Due punti di vista sulla nuova fase del capitalismo

Print Friendly, PDF & Email

di Salvatore Biasco

 

La prospettiva analitica

I libri di Streeck e di Dardot-Laval[1] sono tra i più importanti e ambiziosi tra quelli che hanno volto la loro analisi a capire come l’egemonia neo liberale sia venuta in essere e si sia man mano consolidata ed estesa. Per lo meno, questo è il terreno più rilevante su cui sviluppano la loro analisi e sul quale li seguirò, colmando anche una parte che nel mio libro Ripensando il Capitalismo, dedicato alle conseguenze di quell’egemonia, non avevo ritenuto di sviluppare[2].

Scelgono fuochi diversi. L’uno (Dardot-Laval, da ora in poi D-L) concentra l’attenzione principale sulle trasformazioni soggettive, e quindi sociali, introdotte dal neo liberismo, come riflesso di logiche istituzionali e normative che fissano e condizionano comportamenti e culture. L’altro la concentra sui connotati via via diversi che il capitalismo prende a partire dagli anni ’70, a seguito del conflitto distributivo e di potere ingaggiato dai “capitalisti” per sfuggire alle strettoie di regolamentazioni e rapporti di forza che ne imbrigliavano l’azione e schiacciavano pericolosamente i profitti.

La “nuova ragione del mondo” è la razionalità del neo capitalismo estesa all’intera esistenza. Quella nuova ragione è tanto nella pervasività dei comportamenti concorrenziali, ormai introiettati da persone e istituzioni, quanto in un ordinamento globale che tende a imporli ai vari livelli e ad agire come fonte disciplinare. D-L sottolineano da subito che il neo liberismo non ha nulla a che vedere con il laissez faire tradizionale, vale a dire con quella visione che postula la libertà di mercato e per la quale la sfera statale è una sovrastruttura, ed è parte separata da quella economica, che segue le sue regole e, se non disturbata, determina gli esiti ottimali. Il neo liberismo, invece, nasce da subito come tendenza a una nuova organizzazione di uno Stato compenetrato all’economia (tutt’altro che “leggero”). Uno Stato che tende a organizzare il mercato e fissarne la logica in norme giuridiche e comportamentali e in organizzazione burocratica e tecnocratica, che nel loro insieme estendono la competizione come principio oltre le frontiere tradizionali del mercato. A quelle regole di competizione viene assoggettato lo stesso Stato all’interno delle sue articolazioni. Esse vengono diffuse e introiettate a tutti i livelli e creano una “soggettività contabile”. Ciò che con il loro trionfo prende corpo è “un insieme di dispositivi tanto discorsivi, quanto istituzionali, politici, giuridici, che formano una rete complessa e volubile” (pag. 475). D-L seguono il loro formarsi con una serie di angolature filosofiche, politiche, antropologiche e sociologiche (e solo in un sottofondo alquanto lontano, economiche), le quali si irradiano da una prospettiva analitica foucaultiana.

Streeck è più attento alla prospettiva economico-sociale, nella quale identifica le logiche vincenti del “capitale”. Egli rende esplicito da subito che, nella sua accezione, “capitale” non è un’astratta categoria del capitalismo, ma sono persone in carne e ossa che agiscono come classe e usano la forza sociale di cui dispongono. Questa forza sociale è stata impiegata per rompere la gabbia del compromesso “socialdemocratico” e della piena occupazione, quando quel compromesso aveva determinato, alla fine degli anni ’60, un “eccesso” di forza contrattuale dei lavoratori, di rivendicazioni “insostenibili”, di correttivi del mercato “insopportabilmente” costrittivi.

Tuttavia, tenere a freno e far retrocedere la forza contrattuale dei lavoratori e piegare a proprio vantaggio la ripartizione dei proventi in un quadro sociale (e potremmo aggiungere, culturale) nuovo, non basta da solo ad assicurare la salvaguardia e la protezione dei profitti, perché quella liberazione da una tenaglia regolatrice e rivendicativa necessita, in ogni momento e fase, anche di sposarsi con un mercato dinamico. Sono condizioni entrambe necessarie per il “capitale”, ma contraddittorie. Se una via di uscita di volta in volta diversa ha consentito di superare questa contraddittorietà, oggi le vie di uscita – afferma Streeck – non sembrano più esistere. Il “tempo guadagnato” del titolo del libro va letto in relazione a un redde rationem, sempre latente e sempre evitato, che – pur non potendo esser certi di quale tipo sia – ora non sarà certo indolore.

In sintesi, questa ricerca delle vie di uscita caratterizza tutte le fasi che hanno reso vincente lo svilimento e superamento del compromesso socialdemocratico, e che cominciano con l’inflazione degli anni ‘70. Nel corso di quel decennio questa mutò molti dei connotati del capitalismo occidentale, ma mantenne un’illusione monetaria attraverso la quale fu possibile garantire – pur nel mutare della distribuzione del reddito – una domanda globale mediamente ancora elevata. A essa subentrò la fase disinflazionistica, cui diedero vita Reagan e Thatcher, e nella quale furono i deficit pubblici a venire in soccorso della domanda globale. Iscritti sotto il segno di classe di un’élite dominante che è ormai refrattaria al compromesso sociale, questi sono generati dalla riduzione delle tasse che quell’élite riesce a imporre a proprio vantaggio, facendone ortodossia di politica economica e indirizzando il bilancio pubblico verso spese di cui è ora la principale beneficiaria. Ai deficit pubblici seguono, nella fase successiva, quelli privati, cui sono spinte pure le classi non abbienti, che possono così supplire alla stagnazione dei redditi da lavoro e ottenere rivalutazioni in conto capitale che creano l’illusione di un benessere in espansione. La crisi finanziaria, trasmessa al settore reale e poi, ancora, trasformatasi (anche) in crisi valutaria (europea) è cronaca dei nostri giorni. La fase di consolidamento fiscale che ne è scaturita, ha la funzione di garantire i creditori della solvibilità dei crediti accumulati. Anche qui c’è un segno di classe nella legittimazione che quel consolidamento, diventato dogma, dà al ritiro ulteriore da ciò che residua dello stato sociale e a una sempre più pronunciata mercificazione del lavoro e diseguaglianza nella sfera economica e sociale.

Si è passati da un espediente all’altro. Per Streeck la concatenazione delle fasi si spiega con le difficoltà, le contraddizioni e i costi che quella precedente porta con sé per i percettori di profitto fino a che l’insostenibilità economica e sociale, che le era implicita, ne richiede il superamento in una successiva, a un altro modo di guadagnare tempo. Dopo la crisi del 2008 trovare un nuovo espediente sarà difficile. Streeck formula alcune congetture (oltre che indicazioni di azione) a proposito dei possibili sviluppi futuri. Poiché anche D-L si chiedono quali, dopo la crisi, possano essere le prospettive future di una società sempre più omogeneizzata, sì, nella razionalità dominante, ma in difficoltà con i suoi stessi principi di governance, rinvieremo in fondo la trattazione congiunta del tema.

 

Le forze coercitive esterne

“Tempo guadagnato” è certamente un libro denso, a tratti accattivante, che non riceve giustizia dalla succinta presentazione che ne ho fatto. Ogni capitolo è argomentato in modo ampio, con dovizia di cifre e di documentazione (anche significativamente aneddotica); è pieno – come d’altra parte D-L – di riferimenti bibliografici. Essendo tedesco, Streeck non può esimersi dal confrontarsi con le tesi della scuola francofortese degli anni ’60, che vedeva il capitalismo incorrere in una crisi di legittimazione sociale, cui lo condannava l’incapacità di soddisfare le aspettative crescenti della massa della popolazione e il diffondersi di comportamenti estranei alla sua logica, che la stessa crescita costante del benessere aveva suscitato. Il confronto tra la realtà e questa tesi è una parte certamente felice del libro: la tesi non ha retto alla storia successiva (e neppure la prevista diffusione di comportamenti e culture estranee al mercato e alla sua ideologia lavorista si è verificata). “Soprattutto, chi ha sottratto legittimazione al meccanismo sociale del primo dopoguerra – afferma Streeck – non sono stati i lavoratori o le masse, ma il capitale che ha messo in azione le armi di cui disponeva (in pratica lo sciopero degli investimenti e l’offensiva ideologica) per chiamarsi fuori da un meccanismo di mediazione e controllo che avvertiva non assicurare più il profitto che si era riservato”[3].

Streeck ha urgenza di andare al sodo delle logiche che hanno prevalso, in una sorta di osservazione telescopica delle varie fasi, che non si ferma a guardarle troppo da vicino. Ma, così facendo, finisce per semplificare eccessivamente il profilo della società occidentale, la quale, di fatto, viene rappresentata in modo dicotomico (“coloro che dipendono dal profitto”, cui talvolta aggiunge “i loro alleati politici”, e “coloro che dipendono dal salario”); e finisce anche per rendere il succedersi dei processi troppo lineare e geometrico nel loro seguire logiche di convenienza delle classi abbienti. Al microscopio, quei processi risultano più complessi, contraddittori, con una pluralità di protagonisti, e non solo riconducibili all’agire consapevole (e vincente) dei capitalisti (che allo stato di fatto andrebbe pensato come strategicamente miope o poco lungimirante se incapace di ricomprendere quei limiti della soluzione contingente che si faranno vedere in seguito e necessiteranno di un riorentamento che ponga in vita un nuovo “espediente” strategico). E’ ovvio che le élite economiche sono spinte dal loro “pilota automatico” ad agire secondo le logiche suggerite dal proprio essere e convenienze sociali ed economiche, ma questo avviene in un mondo di interazioni dalle quali scaturiscono forze che, se anche giocano a favore di questo o quel contendente non è detto che siano state da quest’ultimo consapevolmente organizzate e dirette, ma possono essere semplicemente state utilizzate. Maggior attenzione meriterebbero le dinamiche endogene che plasmano i contesti. Esse finiscono per agire soprattutto sulle politiche economiche, attorno alle quali si forma una morsa, che le stringe e costringe tra le due ganasce, di una sempre maggiore integrazione internazionale da un lato, e di una trasformazione della società verso una crescente articolazione e apertura del ventaglio sociale, che differenzia le domande e complica le coalizioni sociali, dall’altro. Non c’è bisogno di pensare che i governi siano espressione solo di classi abbienti. A volte sono espressione di coalizioni molto ampie che includono masse popolari. Eppure, quale che sia lo schieramento vincente, quella gabbia di acciaio che si va formando attorno alle opzioni di governo lavora per una conduzione degli affari che si discosta sempre meno dai (e successivamente cade appieno nei) canoni che a poco a poco sembrano individuare l’unica via possibile alla crescita. Sebbene nulla sia deterministicamente costretto, anche in un contesto che ha una forza compulsiva, dal punto di vista analitico sarebbe sempre meglio tenere presente che quel comportamento dei governi è tenuto dentro binari stretti da logiche “coercitive esterne”, che possono essere rotte solo con una forza politica e una volontà straordinaria, che, invece, si va perdendo, in primo luogo per debolezza culturale della sinistra.

