Editoriale: 1989 un’occasione mancata
a cura della redazione
La caduta del muro di Berlino segna un mutamento radicale nella percezione collettiva. Le immagini dei berlinesi in festa la sera del 9 novembre 1989 hanno profondamente emozionato l’opinione pubblica interna e internazionale. Ma la cesura fra l’epoca anteriore e l’epoca successiva è stata spesso troppo – ma troppo poco criticamente – enfatizzata. Oggi, a vent’anni di distanza il momento che ha dato l’avvio all’unificazione tedesca e, idealmente, alla fine dei blocchi è oggetto di celebrazione. L’evento fu senza dubbio spettacolare, ma merita di essere ripensato. È vero, i due mondi si contrapponevano frontalmente. Ancora nel 1980 Reagan definiva l’Urss l’impero del male, i Vopos tedesco-orientali sparavano sui fuggiaschi, le spie continuavano a infiltrarsi da una parte e dall’altra e in Afghanistan gli insorti combattevano per procura per conto degli Stati Uniti. Ma già molto tempo prima dell’‘89 le frontiere erano diventate permeabili, consentendo scambi quotidiani di persone, di merci, di tecnologie, di immagini, di opportunità. La diffusione delle informazioni ha rappresentato un elemento fondamentale dapprima di confronto e poi di omologazione, mettendo in evidenza i ritardi dell’apparato tecnologico, la fragilità dell’economia, l’inadeguatezza delle istituzioni nei paesi dell’Est.
Fino al tempo degli scudi spaziali, la concorrenza sul piano scientifico e tecnologico pareva relativamente equilibrata. Con lo scudo spaziale si registrò un’accelerazione e i sovietici (o quel che restava dell’apparato sovietico), coscienti di non riuscire a tenere il passo, dovettero subire il decadimento del loro apparato. Il disastro di Chernobyl, poi, convinse il mondo intero dell’inadeguatezza della tecnologia nucleare sovietica.
Ma anche l’economia dei paesi dell’Est era da tempo in difficoltà. La situazione ereditata da Gorbaciov, quando ascese al potere, era molto seria: l’economia era stagnante (mentre in Occidente la crescita era relativamente sostenuta) e il rublo si deprezzava, specie per la diminuzione del prezzo del petrolio che costituiva ormai il 60% delle esportazioni sovietiche. Perfino nella Ddr, punta di eccellenza industriale fra i paesi dell’Est, le cose andavano piuttosto male: la produttività era molto bassa e il tasso di investimento inadeguato. Di contro, l’intensificazione degli scambi, la diffusione dei mezzi di informazione, in particolare della televisione, e la nascente tecnologia informatica mostravano al mondo – e in primo luogo agli abitanti dell’Europa orientale – il divario con l’Occidente. Parte della nomenklatura nei paesi dell’Est cominciò così a preparhttp://global.nytimes.com/?ihtarsi alla fase post-sovietica. Si erano ormai costituiti ceti che aspiravano a comandare eludendo le gerarchie e le liturgie del partito. Insomma, perché fare i burocrati quando potevano fare i capitalisti?
Ciò accadde proprio quando la rivoluzione neoliberista in occidente celebrava i suoi trionfi e non poteva non vedere di buon grado una transizione selvaggia dall’economia pianificata a quella liberista: in primis per ragioni ideologiche, in secondo luogo perché avrebbe offerto opportunità straordinarie agli imprenditori d’assalto occidentali. Ciò non significa che tra le popolazioni dell’Est non vi fosse voglia di democrazia, attesa per un mondo migliore, ovviamente più libero di quello costruito dal comunismo, e una domanda di autonomia nazionale in alternativa all’imperialismo sovietico. Ma la caduta del muro e la fine dei regimi dell’est costituiscono il momento conclusivo della capitolazione di un sistema ormai sfaldato.
