fotocopia Gentiloni, dopo la batosta referendaria del 2016, non volle la Giannini al ministero dell’istruzione sostituendola con Veleria Fedeli, passato di sindacalista Cgil, con missione speciale di recupero consensi fra insegnanti e professori.

 

Prima di soffermarci sulle criticità della “buona scuola” è forse utile ricordare alcuni mutamenti introdotti, che non hanno avuto tanta eco nell’opinione pubblica ma che sono importanti. A livello di gestione scolastica la novità più significativa è stata quella della trasformazione del piano annuale dell’offerta formativa in un piano triennale. Esso, anche grazie a una certa battaglia parlamentare, rimane votato dal collegio docenti di ogni scuola sebbene spetti al dirigente scolastico e al consiglio d’istituto formularne le linee di indirizzo. La battaglia parlamentare e la pressione dal basso della scuola hanno in questo modo impedito, così come era nel disegno di legge originario, di creare una scuola governata in modo monocratico dall’alto, con un preside “sceriffo”, espropriante i compiti tradizionali di programmazione e progettazione didattica assegnati ai docenti. Il piano triennale permette alla scuola di progettare la sua iniziativa su un tempo “medio”, necessario a definire in modo più efficace i suoi obiettivi e a individuare i mezzi e le risorse per realizzarli. Sicuramente è un passo in avanti di cui i docenti, prima di tutti, devono ancora metabolizzare le opportunità.

Un altro aspetto, ambivalente, è quello della formazione obbligatoria per gli insegnanti. La legge prevede che sia il collegio docenti a stabilirne ore e obiettivi, e stanzia un fondo ridicolo, pari a circa 1500 euro per istituto. Si tratta di una norma ambivalente perché essa può positivamente essere utilizzata dai docenti come uno strumento dell’affermazione della loro professionalità ma può anche finire in un nulla di fatto, in un semplice aggravio in più di ore, se delegato ai dirigenti, che lo possono riempire con iniziative che di contenuto formativo possono anche averne ben poco.

Sul piano della formazione non si può dimenticare poi il bonus annuale di 500 euro per acquisto di libri e materiale culturale-didattico vario: una mossa politica per acchiappare consensi che però ha raccolto una risposta piuttosto gelida; gli insegnanti sul piano economico avrebbero bisogno più che di un bonus, di un contratto europeo, del recupero degli anni perduti di contrattazione dal 2009 in avanti e via dicendo.

Bisognerebbe poi analizzare alcuni altri aspetti che la 107 demanda in delega al governo e, prima di tutto il nuovo sistema di reclutamento degli insegnanti; ma il discorso ci porterebbe lontano.

 

Passiamo ora agli aspetti problematici o realmente negativi della riforma Renzi-Giannini.

Il motivo del fallimento della legge è, a mio avviso, causato dal suo impianto sostanzialmente autoritario e dalla stessa incapacità del legislatore di offrire soluzioni di qualità ai problemi della scuola. La 107 non è solo una riforma ma è stata, anche, un’ assunzione di massa in ruolo a tempo indeterminato di neo-vecchi insegnanti precari, così come la Corte europea di giustizia aveva intimato, pena sanzioni, all’Italia, con la sentenza del 26 novembre 2014. L’operazione politica tentata da Renzi è stata quella di stabilizzare il precariato e allo stesso tempo di modificare profondamente la condizione di lavoro e giuridica degli insegnanti senza passare da un confronto con le organizzazioni sindacali e tanto meno con il mondo diffuso dell’associazionismo scolastico. Le novità introdotte in questo modo sono state tante.

In primo luogo la destinazione dei neo immessi in ruolo a quelli che si sono chiamati ambiti territoriali. Normalmente i neo immessi erano assegnati ad una scuola e cominciavano così ad insegnare. La creazione degli ambiti invece è stata funzionale da una parte all’introduzione della chiamata diretta dei presidi, un cambiamento di paradigma decisivo su cui torneremo in conclusione di questo ragionamento, dall’altra all’idea di utilizzare gli ex precari come “potenziatori”, cioè come insegnanti destinati a potenziare l’offerta formativa delle scuole. Al di là delle belle parole, nei fatti è successo che chi si è trovato negli ambiti territoriali non ha avuto una cattedra e una classe, ma è finito, nelle situazioni peggiori, a fare il supplente interno nelle scuole, nelle situazioni migliori ad affiancare i colleghi “con cattedra” in progetti didattici un poco più dignitosi. A regime, naturalmente, l’ambito territoriale dovrebbe essere esteso a tutti i docenti in modo da rendere le chiamate dirette la regola e non l’eccezione. Fra le tante controindicazioni di questo modello, e prima di tutto l’evidente creazione di un insegnante di serie A e uno di serie B, vi è stato anche quello del blocco della mobilità dei docenti. In effetti, i docenti di ruolo temevano e temono tutt’ora di finire nell’ambito territoriale perché a quel punto la titolarità della cattedra, e del lavoro inteso come professione, non è più garantita: e secondo la 107 uno dei modi per finire negli ambiti è proprio quello di fare domanda di trasferimento da una scuola ad un’altra. Così la scuola veloce e flessibile voluta da Renzi e Giannini ha paradossalmente bloccato per due anni i trasferimenti dei docenti, tanto che la ministra Fedeli ha dovuto riaprire, in deroga alla legge, la mobilità per l’anno 2017/2018, in modo da sanare una situazione che era diventata paradossale.