Analiticamente, “le forze coercitive esterne” e le dinamiche endogene sono altrettanto importanti dell’agire strategico (fra l’altro di protagonisti collettivi che solo con una forzatura sintetica possiamo vedere come coesi e omogenei). E questo è vero a maggior ragione se la politica si arrende ai vincoli che trova. Marx parlava della concorrenza come “forza coercitiva esterna” con riferimento a quegli esiti che sono il prodotto dell’interazione, che nascono dal volere consapevole di nessuno, e che diventano condizionanti per tutti. La concorrenza come portato del capitalismo s’impossessa dei capitalisti e li costringe ad accumulare[4]. Qui l’esempio, al di là dell’indicazione metodologica, è perfino pertinente nello specifico, se riferito alla razionalità neo liberale di cui parlano D-L (razionalità, che comunque è per loro un programma sorvegliato politicamente). Personalmente sono molto d’accordo con loro quando affermano che non si possono “scambiare i risultati di un processo storico per dei fini inizialmente prefissati in piena coscienza”, … né “che il ricorso all’intenzionalità di un soggetto sia il principio ultimo di qualunque intelligibilità storica” (pag. 14). “La società neo liberista nella quale viviamo è il risultato di un processo storico, gli elementi che la compongono si sono formati a poco a poco, interagendo e rafforzandosi gli uni con gli altri” (pagg. 15-16)[5]. Sono meno d’accordo con la loro – pur pregevole analisi – quando sembrano dare l’impressione che gli elementi abbiano agito tutti con pari grado, e senza gerarchia, nei processi che hanno dato vita al mondo che si è formato. Personalmente avrei dato più enfasi alla demolizione di una costruzione culturale, politica, e disciplinare, che avviene dal periodo inflazionistico; demolizione che è l’elemento pivotale che muove il processo culturale. E’ il progressivo affermarsi di quella visione dell’economia e della società a fornire la cassetta degli attrezzi per la politica e per la politica economica, anche quando i connotati ideologici che essa nasconde non hanno ancora avuto affermazione. Idee sull’inevitabile inefficienza dello Stato e della regolazione, sulla necessità di politiche di offerta (nei mercati), sulla distorsione nel mercato del lavoro portata dai sindacati, sulle controindicazioni del welfare state, e simili diventano diffuse prima ancora che valori e presupposti ideologici sottostanti si siano affermati come dominanti e prima ancora che la trasformazione del senso comune e dei comportamenti conformi al nuovo capitalismo siano diventati la norma e si sia imposta la logica soggettiva della competizione. Anche per D-L vale quanto affermato prima, che, ponendo l’analisi dei processi all’interno della gabbia che si stringe sulle politiche economiche, si capisce meglio il brodo da cui prende forza il neo liberismo. Per questo ripercorrerò gli eventi dal punto di vista delle logiche interne da cui essi sono dominati e del quadro di contorno che ne segue. Ma l’analisi di questi due autori è perfettamente integrabile in ciò che dirò in seguito.

 

Le ragioni delle svolte viste con più dettaglio

Ritornando a Streeck, il suo libro contiene certamente alcune verità di fondo sulla sostanza delle cose e pregevoli analisi, ma trova un limite nelle semplificazioni cui indulge e non risulterebbe formativo per un giovane quadro politico in formazione che non abbia la possibilità di discernere autonomamente ciò che è da prendere (singoli pregevoli spaccati) e ciò che è da lasciare (l’impianto metodologico rigidamente funzionalista). Esprimo questo giudizio relativamente al contenuto della sua analisi e indipendentemente dall’opinabilità delle conclusioni che ne trae circa la desiderabilità di una rottura dell’euro. In pratica é come se il libro di Streeck avesse due fuochi, quello analitico e ricostruttivo, cui strettamente mi attengo ora, e quello dedicato alle indicazioni programmatiche, che qui trascuro[6].

Beninteso, nessuna delle tappe nel panorama evolutivo delle società occidentali, che tenterò di ripercorrere seguendo Streeck, risulta agli antipodi con la razionalizzazione a posteriori che egli ne dà, anche se si presenta con alcuni caratteri che esulano dalle sue geometrie e con qualche elemento di casualità.

Non vi è dubbio che l’inflazione da fine anni ‘60 in poi costituisca il punto di svolta. Fino ad allora per chiunque fosse al governo (socialdemocratico o conservatore che fosse) la legittimazione politica andava conquistata sul terreno della redistribuzione, del miglioramento delle opportunità per le classi subalterne, del contenimento delle ineguaglianze, del coinvolgimento del sindacato in un patto corporativo che implicava la rappresentanza dei lavoratori[7]. Quel compromesso era stato favorito – come non sempre è posto in evidenza nelle analisi del periodo – dai particolari intrecci dell’economia internazionale nei quali una serie di rimandi espansivi virtuosi potevano tenersi in azione e superare potenziali incongruenze e minacce che li avrebbero bloccati, grazie a valvole di composizione (spontanee e no) attraverso le quali la congiuntura espansiva poteva auto perpetuarsi[8]. Col mutare dei rapporti di forza interni a causa dell’elevata occupazione e l’accrescersi della forza sociale dei ceti subalterni (a causa di un meccanismo decisionale e istituzionale che ha bisogno di consenso di massa per funzionare) diventava sempre più difficile attuare politiche flessibili o mantenere i comportamenti dentro criteri disciplinatori fissati dall’ortodossia finanziaria, che già allora prevedeva una conduzione del tipo “stop and go” (raffreddamento, teso a decongestionare il mercato del lavoro, e ripartenza dell’economia). Lo “stop” aveva comunque il vantaggio di non sincronizzarsi con comportamenti analoghi di altri paesi e non pesare singolarmente su un ciclo internazionale ascendente cui il paese si poteva riagganciare per ripartire. Sebbene le economie occidentali fossero spinte verso l’esterno, dove la concorrenza del commercio estero avrebbe stimolato la crescita e funto da calmieratrice, l’inflazione diventava sempre meno comprimibile. Col passare del tempo, mantenerla a freno con politiche “di rigore” comportava una regolazione politica ed economica, nonché distributiva, su cui i governi andavano perdendo la presa, a causa dei costi politici che avrebbe comportato. Il meccanismo di “stop” non consentiva più di attribuire i prezzi sociali dell’aggiustamento interno senza la reazione dei ceti su cui prima era facile scaricarli, perché la disoccupazione e lo scontro sociale che tale ciclo discendente avrebbe potuto comportare, erano troppo rischiosi politicamente per essere privi di garanzie di successo. Nei caratteri del periodo “glorioso” del capitalismo occidentale non sono secondari il pathos, la mobilitazione di massa, l’impronta decisamente solidaristica e l’elaborazione culturale che sono dietro all’avanzamento di politiche welfaristiche e di alta occupazione. Non era facile quindi controllare il processo. Non lo è, quando ciascun gruppo è in condizioni di amministrare un qualche parametro (in alcuni casi la semplice forza dell’azione collettiva, in altri, le leve economiche dirette) capace di condizionare le politiche generali e singoli provvedimenti, o capace di ripristinare la propria quota di reddito ogni qual volta sia minacciata.

E’ cruciale che all’inizio degli anni ‘70 le inflazioni interne non siano più represse dall’economia internazionale ma ratificate dai processi che accompagnano l’agonia (e poi la fine) di Bretton Woods[9], segnati dalla fuga dal dollaro, dall’abbandono dei cambi fissi, dall’inflazione come fenomeno internazionale e da una spinta eccezionale della domanda mondiale, dovuta a fenomeni monetari. L’inflazione diventa regime di un’epoca ed è in salita. Tuttavia, a cavallo tra la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70, la sua dimensione all’interno dei paesi occidentali è poca cosa se vista con gli occhiali di ciò che successe con l’esplosione dei prezzi delle materie prime, e, in particolare del petrolio[10]. Certo, possiamo endogeneizzare questo evento mettendolo in relazione all’influenza diretta e indiretta dello stesso corso inflazionistico e alla rottura dell’ordine monetario mondiale, che genera aspettative inflazionistiche, una domanda speculativa eccezionalmente elevata di beni primari, e ampie possibilità di credito a sostenerla. In più, l’anarchia di quel trapasso epocale che accompagna la fine di Bretton Woods, favorisce, lo spazio di autonomia e capacità di manipolazione dei mercati da parte dei produttori alla periferia del sistema comportando l’incapacità di dissuasione e la perdita di egemonia nel sistema occidentale, Ma, anche riconducendo con una certa elasticità, quell’esplosione dei prezzi primari a un processo endogeno di conflitto sociale nei paesi occidentali, non si giustifica che Streeck citi solo en passant le crisi petrolifere degli anni ‘70 come se fossero fatti incidentali e irrilevanti di fronte all’essenza del quadro sociale che vuole mettere in evidenza.

Quel superamento di Bretton Woods, che rompe l’ordine internazionale (sempre meno tenibile), fu una decisione unilaterale degli Usa, dettata non tanto da ragioni di rapporti o obbiettivi di controllo sociale interno, quanto dall’insofferenza verso i vincoli di politica economica che gli accorgimenti di Bretton Woods imponevano a quel paese, nonché da un qualche retropensiero di creare difficoltà all’ascesa produttiva che Germania e Giappone (e altri paesi – europei – allora emergenti) stavano avendo grazie ai cambi sottovalutati. Possiamo reinterpretare tutto ciò nei termini di una classe capitalistica “mondiale” che si riprende la sua libertà di fronte ai lacci e ai “pericoli” in cui è costretta dal compromesso sociale? Forse. Non saprei rispondere con certezza, ma ci vogliono tanti passaggi d’interpolazione per arrivare alla risposta sicura di Streeck.

