Documento dell’Alleanza popolare per la Democrazia e l’Eguaglianza (gennaio 2018)
La scuola della Costituzione è la scuola che deve assicurare la mobilità sociale e dare a tutti pari opportunità per essere cittadini sovrani, inserirsi nella società e nel lavoro come soggetti liberi e consapevoli,
superando le differenze derivanti dalla famiglia e dal luogo in cui si è nati, e dalle condizioni economiche di partenza. Uno strumento fondamentale per rimuovere le cause dell’ineguaglianza, come indicato dall’art. 3 della Costituzione. E invece la scuola italiana resta, a settant’anni dalla Costituzione, una scuola classista. In cui gli alunni si distribuiscono nei diversi ordini scolastici a seconda delle condizioni di reddito e culture della famiglie di provenienza, e in cui i “dispersi” vivono tutti in famiglie povere e nelle periferie delle città, figli di migranti o di italiani poveri. Una scuola che, come diceva don Milani, continua ad assomigliare ad un ospedale che cura i sani e respinge i malati. Tutto questo nonostante l’impegno profuso da migliaia di insegnanti, di pedagogisti illuminati, da militanti del movimento operaio e sindacale, consapevoli dell’importanza che ha la scuola nel segnare le disuguaglianze fra le persone nel lavoro e nella società, per costruire una buona scuola, capace di far crescere tutti, a partire dai più poveri e svantaggiati, portando nella scuola pubblica l’ispirazione e i metodi educativi della scuola di Barbiana.
Il problema è che le riforme, dopo quelle degli anni sessanta e settanta – i tempi della scuola media unica, del sostegno alla innovazione didattica e ai programmi delle elementari, al superamento delle classi speciali per i diversamente abili, alla conquista del tempo pieno, riforme ancora segnate dallo spirito della Costituzione – hanno avuto come effetto quello di creare difficoltà e intralci burocratici alla buona scuola reale, piuttosto che aiutarla e sostenerla. Un buon inizio sarebbe quello di de-riformare la scuola: abrogando tutte le ultime riforme.
La buona scuola reale, la pedagogia per crescere tutti insieme, vive finché vive una speranza di trasformare il mondo, di promuovere la dignità e la libertà del lavoro, di vincere la fame e le guerre; entra in crisi quando ci si propone l’adattamento dei bambini e degli adolescenti al mondo com’è.
E le riforme degli ultimi anni – l’ultima, quella del governo Renzi è l’esempio più clamoroso – hanno come obiettivo l’adattamento ad un mondo che nel frattempo è diventato sempre meno uguale, sempre più ingiusto e violento. La buona scuola reale ha come asse la cooperazione educativa, la buona scuola di Renzi promuove la competizione, la gerarchia e l’individualismo, una sorta di neoliberismo dell’anima che enfatizza le eccellenze, reali o presunte, e colpevolizza chi non ce la fa.
La scuola è colpevolizzata perché non sa fornire all’economia e alle imprese quello che serve. Così si addebita alla scuola la ‘colpa’ di non preparare i ragazzi al lavoro, e si ‘rimedia’ istradandoli in percorsi di alternanza scuola-lavoro in lavori poveri e dequalificati, in imprese in cui è assente la formazione per gli stessi lavoratori. Contemporaneamente, si vanifica il lavoro della scuola per far convivere bambini di tanti paesi diversi negando la cittadinanza a chi ha un colore della pelle diverso; e le scuole che insegnano ai bambini il rispetto dell’ambiente li consegnano poi ad un mondo che l’ambiente e il territorio continua a inquinarlo e cementificarlo.
Ma la buona scuola reale è quella che interroga il mondo per cambiarlo, non quella che insegna ad adattarsi al mondo com’è. La sinistra che vuole cambiare il mondo deve dunque impegnarsi per sostenere e fare avanzare la buona scuola che ha resistito alla riforme calate dall’alto. Lavorando a sostegno di quanti oggi sono impegnati a mettere in rete le esperienze migliori: il Movimento di Cooperazione Educativa, il CIDI, le organizzazioni studentesche, i sindacati della scuola che non si rassegnano ad una lotta di pura resistenza, ma difendono gli spazi di autodeterminazione delle scuole che interpretano l’autonomia come comunità educativa.
Dove è presente nelle istituzioni locali, la sinistra, deve impegnarsi a mettere in rete la scuola con le opportunità educative e culturali presenti nel territorio, consapevole che la scuola funziona quando l’intera città sa essere città educativa. E concentra il suo impegno maggiore sulle scuole delle periferie, che sono spesso l’unico momento in cui un tessuto sociale frammentato e disperso può provare a ripensarsi come una comunità.