A questo evidente mutamento di professionalità del docente, che in qualche modo deve essere disponibile a spendersi sul mercato delle scuole ed accettare incarichi anche molto diversi dal proprio pregresso percorso di formazione e di professionalizzazione, si è aggiunta la questione del “bonus” per il merito. Il bonus avrebbe dovuto premiare il merito degli insegnanti per qualità didattica, per i risultati ottenuti nell’accrescimento delle competenze degli allievi, per le responsabilità assunte nel coordinamento organizzativo, didattico e nella formazione del personale. Una commissione di valutazione appositamente formata avrebbe dovuto, con una composizione sostanzialmente a favore della dirigenza, individuare i criteri per assegnare il bonus, compito che spettava però esclusivamente al dirigente scolastico. Gli insegnanti, che hanno un trattamento economico penalizzato, con un contratto bloccato dal 2008, attendevano l’introduzione di un qualche strumento di premialità. Il bonus, però, si è risolto in una farsa. Da una parte la dotazione per le scuole è stata irrisoria, circa 20.000 euro a istituto, le indicazioni di merito sono state vaghe, senza un minimo di omogeneità, di trasparenza e di efficacia strategica, tanto che alla fine sono rimasti scontenti tutti, i sostenitori, che si sono trovati a difendere una mancia, e gli oppositori che hanno visto in modo irrazionale offesa la collegialità della scuola e la pari dignità dell’attività docente.

Altro elemento fortemente problematico è stata l’introduzione dell’alternanza scuola/lavoro per 200 ore nei triennio dei licei e per 400 ore negli istituti tecnici. Su un tema molto delicato e sentito dalle famiglie che, giustamente, vorrebbero per i loro figli la possibilità di fare i primi passi nel mondo del lavoro, si è proceduto con una grande leggerezza e disinvoltura. Le scuole si sono dovute inventare, con un nuovo carico di lavoro sui docenti, attività di formazione-lavoro, contattando le imprese oppure rivolgendosi a enti e comuni per “impiegare” forzatamente i propri studenti. Il tutto si è risolto, nuovamente, in una situazione caotica e spesso tragicomica. Non essendoci minimamente il tessuto produttivo per formare centinaia di migliaia di giovani, l’alternanza scuola/lavoro è rimasta in larga misura sulla carta o, quando è stata attivata, è stata realizzata su progetti, anche qualificanti, che non hanno nulla a che vedere con il mondo del lavoro. I percorsi di alternanza “vera”, cioè capaci di fornire agli studenti conoscenze e competenze nuove, sono numericamente molto limitati.

 

Non è il caso di analizzare nel dettaglio altri aspetti che hanno reso indigesta la 107, oppure che ne hanno mostrato le incredibili velleità. Cerchiamo invece di guardare alla buona scuola da una prospettiva diversa, inserendola nel processo di costruzione dell’autonomia scolastica cominciata negli anni ‘90.

La scuola era stata trasformata dal basso negli anni ’70, attraverso i decreti delegati del 1974 che avevano aperto a studenti, genitori e insegnanti la gestione partecipativa degli istituti. Gli anni ‘80 sono stati anni di sostanziale assestamento, di sperimentazioni intelligenti, ma parziali, connesse principalmente allo svecchiamento dei programmi, alla definizione dei contenuti e di metodologie didattiche innovative. L’ondata di riforme inizia invece con la riforma Bassanini, la legge 59 del 1997 che istituì l’autonomia scolastica e il principio di sussidiarietà. Successivamente, toccò a Luigi Berlinguer riformare profondamente la scuola introducendo il piano dell’offerta formativa, il fondo d’istituto per finanziare i progetti curricolari ed extracurricolari, le funzioni strumentali a sostegno del dirigente scolastico, che da semplice direttore didattico diviene a tutti gli effetti il capo di una scuola pensata come un’azienda, in concorrenza/solidarietà con le altre scuole del territorio. Il compimento dell’autonomia di Berlinguer doveva essere il riordino dei cicli, introdotto con la legge 30 del 2000, che avrebbe dovuto creare un ciclo primario unico, comprensivo di elementari e medie, ridotto a 7 anni, e uno secondario, di 5 anni, risolvendo il problema della scuola media inferiore, ieri come oggi, vero anello debole del percorso formativo degli studenti, adeguando la scuola italiana al modello dei cicli prevalenti negli altri paesi europei.