In Europa quel mutamento dei rapporti di forza nella società a favore del mondo capitalistico, che finì per prevalere negli anni ‘70, emerge anche come esito di un fattore d’interazione internazionale. Le premesse non rendono quell’esito un evento casuale, ma le condizioni che crea non erano previste nelle strategie che si innestano su di esso. Il che non vuol dire che esse fossero neutre dal punto di vista culturale e sociale. Ciò che non era previsto è che i cambi fluttuanti agissero globalmente in senso restrittivo e disciplinante, che l’economia internazionale stentasse ora a trovare un motore di crescita e che questo prendesse un andamento ciclico cui le economie occidentali non erano abituate, mentre l’inflazione continuava a mantenersi elevata e una via di uscita non appariva a portata di mano[11]. Viene progressivamente meno negli anni ‘70 la sicurezza nell’espansione duratura e l’intero periodo è dominato da una condizione d’incertezza, che non era conosciuta prima e che si impadronisce dell’intero corpo sociale.

Per un certo periodo degli anni ‘70 l’inflazione ha l’effetto anomalo (rispetto a precedenti esperienze) di schiacciare il ventaglio dei redditi, a causa della progressività delle aliquote e del potere di difesa che hanno ancora i sindacati, delle politiche tariffarie e delle legislazioni in materia di affitti. Persino i pensionati – un gruppo tradizionalmente individuato come perdente – hanno quasi ovunque incrementi di reddito superiori all’inflazione. Le attività finanziarie più esposte a perdite di valore son possedute da percettori di classi di reddito medio e medio alto. Ma qualcosa sta cambiando effettivamente. Prima della metà degli anni ‘70 l’ampiezza e durata di un ciclo recessivo necessario a produrre effetti stabilizzanti (lo “stop”) spaventava qualsiasi governo e lo consigliava di usare il finanziamento esterno o interno al fine di evitare l’inasprirsi della contesa sui costi dell’aggiustamento, come già detto. In quell’epoca sarebbe stata inconcepibile l’azione di un’autorità monetaria autonoma che si rifiutasse, come accadrà poi, di avallare un eccesso di finanziamento al settore pubblico o privato, o che non assecondasse il governo nei suoi desideri sui tassi d’interesse[12]. Ma nella generalità dell’andamento asfittico, ciclico e inflazionistico degli anni ’70, i mutamenti di criteri e finalità nella conduzione della politica economica, che poi è il sintomo di un ribaltamento dei rapporti di forza, non erano più affrontati dal singolo governo isolatamente, ma congiuntamente, con reciproco rafforzamento, da un insieme di paesi, ai quali, oltretutto, la recessione non basta più per ottenere effetti sui prezzi. Non c’è più un ciclo internazionale ascendente che renda indolori e contenute le operazioni di stop and go (e sullo sfondo ci sono i cambi fluttuanti che pongono sempre una minaccia di destabilizzazione). La capacità di resistenza dei sindacati si attenua quando la controparte non appare più solo interna, ma si sfuma in una generica economia internazionale. E quest’ultima è imbrigliata: non presenta più i fattori permissivi di prima, poiché sono scomparse le valvole di composizione delle eventuali incongruenze tra obbiettivi di politica economica reciprocamente incompatibili tra paesi. Che in tutto ciò la forza dei ceti subalterni diminuisca è indubbio, ma non in un capitalismo ordinato che prediligono i capitalisti e che si mantenga prospero (per loro).

Non è del tutto vero che, se lo scenario finirà per mutare, ciò avvenga programmaticamente per far fronte all’incertezza dei processi di accumulazione di un regime che pur ha mutato i rapporti di forza e che ne sia protagonista solo un generico capitale internazionale. Qui uno schema dicotomico e un certo funzionalismo non aiutano Streeck nell’analisi. L’inflazione è stata distruttiva del cemento sociale, che già risentiva – come portato del lungo periodo di incremento dei redditi – di un’articolazione della società più aperta e più differenziata nelle domande rivolte allo Stato e nel consumo di servizi pubblici. L’inflazione portava insicurezza, perdita di fiducia collettiva, voglia di protezione. Alimentava il disagio delle classi medie, di per sé impaurite dall’incertezza del futuro in un ordine sconvolto, e le compattava attorno a idee di restaurazione e palingenesi. Ed è una condizione difficilmente gestibile dalla sinistra, che già si snaturava in problemi di stabilizzazione ed era sottoposta a un’offensiva ideologica cui non era preparata. Ad essa sarebbe occorsa sul piano ideativo e pratico una forte dose di creatività, mentre si è trovata coinvolta in mille battaglie difensive, scoprendo ora che le singole istanze mancavano di coagulo e solidarietà in ceti non coinvolti, in quanto venivano vissute e percepite come (talvolta, erano diventate) istanze particolari e non più d’interesse e valore collettivo. La forza della sinistra non poteva autoriprodursi spontaneamente sull’onda rivendicativa, perché la dinamica delle diverse spinte corrodeva quel sistema di alleanze dall’interno. Quel sistema di alleanze, formatosi grazie alle politiche di solidarietà sociale, cominciava a sfaldarsi. Per non sfaldarsi, aveva bisogno sia di una proposta di governo che rielaborasse su altro piano il compromesso sociale, sia di progettualità dentro la quale mediare le singole istanze (e forse aveva bisogno di un riconoscimento che esistono costi e benefici sociali della spesa pubblica e del sistema vincolistico, non solo i secondi). La sinistra dovrà scoprire più tardi quanto i mutamenti di umore fossero andati avanti, quando le lotte cui dava valore simbolico, per tutte quella dei minatori in Gran Bretagna, che meno di dieci anni prima l’avrebbero avuta vinta in pochi giorni coagulando una solidarietà generale, trovavano ora un muro in governi espressione di mutate coalizioni sociali, i quali dimostravano di poter resistere un giorno di più senza compromettere il consenso. (La vicenda della scala mobile in Italia rientrerà parzialmente in questo quadro).

Il contesto cambia, quindi, più che per i limiti della “strategia” inflazionistica percepiti dal capitale, per quel consenso che gradualmente si forma in molti stati intermedi (e non solo) della popolazione intorno all’idea che l’economia vada stabilizzata per combattere l’inflazione e che i meccanismi (anche sociali) vadano cambiati. Guadagnano favore le narrazioni (anche se non proprio le politiche) neo liberiste dei mali della società. Di quel consenso sono protagonisti non solo grandi capitalisti ma, in primo luogo, vari strati intermedi, di piccoli proprietari di percettori di redditi fissi, di esercenti attività commerciali, ecc. che costituiscono la base elettorale delle vittorie di Thatcher e Reagan. Un mio amico diede una interpretazione di questo periodo come “la rivolta del bazar”, che non sarà un’interpretazione scientifica, ma è molto evocativa.

Ho insistito su questo punto perché ritengo che una mancanza di comprensione (anche storica) del carattere corrosivo e distruttivo che un’inflazione elevata porta con sé all’interno del corpo sociale (oltre che della difficoltà, in quel contesto, di creare coalizioni progressiste) conduca con leggerezza (e generosità) Streeck a ritenere che la riappropriazione del cambio e la svalutazione conseguente possano essere la soluzione migliore per le economie capitalistiche più deboli dell’Unione Europea.

Il periodo che segue è quello caratterizzato dai deficit pubblici, e si presenta indubbiamente con molti dei caratteri che Streeck analizza col suo telescopio: in mancanza di un mercato interno in salute, ormai frenato dalla contenuta dinamica dei redditi personali e dalla debolezza politica dei ceti subalterni (e, aggiungo, da scarso desiderio dei governi di riattivare condizioni che ne riproducano la forza), il nuovo fattore di salvaguardia è un debito pubblico (stock) che si accumula nei paesi occidentali a seguito di deficit correnti e che funge da supplenza. Egli rovescia le interpretazioni che attribuiscono l’espansione del debito a un eccesso di domande e rivendicazioni popolari, cui le politiche pubbliche avrebbero risposto allargando i cordoni della borsa. Afferma con forza che non è così: non solo quelle domande popolari vengono contrastate il più possibile, anche con ritorni all’indietro rispetto alle conquiste che sembravano permanenti, ma un’analisi della qualità della spesa pubblica rivela che l’espansione è avvenuta dove funzionale alle esigenze della produzione e dei capitalisti, in nome dell’economia dell’offerta. Al centro di tutto c’è il dato saliente che i nuovi rapporti di forza mettono in condizioni i ceti più abbienti di rifiutare la tassazione e la decurtazione dei propri redditi (vedi i programmi di detassazione), cioè di rifiutare il contributo che sarebbe stato necessario a finanziare la spesa per tener testa all’espansione dei bisogni. In un certo senso, quel deficit di bilancio pubblico è funzionale in doppio senso alle esigenze del capitale e legittima il suo egoismo sociale. I possessori di ricchezza divengono anche i creditori dello Stato. In un primo momento si preoccupano di essere remunerati con alti tassi d’interesse e in un secondo rivendicano politiche che li garantiscano contro i pericoli di solvibilità.