Sappiamo benissimo che è molto arduo non ragionare in termini di rotture col passato. Stabilire rotture serve per periodizzare e orientarsi. Ma in questa prospettiva la rottura su cui occorrerebbe ancor più riflettere è quella del 1991, quando crollò l’Unione sovietica. Da allora non solo venne meno il bipolarismo sullo scacchiere internazionale, ma si alterarono profondamente i rapporti di forza all’interno dei sistemi politici occidentali. Non c’era più motivo di assecondare la socialdemocrazia per sventare le lusinghe, per quanto ingannevoli, del socialismo realizzato. In realtà, queste lusinghe non valevano da un pezzo, ma il 1991 ne segnò la morte ufficiale, trascinando con sé anche la prospettiva socialista che le socialdemocrazie avevano seguitato a coltivare, ancorché proiettata nel lungo periodo. Il comunismo era finito, ma aveva trascinato nella sua tomba anche la tradizione socialista e democratica dell’Occidente. Il mercato aveva trionfato. Quando il mercato comincerà a mostrare in modo eclatante i suoi fallimenti, si evocherà al più un’incerta “terza via”, del tutto incapace di contrastarli. Ciò ha inferto fieri colpi ai sistemi di welfare che nel frattempo erano stati faticosamente costruiti e che i partiti dell’ex-movimento operaio non hanno saputo – o potuto – difendere.
In effetti, già la fine del fordismo aveva indebolito il welfare, colpendo il mondo del lavoro e le sue rappresentanze sindacali e partitiche. Ma la caduta del socialismo reale ha sancito la definitiva vittoria ideologica del neoliberismo. Non è affatto provato quanto da più parti si sostiene, ovvero che il welfare diffuso è insostenibilmente costoso, quando invece sarebbe sufficiente finanziarlo con un’imposizione fiscale progressiva e adeguata. Ma la grande novità è che la socialdemocrazia ha disarmato e ha preferito inseguire il modello vincente. Né il Labour, né l’SPD hanno saputo attuare politiche in grado di proteggere realmente le classi deboli e in tal modo hanno progressivamente perso le loro radici. Anzi: sarebbe meglio dire che hanno promosso unicamente modeste politiche protettive e nessuna politica in grado di restituire loro l’identità scompaginata dalle politiche neoliberali. Le cosiddette politiche attive del lavoro e gli ammortizzatori sociali rinnegano un principio essenziale della socialdemocrazia: il lavoro come motivo di dignità dell’individuo, come forma di ancoraggio alla vita collettiva.
A vent’anni dalla caduta del Muro, la SPD tedesca non per caso ha registrato il peggior risultato della storia del dopoguerra, mentre hanno guadagnato terreno altri partiti della sinistra. Il che dimostra che gli ideali di socialdemocrazia non hanno affatto perso appeal presso gli elettori: sono piuttosto i partiti che si richiamano alla socialdemocrazia che si sono rivelati incapaci di rispettarne, seppure aggiornandola, la tradizione e gli ideali.
Con ciò, ci sarebbe da riflettere sul destino dell’uguaglianza. Nel mondo occidentale le disuguaglianze sono di certo aumentate nell’ultimo ventennio – in fatto di reddito, ma anche di opportunità – e anche la mobilità sociale si è ridotta. Nell’ex-Europa Orientale si tengono elezioni più o meno libere e competitive, ma le vecchie tutele diffuse del socialismo reale sono state dismesse e anche lì l’uguaglianza sostanziale è a conti fatti in declino, mentre solo alcuni ceti numerosi, ma pur sempre minoritari, si approssimano al benessere occidentale. Senza essere nostalgici del passato, il bilancio di ciò che si è guadagnato nel cambio andrebbe fatto in maniera non superficiale.
Il crollo del socialismo reale ha impresso una svolta anche al modello di costruzione europea. Ne avrebbe potuto causare la dissoluzione. Invece l’Europa ha retto, ha realizzato la moneta unica e ha inglobato alcuni paesi dell’Est. Il risultato è positivo, secondo molti. Ma da altri punti di vista il bilancio è assai deludente: la caduta del Muro ha interrotto il processo di costruzione dell’Europa politica e ne ha indebolito le fondamenta. Lo spirito iniziale si stava affievolendo, intaccato dal neoliberismo degli anni ottanta. A questo ha contribuito anche il ricambio generazionale, il venir meno della memoria storica. La globalizzazione ha a sua volta prodotto spinte nazionalistiche e localistiche, in netta opposizione con l’idea di un’Europa politica. La caduta del muro ha segnato la supremazia definitiva dell’Europa degli interessi sull’Europa degli ideali. Ha favorito l’integrazione dei mercati. La Germania ha creato un asse commerciale privilegiato con i paesi dell’Est, facendone un serbatoio di manodopera a basso costo e un mercato in espansione.