Il ritorno al governo di Berlusconi nel 2001 comportò l’annullamento della legge 30 sostituita dalla riforma Moratti, che fu sostanzialmente un’operazione ideologica (le tre I: inglese, informatica, impresa), e l’attacco alla scuola del tempo pieno. Furono invece gli interventi della ministra Gelmini a influire drasticamente sul settore scolastico, attraverso tagli e riorganizzazioni. Basti qui ricordare i miliardi di euro sottratti alla scuola a partire dal 2009, la creazione degli istituti comprensivi accorpati per fare cassa, l’azzeramento delle compresenze nella scuola elementare, l’aumento del numero degli studenti per classe (passati a un minimo di 27 e a un massimo di 30 obbligatoriamente nelle superiori), il passaggio dei docenti a 18 ore di insegnamento frontali, eliminando le ore a disposizione per compresenze, progetti o supplenze. E’ stata la crisi del 2008 che ha offerto dunque il destro al governo Berlusconi, in puro stile shock economy, per realizzare tagli selvaggi sull’istruzione che effettivamente ne hanno stravolto la fisionomia.

E’ emersa, alla fine di questo decennale processo di riforme, quella che io chiamo la scuola del neoliberismo all’italiana. Neoliberismo, perché la scuola, sia dal centrodestra sia dal centrosinistra, è stata ripensata come un’impresa privata a cui il legislatore assegna obiettivi e strumenti per competere nel “mercato dell’istruzione”, in modo che dal basso, cioè a livello di singola scuola, emergano i processi di selezione naturale dei migliori, in una sorta di visione virtuosa della concorrenza che, da sola, è immaginata capace di premiare i soggetti più razionali, quelli cioè capaci di agire attraverso una razionalità mezzi-fini più efficace. Il sistema di valutazione Invalsi, in questa visione svolge un ruolo essenziale perché certifica l’efficienza dell’intero sistema, ma ancora di più spinge nella direzione dell’adozione di regole procedurali sempre più cogenti per gli attori scolastici, imbrigliati in una trama in cui il contenuto dell’azione educativa e conoscitiva passa in secondo piano rispetto alle scadenze organizzative e alle certificazioni. All’italiana, perché il gigantesco processo di trasformazione è realizzato riducendo i fondi alle scuole e massacrando i docenti, il cui lavoro in classe si è come svaporato a tutto vantaggio del mondo di carta (digitale) delle certificazioni e del “progettificio” in cui l’orario delle lezioni è stato spezzettato.

La legge 107 del 2015 è giunta così in un momento in cui le aspettative di un cambiamento si sommavano alle frustrazioni per una condizione lavorativa largamente percepita come degradata.

Essa ha avuto il merito, come rilevato fra l’altro dal compianto Tullio de Mauro, di occupare uno spazio lasciato da tempo vuoto da parte dell’iniziativa politica e di invertire, anche se in modo inadeguato, la politica dei tagli imposta dalla Gelmini, investendo sull’istruzione. La linea di fondo seguita si è rivelata essere però in totale continuità con la strategia del neoliberismo all’italiana, e per certi aspetti non poteva che essere che così.

Centrosinistra e centrodestra hanno semplicemente adeguato il modello scolastico italiano alle linee guide dettate dall’Unione europea, specificatamente attraverso la cosiddetta Strategia di Lisbona, che puntavano a rendere lo spazio europeo ultra competitivo economicamente e che necessitava, per questo motivo, di un sistema di formazione orientato al mondo delle imprese, flessibile e snello. Il perfezionamento dell’autonomia scolastica ne diviene dunque necessariamente lo snaturamento. Se la scuola serve alle imprese ed è pure essa un’impresa come le altre, allora il dirigente scolastico deve poter “premiare” e, dunque, dividere gli insegnanti, e ancor di più deve poterli assumere (e in un prossimo futuro licenziare), come deve poter gestire in modo più flessibile il loro monte ore. L’aspetto paradossale, poi, è che tale passaggio dal modello centralizzato di scuola, incardinata nel sistema del vecchio ministero e dei vecchi provveditorati, a quella reticolare e d’impresa, avvenga durante la più grave crisi economica del paese, in larga parte causata dal malfunzionamento di quelle istituzioni economiche europee che hanno predicato in nome dell’efficienza la riforma della scuola.

 

Una valutazione complessiva della 107 chiama in causa dunque tutto il processo dell’autonomia scolastica. Da una parte ci sono i bisogni degli studenti che questa autonomia non prende in considerazione: scuole sicure, attrezzate, innovative sul piano della risposta ai bisogni di educazione, di sperimentazione, di innovazione didattica. Dall’altra i bisogni dei docenti: ad avere uno stipendio decoroso, ad avere spazi dove poter lavorare, ad avere il tempo da dedicare agli allievi, ad una progettazione non ridotta in pillole, ad una valutazione che non sia un esamificio.

In mezzo, le enormi e soffocanti finzioni ideologiche della scuola-azienda. Come uscirne? Risposte semplici, a parte l’immediata restituzione dei soldi sottratti dalla Gelmini alla scuola, non ce ne sono. Sarebbe già un miracolo che i docenti riuscissero ad alzare la testa e prendersi uno spazio per riflettere sulla loro condizione. Soltanto da qui, da un gesto terapeutico di rottura, potrebbe cominciare un ripensamento complessivo del modello di gestione e governo della scuola.