Anche se è giusto porre in evidenza che, dagli anni ‘80 i processi politici si vadano adeguando a una nuova logica sociale, di governo e di rappresentanza e peso nel processo decisionale, funzionare con un solo agente (collettivo) come protagonista continua a essere una semplificazione troppo forte dell’analisi. Streeck non ha dubbi nei suoi giudizi, implicitamente controfattuali, che con differenti rapporti di forza sarebbe stato possibile tenere alta la tassazione (e la spesa sociale). Personalmente non so se qualche limite oggettivo alla tassazione esista e se questa sia perennemente espandibile, mantenendo il consenso e gli incentivi all’accumulazione. Occorre, tuttavia, chiederselo, anche se penso che Streeck abbia ragione quando implica che la sopportabilità della tassazione è un fatto culturale, di rapporti di forza e di norme sociali accettate. Ma ormai i governi occidentali si erano posti sulla lunghezza d’onda di un “bazar” che aveva assorbito e fatto diventare senso comune l’”insopportabilità” della tassazione, elevandola a questione politica verso la quale è mancata una resistenza culturale o una contro mobilitazione che ponesse un argine a questa penetrazione di giudizi, sentimenti e analisi. Siamo ancora alla “rivolta del bazar”. Da quella “rivolta”, che Streeck trascura, proviene anche una critica, sempre più pronunciata (ed elettoralmente pesante) a entità e indirizzi di spesa, che fa diventare questioni di disputa politica gli sprechi e gli eccessi. Ma, soprattutto, acquista rilievo politico la messa in discussione dei criteri sociali che dirigono la spesa dove è ritenuta sostenere “gente” disincentivata a essere un buon “cittadino” responsabile del capitalismo che si sta affermando (questo tema è un cavallo di battaglia di D-L). Si aggiunga che la differenziazione delle domande di servizi rivolte alla sfera pubblica, è ora fonte di accuse a uno stato sociale burocratizzato e uniformante. L’intero quadro di azione della politica economica diventa ora più vincolato dai sentimenti diffusi e più’ variegato per adesione al bene comune. Non trova né ricomposizione né antidoti culturali a sinistra: i governi che ne sono espressione non sono più in grado di sfidare isolatamente il consenso che si va formando. E’ ovvio che quel consenso trovi nei media, nelle èlite conservatrici, nell’accademia, nel “capitale” e nella finanza chi lo diffonde e lo consolida.

 

Un approfondimento della svolta reaganiana

Sebbene lo stare sull’essenza delle cose, come piace a Streeck, non porti a prospettive in sé infondate, il processo che si trae dalla sua analisi – e che lega la chiusura di una fase allo sviluppo (ma prima ancora all’apertura) di un’altra – risulta, a un’osservazione al microscopio, ancora una volta, troppo consequenziale e preordinato, anche quando interpretato come reazione alle contraddizioni sviluppatesi in precedenza. Risulta più una razionalizzazione ex post che lo svilupparsi di un disegno concepito dal capitale nella sua funzionalità e razionalità.

Vorrei sostare sull’epoca reaganiana con qualche pagina in più non tanto a proposito dell’analisi di Streeck (e nemmeno in contrapposizione ad essa) quanto per inquadrare una fase cruciale nel passaggio da un’epoca all’altra e disegnare il contesto in cui inserire le argomentazioni di entrambi i libri (pur dal loro differente piano di analisi).

Quando Reagan vince le elezioni, la sua diagnosi è semplice: se vi era stata un’insoddisfacente prestazione dell’economia internazionale negli anni post Bretton Woods, la ragione stava nel fatto che singolarmente le varie economie erano state bloccate nella loro crescita da intralci nei mercati e regolazioni amministrative e legislative che limitavano l’incentivo alla produzione e all’allargamento della capacità produttiva. In più, l’illusoria acquiescenza della politica monetaria aveva prodotto solo effetti nominali. La sua visione di offerta negava l’interdipendenza del sistema internazionale (su cui aveva insistito il suo predecessore, Carter), implicando che questo fosse nulla di più di una somma di singole economie. Ciascuno doveva portare ordine in casa propria piuttosto che cercare rifugio in un ordine internazionale, che – ammesso potesse essere delineato a priori, e non certo nei termini tradizionali della cooperazione – poteva solo essere l’esito di tanti singoli successi all’interno. Visioni di concertazione della domanda, d’intervento sui mercati valutari, di coordinamento, di enfatizzazione delle conseguenze sistemiche di azioni singole (in altre parole, visioni di governo dell’economia internazionale) che derivavano dal passato non erano altro che alibi per non portar ordine all’interno. Il concetto di interdipendenza (che si era affermato con il suo predecessore come inevitabile conseguenza di una regressione di ruolo dell’economia statunitense, pensata come irreversibile) cedeva il posto al concetto di paese leader. Più ai simboli che alla responsabilità economica del paese leader. Una leadership che voleva innanzitutto legittimarsi sul piano morale, attraverso la superiorità di un paese capace di vincere all’interno il lassismo dell’inflazione, del garantismo e dei deficit di bilancio. Reagan si dimostrò quindi incurante del fatto che alla sua ascesa le ripercussioni della sua politica provocassero rivalutazione del dollaro e drenaggio di quelli in circolazione, alti saggi d’interesse mondiali (che passano, in termini reali, da negativi ad abnormemente positivi), depressione internazionale (la più lunga e profonda allora dopo quella del 1929) e che, all’interno di questi sviluppi, si generassero i drammatici problemi finanziari che scoppiarono in concomitanza nel Terzo Mondo e che si trascineranno per un decennio (“the lost decade” per molti paesi). Non è d’altra parte sul contributo a relazioni economiche mondiali illuminate, sul solidarismo o sull’internazionalismo economico che il ruolo di paese guida voleva essere fondato nella concezione dell’Amministrazione americana in questo primo periodo di governo repubblicano. La centralizzazione del sistema occidentale era affidata ad altro: a un rafforzamento dell’egemonia politico-militare degli Usa. In questa direzione, le difficoltà economiche generate nei paesi partner dalla pesante situazione dell’economia mondiale che inaugurò l’era di Reagan finivano per dare un contributo come mezzo di persuasione.

E, in effetti, egli fornisce una leadership internazionale a un vasto arco di forze nella partita sociale che si gioca in questi anni. Il comportamento degli Usa trovava sponda nei paesi occidentali.[13] Sia questa recessione (importata ma non del tutto subita) sia la rivalutazione del dollaro, finivano per essere usati in ogni paese occidentale a fini di politica generale interna. È l’occasione per rinsaldare i blocchi dominanti – che si sono venuti formando come reazione all’inflazione, al caos monetario, alla stentata crescita ciclica e alle tensioni sindacali degli anni ’70 – e affermare quelle “politiche di rigore” che diventano ortodossia economica a partire da questi anni (per lo meno nella parte che implica un primo ripensamento delle conquiste sociali)[14]. E, infatti, la compressione dell’economia che si verifica nei paesi industriali europei avviene – pur con modeste eccezioni – senza recriminazioni e senza pressioni delle autorità economiche verso il governo degli Stati Uniti e, ancor più, senza un benché minimo tentativo di risposte congiunte, per lo meno per ciò che concerne il livello dei saggi d’interesse e il controllo dei flussi di capitale in uscita (controllo, che all’epoca rientrava nei normali strumenti di intervento). Risposte congiunte non sono all’ordine del giorno, ma sarebbero state comunque rese impossibili dall’affermazione in questi ultimi di un certo numero di “partiti americani”[15].

In sostanza, in una prima fase, la funzione di riferimento per l’intero mondo occidentale che esercita l’amministrazione Usa si afferma in un clima diffusamente conservatore e punitivo per le “follie” degli anni precedenti. Le “follie”, in primo luogo del sostegno attivo alla domanda e occupazione, dell’estensione della rete assistenziale e dell’acquiescenza verso l’inflazione.

 

Tuttavia, se ci fermassimo qui, non capiremmo molto dell’epoca che segue la grande inflazione. Nulla della svolta impressa inizialmente da Reagan – né la leadership statunitense, né il mutamento dei meccanismi sociali e orientamenti culturali di quegli anni, né la politica di rigore, né la debolezza delle reazioni sociali – avrebbe retto se il quadro si fosse mantenuto con quei caratteri iniziali e gli Usa non fossero poi diventati nel corso degli anni ‘80, il paese su cui si impernia un meccanismo internazionale di crescita, di cui si era perso il ricordo (ma anche la convinzione che fosse possibile ricrearlo). Non sono certo le conseguenze del rigore a provocare questa trasformazione di ruolo, ma politiche deliberate che travolgono il regime economico idealizzato.

Nell’improvvisa e poi ininterrotta espansione produttiva di gran parte degli anni ‘80, gli Usa diventano da polo e referente di una restaurazione repressiva (imperniata sul ripudio delle politiche dei redditi e del processo politico che le accompagnava), il perno per l’assicurazione della crescita di reddito, profitti e occupazione nei paesi industrializzati. In sintesi, il garante della riattivazione di un meccanismo di accumulazione. Il senso stesso della loro leadership internazionale finisce per incorporare anche tali ingredienti. Senza questo, la vulgata della flessibilità, del ritiro dello Stato, della deregolamentazione, non avrebbe avuto il credito che ha ottenuto, né avrebbe fatto degli Usa il campione di un nuovo modo di governare gli affari economici interni. È storia nota che tutto ciò poggiasse su una spesa pubblica elevata e detassazione (per le quali si può rinviare a Streeck), che trovavano giustificazione in motivi “sbagliati” (tutt’altro che verificati ex post)[16]. Ma attivavano un clima di ottimismo e fiducia che sorreggeva anche investimenti e consumi privati e produceva per gli Usa una sorta di rassicurazione che il ruolo di paese pivotale e grande potenza non fosse stato scalfito. Il perno, com’è noto, fu una politica fortemente espansiva con doppio deficit, di bilancio pubblico e di bilancio esterno di conto corrente, che allora apparivano eterodossi ed esplosivi, ma che furono tollerati senza problemi dall’Amministrazione. Quello reaganiano fu un azzardo (con dietro un pizzico di avventurismo) e una forzatura delle ortodossie che egli stesso aveva proclamato[17]; azzardo che solo a poco a poco si scopre poter funzionare, mantenersi, nonché proporsi come il perno di un meccanismo che lega le economie sviluppate assieme[18]. Era qualcosa d’impensabile alla luce delle premesse della sua elezione. E fu una prova di pragmatismo quella offerta dall’Amministrazione statunitense di fronte agli sviluppi della situazione, quando tutti i capisaldi della filosofia politica, cui l’Amministrazione si era inizialmente ispirata, cadono quasi contemporaneamente – dal rigore di bilancio alla pratica monetarista – soppiantati dalla protezione della crescita e della stabilità finanziaria[19].

I caratteri della vulgata di fatto erano stati superati, ma gli Usa li avevano ormai diffusi. Il Paese cresceva più di altri partner industriali e creava posti di lavoro, dove l’Europa, che era reputata per la sua storia nel dopoguerra il baricentro e il campione della crescita mondiale, stentava. Sebbene siano fatti macroeconomici che sostengono questa crescita, si afferma l’idea che siano, invece, fatti micro, e che tanto più flessibile è un’economia tanto meglio è per il Paese: uno di quei processi di falsa rappresentazione delle cose che diventano verità non più discutibili e segnano effettivamente l’egemonia culturale di un’élite che punta alla damnatio memoriae di ciò che aborrisce e ha aborrito: la responsabilità pubblica e il compromesso sociale. Non che l’economia statunitense non fosse più flessibile di quella europea o giapponese, ma lo era sempre stata (non in

tutte le aree, alcune delle quali erano più regolamentate) e solo marginalmente tale flessibilità era stata incrementata.