Negli anni aveva preso piede l’idea della costruzione di un’Europa sociale, sostenuta dai partiti socialdemocratici, ma l’illusione di coniugare solidarietà e welfare è svanita con l’allargamento a est. L’opportunità di delocalizzare le imprese, sfruttando il doppio vantaggio di mercati in forte crescita e di bassi costi di produzione, del lavoro in particolare, hanno spinto verso un rapido allargamento del mercato unico.
Va da sé che le istituzioni create per pochi paesi, relativamente omogenei, non potevano funzionare per 27 paesi. Ma sarebbe fuorviante limitarsi al problema delle istituzioni. Il progetto europeo, nato sulle rovine della seconda guerra mondiale – sviluppatosi non solo come progetto di libero mercato, ma anche come progetto politico – è naufragato a causa degli interessi economici.
Nello scenario della fine dei blocchi, la sinistra italiana non si è sottratta al deprimente destino della sinistra europea, seppure con qualche – ancor più deprimente – specificità. Quando Berlinguer riconobbe l’esaurimento della spinta propulsiva del socialismo reale, il fallimento del progetto del ‘compromesso storico’ si era già consumato. A esso non si sostituì alcun’altra strategia credibile da parte della sinistra. Dopo lo stallo degli anni ottanta, con il crollo del Muro la maggiore preoccupazione del Pci occhettiano fu di cambiare nome al partito per non essere travolto dalle macerie. A tutti i livelli, una parte cospicua dei quadri dirigenti della sinistra italiana manifestava la sua natura di ceto politico adattivo, sempre più incline alla ricerca di quotidiani compromessi con l’avversario, Il craxismo aveva allontano il Psi dalla sinistra e come unico corrispettivo delle socialdemocrazie europee era rimasto di fatto il Pci (per quanto il suo riferimento ideale non fosse certo la socialdemocrazia). Gli eredi di quello che era stato un grande partito di sinistra, che, seppure dall’opposizione, aveva contribuito enormemente alla crescita della democrazia italiana, aprendo anche, tra infinite incertezze e contraddizioni, una prospettiva d’innovazione al movimento comunista internazionale, furono tuttavia sopraffatti dalle loro alchimie tattiche. Affossata quella che con spregio è stata chiamata Prima repubblica, gli epigoni del PCI hanno voluto ad ogni costo il bipolarismo – il quale ha risvegliato sotto le insegne berlusconiane i vecchi torbidi fantasmi del moderatismo italiano – e non hanno saputo neppure allestire un competitore credibile per la nuova gara bipolare. Gli ultimi comunisti – quelli di Rifondazione – non hanno retto la sfida del governo: diversamente dal Pci, di cui si proclamano gli eredi, non hanno saputo coniugare cultura di governo e antagonismo e si sono squagliati. La fantasia dei post-occhettiani si è appagata della fusione con una quota minoritaria dell’avversario di mezzo secolo, il partito cattolico, i cui eredi e clienti hanno peraltro massicciamente preferito l’altra parte. Tutti, per stare più sicuri, litigano tra loro con entusiasmo invidiabile perfino per i polli di Renzo. Il risultato netto è che la democrazia italiana si avvia al secondo decennio del Duemila in una condizione di disperante debolezza.
Non c’è da parte nostra alcun rimpianto per muri e barriere, per lo stato di polizia, per quell’ammorbante e kafkiana assenza di democrazia che c’era all’Est. Ma abbiamo la consapevolezza che enormi errori sono stati commessi e che sia stata mancata una grande occasione. L’ideologia liberista che si è imposta in Occidente dai primi anni ottanta ha indebolito il principio di fraternité. L’accoglienza ai paesi che si affrancavano dal comunismo è avvenuta in termini di miope interesse economico. Il neoliberismo, che già stava producendo grossi danni alla democrazia e all’economia dei paesi occidentali, ha precluso ai paesi dell’est l’opportunità di una transizione all’economia di mercato guidata da principi di equità e democrazia. Cosicché, caduto il muro di Berlino, altre barriere si sono alzate, forse invisibili, ma ancora più difficili da valicare.
Noi, nati nel paese
che più non c’è,
ma in quell’Atlantide
noi eravamo,
noi amavamo.
Giace la nostra bandiera
nel gran bazar d’Ismajlovo.
La “smerciano” per dollari,
alla meglio.
Non ho preso il Palazzo d’inverno.
Non ho assalito il reichstag.
Non sono un “kommunjak”.
Ma guardo la bandiera e piango.
(Evgenij Evtusenko, da “Arrivederci, bandiera rossa”, 1992)