Una sinistra di governo dovrebbe avere come impegno prioritario la rimozione delle cause della dispersione scolastica. A partire da quelle economiche. La gratuità dell’istruzione deve essere resa effettiva a tutti i livelli, contrastando la deriva che scarica sulle famiglie, in maniera insostenibile per le famiglie più povere, i tagli al sistema scolastico e ai bilanci delle singole scuole. Una percentuale altissima, quasi la metà dei ragazzi delle superiori, ricorre alle lezioni private, per raggiungere gli standard che permettono una valutazione positiva. I compiti a casa acuiscono le differenze fra chi ha in casa libri e genitori in grado di aiutarli e chi non ce l’ha. É la scuola della meritocrazia e dell’individualismo che genera queste derive. La scuola della cooperazione educativa, quella in cui si impara tutti assieme e i più bravi diventano ancora più bravi impegnandosi a fianco di chi resta indietro, non ha bisogno né di lezioni private né di compiti a casa. Il divieto delle lezioni private deve essere accompagnato dal giusto riconoscimento economico del lavoro degli insegnanti, sottratto alla logica di una valutazione meritocratica che premia l’individualismo docente e scoraggia la cooperazione educativa.
Le scuole devono essere aperte all’educazione permanente degli adulti. La scuola italiana ha vissuto il momento più ricco della sua storia recente quando gli operai sono tornati a scuola dopo la conquista contrattuale delle 150 ore. Quando i genitori erano contemporaneamente genitori ed allievi. L’assenza di un sistema di educazione degli adulti, che vuol dire scuola, ma anche biblioteche pubbliche, teatri, cinema, accesso al patrimonio culturale del territorio, è una delle carenze più gravi del sistema educativo del nostro Paese. Eppure ha a che fare con i diritti di cittadinanza fondamentali e la vivibilità del territorio. La stessa percezione della sicurezza passa in gran parte da qui. Gli anziani che invecchiano soli si sentono infinitamente più insicuri di quelli che non hanno rinunciato a imparare, che escono di casa per vivere la città anche come un insieme di opportunità educative.
Abrogare la riforma di Renzi non è di per sé sufficiente a risolvere i problemi della scuola italiana. Ma liberarsi della logica aziendalistica e mercatistica che la ispira è la precondizione per affrontare i problemi reali che la riforma non ha affrontato o distorto: la dispersione scolastica, l’ingresso nella scuola italiana di bambini provenienti da ogni parte del mondo, la crescente demotivazione dei ragazzi e delle famiglie a investire e a impegnarsi nello studio. A quest’ultimo problema la riforma di Renzi ha risposto enfatizzando l’uso delle tecnologie, diventate un fine del percorso educativo invece che un mezzo per condividere sapere e conoscenza. Oltre che all’onnipotenza del mercato, i ragazzi sono chiamati ad adattarsi alla onnipotenza dell’algoritmo, per prepararsi ad un sistema produttivo in cui sempre più le tecnologie non sono al servizio dell’uomo, ma l’uomo al servizio delle tecnologie. Il fatto che i percorsi scolastici sempre meno abbiano come sbocco un lavoro dignitoso è risolto con il mito dell’auto-imprenditorialità. Nel frattempo l’alternanza in lavori e lavoretti per abituarsi fin da subito all’obbedienza e alla passività, al lavoro senza diritti dei call center o dei mcdonald. L’adattamento al mondo oltre che ingiusto si rivela impossibile, incapace di produrre, nelle condizioni attuali, un patto educativo fra insegnanti, alunni, famiglie. Perché il mondo a cui ci si dovrebbe adattare è un mondo senza futuro. Educare i ragazzi e le ragazze ad essere attori di un futuro possibile dovrebbe essere il compito primario della scuola. A partire dalla questione che più di ogni altra sbarra la strada al futuro, il riscaldamento climatico che mette in pericolo la stessa vita umana sul pianeta.
E’ quello che Edgar Morin indicava ai ragazzi orfani della Resistenza e del ’68: studiare per salvare il mondo. E su questo tema provare a trovare un filo comune delle discipline separate e disperse. La storia degli uomini e la storia della natura, lo studio dell’ambiente e quello del paesaggio. E questo tema doveva interrogare le professioni e i lavori del futuro. La pedagogia, come direbbe Gunther Anders, del futuro anteriore, quella che non ha paura di indicare il disastro a cui ci porterebbe il nostro modo di produrre e di consumare, ma fornisce gli strumenti per impegnarsi ad evitarlo.