La deregolamentazione effettiva aveva avuto luogo nell’area della finanza. Qui la rappresentazione trovava per lo meno più corrispondenza in una base fattuale, ma quest’ultima non giustificava l’altro topos del periodo, associato alla crescita statunitense (che aveva altra origine): l’idea che solo un’economia aperta e libera nelle scelte finanziarie fruisse di dinamismo e crescita. Anche questa diventa un’altra indiscutibile verità che contagia tutti. Cadono conseguentemente le barriere che in precedenza avevano tenuto separati, per specializzazione e vincoli, i singoli mercati finanziari, per i quali un sistema autorizzativo (?) al centro (e la regolamentazione amministrativa conseguente) consentivano di perseguire finalità di assicurare sia la solidità degli intermediari, sia ciò che veniva percepito come “interesse nazionale” (soprattutto in relazione ai movimenti di capitale).

Quel mondo sparisce pezzo dopo pezzo a livello internazionale, dopo l’avvento di Reagan. La liberalizzazione fu ampia, anche se non completa, e portò a una vasta finanziarizzazione dell’economia e all’affermazione del “capitalismo dei gestori di portafogli”, che da lì in poi diviene lineamento caratterizzante dell’epoca e cambia i pesi sociali[20].

Questa, però, è una parte della storia. Ciò che avviene in Europa non è la replica della vicenda statunitense. Quel keynesismo involontario da una sponda dell’Atlantico non fa tornare in auge il keynesismo dall’altra sponda, dove politiche guardinghe limitano al traino delle esportazioni l’assecondamento di un ritorno (sia pur ormai contenuto) alla crescita. Se le economie occidentali finiscono solo per accodarsi passivamente agli stimoli provenienti dagli Usa, è perché la loro struttura economica e sociale non è quella statunitense per replicarne la politica senza percepire i danni: la flessibilità dei mercati è minore, la disinflazione non è completa e sono sempre vivi i timori che possa tornare indietro. Mentre nessuno dei governi di questi paesi vuol rischiare riedizioni degli anni ’60 e ’70, con tensioni sul mercato del lavoro e potere sindacale, sia la ripresa dei profitti – via esportazioni e contenimento dei salari[21] – che quella inevitabile delle borse mondiali (la quale sfocia in veri e propri boom tra il 1984 e il 1986), rafforzano il quadro sociale all’interno del blocco dominante, e favoriscono l’identificazione di nuove figure e interessi con il processo economico in corso. E questo ha comportato una notevole redistribuzione del reddito a favore dei proventi finanziari, specie in considerazione del fatto che la spesa pubblica per interessi si è accresciuta quasi ovunque e che il contenimento compensativo di altre voci di spesa è caduto spesso sui programmi di welfare e, più ancora, d’infrastrutture e istruzione: ma anche là dove questo aumento di spesa è stato finanziato da tasse, la redistribuzione è stata significativa[22]. Fa parte del quadro, inoltre, un accelerato processo di rinnovamento tecnologico, che le autorità di tali paesi, tendono a non disturbare e che, con i suoi effetti sul mercato del lavoro, contribuisce a dare cemento al nuovo blocco sociale dominante (se non altro perché aggregazioni portatrici di opzioni e interessi in contrasto con l’ordine che si sta affermando trovano sempre più difficile far valere la loro forza e pesare sulle decisioni statali). Si sta diffondendo, per ora prevalentemente all’interno, la frammentazione dei processi produttivi, che possono fare a meno dei grandi assemblamenti e rompere la solidarietà e la forza del lavoro dipendente e operaio.

In sostanza, la massima che guida il quadro di politica economica in questa parte del mondo è quieta non movere: gli sviluppi spontaneamente favorevoli che le vicende dell’economia statunitense riverberano sull’economia di questi paesi bastano e avanzano, rafforzando in circolo il desiderio di non creare forzature nella politica economica, difendere lo status quo e la sua controllata evoluzione.

 

La globalizzazione come evento spontaneo e come programma

Nonostante questa cesura che avviene con l’era “socialdemocratica” del dopoguerra, in questo periodo ancora resiste una dialettica tra visioni diverse dell’economia e della società. Ancora si possono rintracciare tentativi di mantenere un apparato regolativo consistente. Il neo liberismo che guadagna terreno non è ancora pensiero unico, anche se ormai vi è un attacco concentrico, teorico e di opzioni pratiche, contro le “distorsioni” che hanno dominato le precedenti visioni dell’economia e che ancora resistono qua e là. Se guardiamo indietro, agli anni ’80, ci sono ovviamente tutte le premesse di ciò che avverrà dopo, ma la scala dei fenomeni è più contenuta, il mondo occidentale è meno uniforme, le pressioni “coercitive”, esterne e interne, sulle politiche economiche meno ingestibili; esiste ancora una dialettica sulle varianti del sistema.

Quando ci riferiamo ai caratteri dell’universo neo liberista e alla sua cultura, divenuti imperanti e percepiti come irreversibili e universali, in realtà ci riferiamo a una caratterizzazione che centra in pieno il periodo successivo, quando la scala dei fenomeni finanziari prende rapidamente e velocemente un abbrivio parossistico, e si forma quel mondo di intrecci finanziari, tra privati e autorità ufficiali, che resiste e si espande fino alla crisi del 2007 (e oltre). Il consenso si coagula attorno a idee standard e la logica dei processi in moto prende un carattere ancora più compulsivo, e finirà per avere l’esito che Hayek aveva preconizzato per quelle economie che si fossero integrate pienamente nei processi mondiali (quel pensiero di Hayek sulla denazionalizzazione e la competizione globale come via alla destatalizzazione è posto da Streeck a sfondo teorico e linea guida, consapevole o inconsapevole, del nuovo quadro sociale e ideologico).

E’ indubbio che vi sia una buona dose di consapevolezza nell’élite finanziaria pervasa dalla voglia di spaziare liberamente su scala mondiale e interna, ma la globalizzazione come la intendiamo oggi è un processo che qualche anno prima del suo avvento era imprevedibile, almeno in questa forma. Ha dietro una combinazione di eventi, che, verificandosi tutti assieme, diventano esplosivi e producono un effetto di imbrigliamento sulle politiche economiche dei paesi occidentali, che svuota sostanzialmente la democrazia e afferma in modo pieno “la nuova ragione nel mondo”.

Era scritto nelle cose? E’ stato preordinato lucidamente? Non saprei dire. Sta di fatto che la concatenazione di elementi e il loro incastro avviene in modo così stringente (e in parte rapido) da produrre una maglia dalla quale risulta poi impossibile uscire e che agisce certo in modo non neutro. Tutto il resto si produce conseguenzialmente nella dinamica endogena.

Seguiamo questa combinarsi di eventi. Ad un certo punto, come eredità ritardata degli anni ’80, avviene una caduta dell’inflazione e delle aspettative inflazionistiche nei paesi al cuore del sistema. Di conseguenza l’intera struttura dei tassi d’interesse, sia reali che nominali, si abbassa (e, soprattutto, negli Usa, tornati a essere il centro del sistema finanziario). Quella caduta delle aspettative di inflazione e dei tassi è il perno da cui si dipartono nel periodo le conseguenze note che ne costituiscono i lineamenti essenziali[23].

In sintesi, si riduce la percezione dei rischi, saltano tutti i parametri di controllo monetario (di cui dirò), si produce un’abbondanza di disponibilità liquide diffusa in tutto il mondo e un intero meccanismo ruota attorno al debito (in primo luogo privato) che si espande e che ha a garanzia, esplicita o implicita, attività a valore variabile. Solo con la crescita del valore di quest’ultime e del reddito il tutto si convalida.

Molti capitali vengono liberati dalla caduta dei tassi d’interesse, dai guadagni in conto capitale e dallo svincolo delle riserve prudenziali e cominciano a guardare su scala internazionale ai mercati dei paesi della periferia, dove si sta determinando un’apertura. Sono emerse robuste economie nel Sud est asiatico (come conseguenza della crescita della domanda statunitense e dell’apprezzamento iniziale del dollaro negli anni di Reagan) e la Cina è diventata un paese accogliente con una promettente espansione. Ma si son risolte (e siamo ancora in un’eredità del periodo precedente) anche quelle crisi debitorie che avevano bloccato per un decennio altri paesi a reddito medio, che ora possono tornare sui mercati internazionali dei capitali come paesi solvibili sotto la supervisione del FMI, il quale organizza i creditori e funge da garante del rispetto degli impegni di politica economica (lo stesso vale per i paesi dell’Est europeo che arrivano al mercato)[24]. E questi impegni prevedono l’introduzione di “buone pratiche” (o tali ritenute), di abbandono dei controlli di capitale, degli apparati protezionistici o di sussidio all’export, della conservazione dell’industria pubblica, dei prezzi amministrati e di sussidi privati e tutto il corredo di prescrizioni microfinanziarie che ha costituito l’armamentario delle politiche del Fondo negli anni ’90. Era previsto anche che il paese in questione adottasse cambi fissi. Non saranno le crisi finanziarie periferiche a cambiare il quadro.

Mettendo assieme questi sviluppi in modo quasi simultaneo – la liberalizzazione completa dei movimenti di capitale, la caduta dei tassi d’interesse in occidente, le occasioni d’impiego, il ritorno come prenditori di paesi periferici, le innovazioni finanziarie e l’abbondante liquidità – ecco determinarsi nel giro di quattro – cinque anni, a cavallo tra la fine degli anni ‘80 e l’inizio degli anni ’90, una miscela esplosiva[25]. Offerta e domanda di capitali si incontrano nell’esigenza che hanno da un lato i fondi pensione e quelli comuni dei paesi centrali di alzare i rendimenti o le imprese di alzare i profitti (attraverso la differenziazione geografica delle produzioni, la delocalizzazione e la gestione della tesoreria) e, dall’altro lato, i paesi emergenti e le loro imprese pubbliche e private (nonché lo stato) di finanziarsi. Ma anche il settore privato di questi ultimi viene coinvolto in questo incrociarsi di domanda e offerta. La crescita che si avvia in molte parti del mondo si rafforza su se stessa attraverso gli investimenti diretti che sollecita. Cominciano a determinarsi veri e propri boom in periferia, che ovviamente si ripercuotono sui boom di borsa e dei mercati immobiliari locali. Il potere dei creditori diventa immenso.

Diventa protagonista del periodo l’eccesso di liquidità. Sembra un paradosso che un’era iniziata all’insegna del rigore monetario (basato su una teoria monetaria che lega deterministicamente offerta di moneta e inflazione) sfoci in un’era priva di veri e propri freni monetari posti dalla banca centrale (cui per paradosso si associa una bassa inflazione). Tuttavia, l’era del controllo degli aggregati monetari ha portato come reazione la despecializzazione, la liberalizzazione dei mercati, e, insieme a ciò, tali e tante innovazioni finanziarie da rendere sempre meno efficaci quei controlli e sempre possibile creare liquidità e canali di finanziamento. Le banche hanno imparato a non tenere i crediti, ma a venderli, dopo averli sciolti in titoli di mercato cui fungono da sottostante. Molto prima dell’epoca di espansione dei subprime, le banche sono in grado di recuperare le loro riserve libere impegnate in prestiti e attivare un nuovo giro e un nuovo giro ancora. La loro abilità (e profitto) è sempre più nella finanza e nel trading. Il regime di bassi tassi d’interesse, d’altra parte, favorisce l’indebitamento, il carry trade[26], la leva finanziaria per investimenti più rischiosi e più redditizi in tutto il settore privato, realizzati nel territorio nazionale o all’estero. Il coinvolgimento delle famiglie in questo vortice di indebitamento, investimento e guadagni in conto capitale, crea nuove occasioni d’impiego. Le autorità in sostanza rinunciano a controllare quantitativamente gli aggregati monetari per non disturbare il processo di diffusione della crescita. Il loro interesse è l’inflazione, che è in discesa nonostante l’ampliarsi della liquidità. Non sono neppure messe in allerta dai boom di borsa e immobiliari. Impedire le bolle speculative non è fra i loro compiti statutari. E poi chi può dire a priori, nella filosofia dell’epoca, che siano tali e non siano adeguamenti di valore a una nuova situazione? Nessuna autorità o banchiere centrale può prendersi il rischio di interrompere questa crescita. Se la borsa (azionaria e immobiliare) è parte di un meccanismo come elemento in una catena che tiene in vita un processo di crescita, perché disturbare tale processo, che, oltre tutto, avviene senza inflazione? La borsa, in effetti, ne è parte integrante. Se ne avvantaggiano tutti, a partire dai fondi pensione, le famiglie, le imprese, ma anche i governi che trovano una inaspettata fonte di entrata nei proventi da tassazione finanziaria. Quello degli Stati Uniti finirà addirittura in attivo, prima dell’espansione di spesa e detassazione seguente alle Torri Gemelle (2001). Delle bolle, dopo tutto, si può decidere che siano tali solo ex post. La filosofia dell’epoca che inizia con gli anni ‘90 è euforica.

In tal modo, la catena di debiti e crediti si allunga straordinariamente e ineluttabilmente[27]. Diventa anche mondiale. Deve essere convalidata in ogni momento. Un innalzamento dei tassi d’interesse potrebbe metterla a repentaglio con un effetto domino finanziario, che alla fine, danneggerebbe l’economia reale, la quale, invece, non va disturbata. Il regime di bassi tassi d’interesse rischia di divenire endemico e, in circolo, allungare la catena finanziaria. Ovviamente parliamo di un sistema sempre più centrato sul dollaro e sugli Usa, con la Federal Reserve che diventa una vera e propria banca mondiale, che regola la moneta mondiale. D’altra parte, il sistema si era trasformato, presentando al centro un’economia condannata alla crescita, secondo il principio della bicicletta[28]. Ogni tentativo di porre in atto un qualche cauto raffreddamento cozza contra questa catena finanziaria talmente estesa da rendere a effetto valanga le conseguenze e costringere a tornare rapidamente indietro. Per fermarne le potenzialità negative e impedire il contagio, la virata (che ripristini tassi d’interesse bassi) deve essere necessariamente repentina[29]. Nell’ultima crisi, nella quale non a caso una salita dei tassi fa cadere il castello di carta, l’intreccio finanziario era, però, giunto a punto tale da rendere debole l’efficacia anti domino del ritorno al regime di tassi bassi d’interesse, pur confermando che quel regime è ormai endemico.

Il resto è la storia nota della crisi in cui siamo immersi da otto anni e su cui vi è poco da ricostruire che non sia ampiamente acquisito. Siamo nella fase dell’enorme impiego di risorse pubbliche per il salvataggio in un primo tempo dei sistemi finanziari e in seguito del loro consolidamento.

 

Una prospettiva complementare non trascurabile

Se ho messo in rilievo gli eventi da un punto di vista delle macro variabili, dell’azione (e impotenza) delle autorità e del determinarsi di concatenazioni endogene, è perché ho trovato questo quadro sfuggente in entrambi i libri. Non contraddice la loro ottica analitica né è l’unica prospettiva possibile, ma è un contesto che non deve andar perso quando si ferma l’attenzione sull’affermarsi ed evolversi del mondo neo liberista. Ho già detto che, nel consolidarsi di quel mondo, uno degli ingredienti è la gabbia di acciaio che si stringe a poco a poco attorno alle politiche economiche, sempre più pressate dalla loro stessa interazione a spingersi verso indirizzi competitivi, di cui divengono prigioniere. Adottandoli, trasmettono la stessa disciplina all’esterno fino a farla divenire regolazione mondiale, una regolazione sempre più compulsiva e a maglie strette. Nella percezione di autorità e forze politiche, il senso comune su ciò che è possibile governare cambia, e la conduzione neo liberista diventa l’unica tecnica di governo familiare ai governanti: una sorta di abilità acquisita, di piattaforma nella quale destreggiarsi, di cui si perdono origini e implicazioni.

Per la verità, anche in D-L c’è una gabbia che stringe progressivamente i processi in un universo neo liberale, ma da un punto di vita antropologico e dei caratteri della regolazione che, per quanto trattato superbamente, trascura la dimensione del governo dell’economia. (Streeck, ha uno schema in un certo senso più statico: capitale contro lavoro, in cui la parte vincente vince anche culturalmente).

L’aspetto culturale entra ovviamente nei fattori determinanti il governo dell’economia, in quanto ne condiziona le opzioni ritenute percorribili mantenendo il consenso elettorale. Più ancora, fornisce quelle mediazioni normative e culturali che lavorano all’accettazione e legittimazione di un sistema siffatto. Non ho dubbi, in accordo con entrambi i libri, che sia il pensiero delle classi più abbienti che finisce per informare l’azione statale.

Eppure, la situazione è più complessa da dipanare analiticamente di come può essere presentata se non si tiene conto degli elementi costrittivi che stringono le politiche economiche e della dinamica propria degli eventi. Sarebbe forzato sostenere con certezza che le azioni intraprese dai governi (occidentali) siano solo la conseguenza di una trasformazione di valori e convinzioni che si affermano come proiezione di una cultura trasmessa da uno strato privilegiato della popolazione, né che tale azione sia sempre allineata a quei canoni valoriali e culturali. A volte quella filosofia riscuote il consenso solo di una piccola parte della popolazione, a volte ne prendono le distanze, almeno a grandi linee, forze di destra come di sinistra. Le coalizioni sono composite. I governi rispondono a un elettorato variegato e non sono mai tutt’uno con la borghesia più abbiente, né necessariamente sono i loro fiduciari. Eppure, la pratica nella conduzione degli affari non si discosta se non per varianti non significative da un canone standard, quale che sia lo schieramento vincente, perché il comportamento dei governi è divenuto impotente di fronte al succedersi degli eventi, perché ha internalizzato quei canoni come via di uscita da qualsiasi difficoltà, e, perché lo stesso comportamento è tenuto dentro binari stretti da logiche “coercitive esterne”, che possono essere rotte solo con una forza politica straordinaria. La forza sociale relativa dei beneficiati fa il resto e mantiene il processo in vita.

 

Quali prospettive per il futuro?

Entrambi i libri dirigono la loro analisi a capire cosa succederà dopo la crisi economica in cui siamo tuttora immersi. Entrambi convengono che non c’è nulla di spontaneo e inevitabile in una ripresa democratica. Incertezza, diseguaglianze, abbassamento delle aspettative, disoccupazione e disagio economico dovrebbero teoricamente condurre a un ripensamento del capitalismo in direzione di una nuova regolazione e produrre, altresì, le coalizioni necessarie al cambiamento e interessate a una svolta democratica. Non è ciò che sta accadendo. Né sta avvenendo un vero e proprio ritorno in auge delle politiche pubbliche, per lo meno negli stati più grandi che possono permettersi una relativa autonomia. Queste rimangono politiche di ultima istanza, non un grande disegno. La parziale eccezione sono gli Usa di Obama, a cui, tuttavia, nessuno dei due autori presta particolare attenzione.

Ci sono condizioni per un contromovimento, del tipo descritto da Polanyi[30] per riportare indietro le lancette? La risposta di entrambi è no. Eppure, secondo Streeck, la situazione non può reggere. Le vie di uscita sono esaurite, ciascuna ha mostrato i suoi limiti, per cui il capitalismo sarà costretto a sopraffare ulteriormente la democrazia (mantenendone solo la facciata), a meno che si verifichi l’opposto, che la democrazia riprenda il sopravvento sul capitalismo e lo trasformi, ridando slancio al sistema economico (ma riconosce che questo è un miraggio). Occorrerebbe a questo fine una sollevazione di massa di coloro che la crisi ha sfavorito. Questa rivolta non è all’orizzonte, e non sarebbe, penso, di tipo politico o programmatico, ma ribellistico, data la scarsa consapevolezza politica che alberga, dopo anni di soggettività neo liberista, ai livelli meno abbienti della scala sociale. Per cui egli ripiega sulla soluzione parziale (anch’essa illusoria), che ridia agli stati europei la padronanza della politica interna e ai lavoratori la forza contrattuale – liberando entrambi dal ricatto dei vincoli esterni attraverso la riappropriazione della leva del cambio. Non è questa parte del libro che voglio discutere qui, perché palesemente sbagliata. Sono interessato all’analisi di Streeck e al rapporto tra capitalismo e democrazia che egli descrive e non a questo pezzo che faccio finta di non aver letto[31].

Rispetto alle sue conclusioni mi chiedo quanto sia necessario al capitalismo un ulteriore svuotamento della democrazia. Quello fin qui conseguito forse basta e avanza e, a meno dell’evento semi rivoluzionario che Streeck cita, può anche rimanere al punto in cui è. Si porterebbe dietro, certamente, una crisi dell’accumulazione, ma questa si riverserebbe non tanto sui profitti, che hanno ormai trovato modo di proteggersi ugualmente, quanto sulla situazione sociale. Potrebbe esplodere rendendo il tutto instabile, ma può anche essere tenuta (malamente) sotto controllo dalle tante mediazioni costruite in questi anni. C’è poco da sperare nella prima direzione. Ancora una volta il mio pensiero è più vicino a D-L. Il carattere duttile della regolazione attuale può incorporare varianti che consentano una manutenzione della “macchina” senza intaccare il principio pervasivo della regolazione competitiva, in altre parole la governance neo liberale. Questa può persistere, spiegano D-L, persino senza che l’ideologia maggiormente dominante sia neo liberista.

E allora, quali sono per D-L le prospettive e gli indirizzi di un programma alternativo? Dopo 400 pagine di godibilissima e penetrante analisi politico culturale, le ultime 20 – dedicate, appunto, alle prospettive – sono decisamente deboli e deludenti. Qui l’analisi si fa inspiegabilmente deduttiva e schematica. Poiché il regime neo liberista è una regolazione internazionale, qualsiasi programma politico che abbia come obbiettivo l’azione statale è illusorio, perché cadrebbe all’interno di quella regolazione che non può scalfire; una regolazione che farebbe comunque da contorno a qualsiasi conquista parziale, che ingloberebbe e metabolizzerebbe dentro sé stessa. Di conseguenza, non esiste alcuna ipotesi socialdemocratica percorribile e desiderabile, perché si imbatterebbe in una base sociale modificata e in una soggettività di massa ormai totalmente plasmata dai canoni neo liberali di conduzione della vita e di valori da rendere velleitario il progetto, e comunque imbrigliato nella regolazione neo liberale. Rimane solo un mutamento di soggettività come strada da percorrere e valorizzare. Questo mutamento deve irradiarsi da dove è già presente. Il rifiuto di questa “ragione del mondo” si manifesta oggi in tante situazioni nelle quali la soggettività neo capitalista viene respinta. Se ho capito bene, si tratta di movimenti femministi, associativi, di promozione sociale, ambientali, fino al ribellismo individuale, attraverso i quali i singoli esprimono un altro principio di vita, che dovrebbe diventare culturalmente egemone attraverso la loro azione esemplare, espandendosi a macchia d’olio (non è scritto così, ma può desumersi dalla logica del discorso).

Non riesco a capire come D-L non vedano che, senza un raccordo politico e un progetto che li riunifichi, questi movimenti sono destinati a essere isole di testimonianza, minoritarie e di fatto marginali, anche se talora possono esprimere istanze tematiche (o meglio, monotematiche), importantissime, e talvolta vincenti. Ma non è ipotizzabile che attraverso queste isole si diffonda il soggetto alternativo, perché non sempre quelle esperienze, pur comportando una certa dose di alterità, implicano che la totalità del soggetto sia proiettata per intero al di là degli ingredienti culturali prevalenti. Senza il nodo di un progetto politico tutto si disperderebbe. E il progetto, per intenderci, implica la conquista del governo con l’obiettivo di attuare un programma realisticamente non neo liberale. La causalità non va in una direzione, dalla nuova soggettività al processo politico, ma è bidirezionale, nel senso che un progetto sufficientemente e realisticamente alternativo educa le masse a introiettare principi diversi da quelli trasmessi dal neo liberalismo. E, in questo, vi sono obiettivi a breve, a lungo e a lunghissimo termine: lo strumento è sempre il partito politico (certo non quello degradato della socialdemocrazia odierna).

In questo, l’analisi di D-L, totalmente dedicata alle idee e all’antropologia mostra i limiti, se non integrata all’analisi sociale. Essi non vedono (o sottovalutano) che la società si sta spaccando, che la crisi economica crea elementi di disagio e marginalità in parti estese della popolazione, che prima ne costituivano l’ossatura e la base. E’ pur vero che non vi saranno più i grandi assemblamenti, quell’omogeneità di fondo della società postbellica che consentiva di creare coalizioni democratiche attorno al proletariato urbano, ma questo non implica il rifiuto della lotta politica per il governo. E certo le condizioni di vita sono talmente differenziate, le diseguaglianze talmente estese, il disagio e la durezza delle condizioni materiali talmente incomparabili tra strati sociali, che non si vede perché un programma politico non debba porsi il problema di coalizzare chi vive condizioni di disagio. Il disagio di cui parliamo non è solo quello che si vive nei luoghi di lavoro, ma anche all’esterno. Certo, la possibilità di una coalizione passa anche per una rivoluzione culturale. Gli elementi di cultura e suggestioni proprie dell’uomo dell’era neo liberista sono certamente estesi e diffusi, ma in nessuno (esclusa una minoranza) in una forma totalizzante, né c’è bisogno solo di chiamarsi individualmente fuori in modo radicale per far emergere principi alternativi. Un progetto politico della sinistra dovrà essere quello che – pur riconoscendo le molle individuali di aspirazione a una promozione di sé stessi – dia un senso ai percorsi di vita rendendoli convergenti verso obiettivi che riguardano l’intera società, le sue strutture e verso tutto ciò che si può conseguire di affermazione di dinamiche sociali (persino circoscritte) presidiate politicamente e guidate da principi diversi da quelli prevalenti.

 

 

[1] W. Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Feltrinelli, Milano 2013 e P. Dardot e C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista, Derive Approdi, Roma 2013.

[2] S. Biasco, Ripensando il capitalismo, La crisi economica e il futuro della sinistra, Luiss University Press, Roma 2012.

[3] Streeck si riferisce al “profitto di riserva”, dal lato del capitale, parafrasando il concetto usato dagli economisti ortodossi e riferito al “salario di riserva”: quel salario – a loro parere – sotto il quale un lavoratore non entra nel mercato del lavoro, preferendo l’ozio e il sussidio di disoccupazione; “salario di riserva”, che gli anni di alta occupazione e lo stato sociale tendevano a elevare. In questo caso si tratta del profitto minimo desiderato sotto il quale gli imprenditori si astengono dall’investire, con contraccolpi sull’economia, da cui scaturiscono processi che tendono a ripristinarlo.

[4] K. Marx Lavoro salariato e capitale, Editori Riuniti, Roma 1967, cap. V.

[5] Aggiungono: “non è detto che il beneficiario di un crimine sia l’autore del crimine” (pag. 14).

[6] Le indicazioni circa l’euro giungono inaspettatamente nella parte finale del libro. Se mi imbarcassi in una discussione in proposito cambierei fuoco e perderei di vista la chiave che più mi interessa, riferita alle modalità con le quali l’attuale assetto del capitalismo si afferma ed evolve fino ai nostri giorni. Per una discussione sull’euro rinvio ai miei interventi pubblicati in proposito. Cito «Critica Marxista», n. 1, 2015 Euro: pensare di tornare indietro fa perdere tempo alla sinistra. Sono intervenuto anche altrove (cfr. «Il Mulino» n. 1, 2015), ma in questo saggio mi soffermo sull’inefficacia degli strumenti di economia di guerra che andrebbero introdotti e il disastro che ne conseguirebbe, il quale certo non gioverebbe alla sinistra. È reperibile anche in rete al link http://www.ripensarelasinistra.it/wp–content/uploads/2014/02/defaul–c–m–definitivo2.–Copia.pdf

[7] Anche le coalizioni conservatrici erano, in generale, state costrette dalla competizione elettorale e dal consenso diffuso a incorporare nei loro programmi politiche welfaristiche e di sostegno all’occupazione, e lo avevano fatto, seppur cautamente, senza particolari remore ideologiche.

[8] Cfr. S. Biasco, Coordinamento spontaneo e anarchia di mercato nella formazione della domanda mondiale in P. Guerrieri e P.C. Padoan, Un gioco senza regole: l’economia internazionale alla ricerca di un nuovo assetto, Franco Angeli, Milano 1987, pp. 68–90.

[9] Bretton Wood ha fine nell’agosto 1971 con l’inconvertibilità dei dollari in oro. Poi, dopo un tentativo di ripristino dei cambi fissi con gli accordi di fine 1971, agli inizi del 1973 quel regime cade definitivamente.

[10] In media nel 1973 le materie prime aumentano del 70% e nel 1974 il prezzo del petrolio quadruplica. Poi, dopo una discesa avrà di nuovo un balzo nel 1978. Per intenderci, in quegli anni il prezzo dell’oro sul mercato libero passa da circa quarantacinque a mille dollari l’oncia (che, al valore del dollaro di oggi e dell’inflazione cumulative, equivale a duemila dollari l’oncia).

[11] Quelle economie che riescono a sottrarsi alla trasmissione internazionale dell’inflazione lo fanno attraverso una rivalutazione del cambio non sempre controllabile nella sua entità, che mette a repentaglio la loro competitività e le costringe a tenere a freno il mercato interno per impedire una crescita “pericolosa” dei salari. Le altre sono dominate dagli stessi vincoli per via dell’inflazione.

[12] Per molti anni e in molti paesi i tassi reali (scontati dall’inflazione) sono negativi.

[13] Questi erano già spinti verso indirizzi deflattivi dal secondo shock petrolifero del 1979 e dall’ulteriore crescita del prezzo delle materie prime conseguente all’ascesa del dollaro.

[14] Le politiche di rigore hanno un centro nel deciso controllo della domanda interna che la nuova ortodossia considera il punto di partenza per provocare reazioni di offerta e flessibilità dei mercati, nella convinzione che questo sia il passaggio catartico per stimolare l’investimento e innalzare il potenziale di crescita.

[15] Sull’onda della legittimazione di politiche sollecitate dal contesto internazionale, la disoccupazione – per fare un esempio – è lasciata avanzare ovunque verso livelli che appena pochi anni prima non avrebbe potuto coesistere con la stabilità dei governi. Dal 3,5% del 1978 la Germania passa al 6,7% di disoccupazione del 1982, la Francia dal 5,6% all’8,1%, l’Italia dal 7,0% all’8,6%, la Gran Bretagna dal 4,9% al 10,4%, e così via.

[16] Sono tutti motivi legati all’economia dell’offerta smentiti dal consuntivo dei fatti: il risparmio non è cresciuto con la detassazione dei più abbienti, la detassazione non ha ripagato sé stessa con altrettante entrate pubbliche, la spesa pubblica non ha spiazzato quella privata e via discorrendo con narrative fasulle.

[17] Tra l’altro l’accelerazione impressa all’economia avviene a partire da un già elevato valore del dollaro e in permanenza di condizioni monetarie che conducono a ulteriori e pronunciate pressioni al rialzo della valuta.

[18] Nei ruoli diversi che giocavano, si stabilisce tra Stati Uniti e altri paesi industriali un compromesso de facto, che, con pesi e contrappesi, reggeva la situazione internazionale. Il Resto del Mondo (ma in primo luogo il gruppo dei paesi industriali) accettava passivamente il regime dei tassi di interesse e semmai apriva più che chiudere i mercati finanziari nazionali, finendo per fornire la finanza necessaria a reggere gli squilibri su cui poggiava la crescita statunitense. Tuttavia, dalla crescita del reddito negli Stati Uniti e dalla pressione sul dollaro generata dagli afflussi di capitale verso New York, ricavava competitività e domanda estera per le esportazioni. La crescita di quest’ultime costituiva di fatto una compensazione per quella parte di domanda interna che si sarebbe prodotta con tassi di interessi mondiali, e quindi interni, più bassi, o per quella parte di domanda che avrebbe comunque dovuto essere generata per non rendere esplosivo il problema dell’occupazione: una ‘alternativa che sarebbe stata meno rassicurante, come già detto, per il consolidamento degli equilibri sociali che si erano venuti formando. Lo stato di cose era accettabile, a maggior ragione quanto più l’elevato valore del dollaro forniva comunque una protezione ai profitti aziendali e contribuiva non poco alla stabilità macroeconomica desiderata.

Dall’altra parte dell’Atlantico, l’economia americana poteva usufruire di un extra di consumi e investimenti a basso costo al di là della produzione interna, per via delle importazioni nette finanziate in deficit. Consumatori e imprese venivano compensati per gli alti tassi di interesse e l’apprezzamento del dollaro attraverso il bilancio pubblico e le capacità di finanziamento concesse dagli afflussi esteri; la compensazione si esplicava in maggior reddito, più alta occupazione, bassa tassazione e sgravi di imponibile connessi al pagamento di interessi passivi. In conseguenza di ciò, la perdita di profitti da esportazione non creava problemi e, altrettanto, la perdita di posti di lavoro nei grandi assemblamenti industriali. Dagli sviluppi in corso, al mondo finanziario derivava, invece, il beneficio di un ritorno del centro finanziario internazionale a New York, dopo decenni in cui era stato fuori dagli Stati Uniti. Il cerchio si chiudeva qui. Un intreccio tortuoso, ma compatto, che lasciava gli inconvenienti della situazione ugualmente divisi: agli europei il carico di un insoddisfacente andamento interno del tasso di accumulazione e dell’occupazione e agli Stati Uniti il carico dell’instabilità finanziaria internazionale, a cui dovevano far fronte per evitare crack bancari all’interno. In assenza di una cooperazione internazionale in senso proprio, varie alternative avrebbero potuto essere peggiori. Varie situazioni, ciascuna individualmente con potenzialità destabilizzanti, si sorreggevano a vicenda con altre aventi simili potenzialità, in una sorta di equilibrio instabile, ma dinamico.

[19] Non si tratta solo di politiche macroeconomiche di sollecitazione della domanda, ma anche di politiche monetarie, perché, dopo il fallimento della Banca Continental Illinois (2003), la pratica monetarista viene abbandonata e gli indici su cui era ancorata lasciati praticamente al loro destino. Il populismo prevale sul dottrinarismo (in ciò Reagan è diverso dalla Thatcher). Il secondo Reagan, il Reagan pragmatico, scopre che tutti i problemi posti dall’apprezzamento del dollaro e dal deficit commerciale statunitense possono ambire a soluzioni indolori solo in un sistema internazionale fatto di interventi, e organizzato e diretto in modo coordinato dalle autorità pubbliche. Il dollaro andava pilotato verso il basso e tenuto in una banda con un sistema d’interventi cooperativi delle banche centrali e l’uso di poteri discrezionali; l’espansione produttiva statunitense poteva essere mantenuta e protetta solo dalla locomotiva di altri paesi, convenendo così che la domanda internazionale – come effetto dell’insieme delle politiche economiche – non era un mero riflesso dell’offerta (altro che fine del keynesismo!); altre variabili economiche, quali i saggi di interesse, andavano concertate in modo coerente; infine, che il problema del debito dei paesi in via di sviluppo poteva essere risolto solo a livello di sistema, come sistemica era l’origine. È tutto ciò a cui aveva irriso subentrando al suo predecessore. Reagan può vantare il merito di essere stato duttile e flessibile rispetto alle verifiche che le sue politiche avevano avuto nell’impatto con la realtà.

[20] Anche qui nasce un giudizio “incontestabile” sulla base di una falsa rappresentazione che attribuisce all’apertura dei mercati il ruolo di trasportare potere di acquisto (e risparmio) verso economie o settori che più promettono crescita e redditività a lungo termine, con vantaggi generali. Ma questo può essere vero per i flussi netti di capitale, mentre i flussi di capitale in andata e ritorno non lo sono. Solo i flussi netti consentono di collegare i flussi settoriali o internazionali di capitale al trasferimento netto di merci e servizi, nonché all’impiego di risparmio reale. La parte più rilevante dei movimenti di capitale, invece, sono flussi lordi (andata e ritorno) e segue logiche finanziarie di breve periodo legate molto alla lontana alla produzione e profittabilità reale e, più direttamente, a politiche monetarie, anticipazioni di futuri comportamenti contingenti delle autorità, ottiche congiunturali dell’economia, dinamiche interne dei mercati. Il tutto rivolto all’obbiettivo di innalzare i rendimenti di portafoglio momento per momento. Per cui, ciò che rimane come movimento netto di capitali non necessariamente è frutto di un processo che porta all’efficienza allocativa.

[21] Per quanto i deficit pubblici ascendano in questo periodo in Europa, non sono la componente più dinamica e il loro contributo alla domanda è alquanto limitato; nulla di paragonabile con quanto avviene negli Usa.

[22] Gli Usa sono, però, il paese dove il processo è più accentuato: alla fine del mandato di Reagan, la distribuzione personale dei redditi risultava molto più polarizzata che all’inizio, nonostante i benefici sulle classi meno abbienti della maggiore occupazione. Gli effetti netti delle politiche fiscali erano stimati produrre alla fine un guadagno notevole di quote di reddito per il primo quintile, a scapito del 3^ e 4^ quintile. Questi processi non troveranno successivamente correttivi, anzi si aggraveranno con maggiore polarizzazione nelle classi beneficiate.

[23] La caduta dell’inflazione e delle aspettative inflazionistiche è in parte anche un prodotto di (o, per lo meno, ha tra le sue cause) una rivoluzione tecnologica nell’information technology, che si avvia impetuosamente in quegli anni e ha come epicentro gli Stati Uniti.

[24] Nulla di sistemico per la soluzione delle crisi. Sono state soluzioni caso per caso, che prevedono cancellazioni di crediti da parte delle banche internazionali, sotto la condizionalità stretta del Fondo che sorveglia e guida le politiche economiche in senso liberista. Le banche creditrici possono ormai monetizzare le perdite senza danni e smobilitare i crediti, divenuti strumenti finanziari standardizzati e con quotazione ufficiale.

[25] Si aggiunga la rivoluzione nella telematica e nei trasporti, che rende più facile e meno costoso lo spostamento di merci e capitali per il mondo.

[26] Il carry trade è il trasporto della liquidità da un paese all’altro che compie chi si indebita in un Paese dove i tassi di interesse sono più bassi per impiegarla dove sono alti, nella presunzione (a meno di copertura) che il movimento dei tassi di cambio sia anche favorevole o, se sfavorevole, non si mangi i margini di guadagno nell’orizzonte di tempo – generalmente breve – preso a riferimento.

[27] Stupisce che nessuno dei due libri che qui discuto, ciascuno con bibliografie vaste, citi Minsky e la dinamica ineluttabile che egli analizza all’interno della finanziarizzazione; dinamica che cambia le figure emblematiche del nuovo tipo di capitalismo.

[28] Vale a dire, che ha bisogno di pedalate continue (alias convalida continua dei debiti e crediti e di crescita di valore dei collaterali) per tenersi in equilibrio.

[29] Questa marcia indietro rispetto all’ascesa dei tassi avviene con le conseguenze delle crisi finanziarie del Sud Est Asiatico del 1997, precedute da quella del Messico del 1994 e seguite da quelle di Russia (1998), Argentina e Brasile del 1999. Lo stesso avviene con il 2000, che preannuncia una recessione negli Usa e si accompagna allo scoppio della bolla dei titoli tecnologici, prima ancora dell’attacco alle Torri Gemelle. E, ancora, con il continua innalzamento dei tassi a breve nel 1994-7, cui segue l’insolvenza dei mutui e lo sgonfiamento del mercato immobiliare.

[30] Nel suo libro La Grande Trasformazione, Einaudi, Torino 2010, Karl Polanyi – studiando gli anni del primo dopoguerra – parla dei movimenti della storia nei quali un eccesso di mercato provoca reazioni attraverso le quali le varie parti del sistema si immunizzano e proteggono da esso e fanno nascere nuove dinamiche sociali e istituzionali. Si vedano anche i suoi scritti inediti raccolti e presentati da G. Resta e M.V. Catanzariti in K. Polanyi, Nel lontano Occidente, Il Saggiatore, Milano 2013.

[31] Su ciò che comporterebbe l’uscita dall’euro di un paese come l’Italia rinvio agli articoli citati nella nota 6.