di Federico Repetto
Carlo Galli si trova d’accordo con il quadro della problematica della mediazione disegnato dalla nostra introduzione al numero. Gli domandiamo quindi:
Cosa pensi dell’attuale attacco alla mediazione politica partitica attraverso la personalizzazione spinta, illusoriamente presentata come rapporto immediato leader-cittadino? Secondo te è collegata all’attacco contro le altre forme di mediazione sociale, o al loro declino strutturale, o altro?
Viviamo in un’epoca in cui sorgono nuove mediazioni, che però non si presentano come tali, e che anzi tentano di apparire inesistenti e di farci credere che si viva nell’immediatezza e nella spontaneità, nella naturalità, o almeno in uan doimesione non modificabile. Le mediazioni storiche tipiche della modernità sono saltate perché non ci sono più i soggetti storici, politici ed economici interessati ad esse. La scena è tenuta da altri soggetti interessati alla creazione di nuove forme di mediazione, caratterizzate proprio dalla capacità di scomparire: la nostra vuol essere l’epoca dell’immediatezza, del rapporto diretto col leader, mentre mai come oggi il rapporto tra capo politico ed elettori è mediato appunto dai media; ciò che conta è, comunque sia, che non debba nulla alla mediazione, odiosa e arcaica, dei partiti.
Secondo te che peso e che senso ha la diffusa concezione dei media elettronici come sostituti della mediazione umana?
Oggi la mediazione non è affatto sparita, ma ha cambiato forma e funzione. Mentre la mediazione moderna dava la possibilità ai ceti svantaggiati di acquisire piena cittadinanza, oggi le nuove mediazioni tendono tutte a produrre isolamento, attraverso la rappresentazione e la finzione della soggettività spontanea. Proprio i media elettronici sono fonte di isolamento e non di unione. È una mediazione immediata, perché il cittadino è in contatto come monade con altre monadi, e senza alcuna responsabilità, cioè perde ciò che vi è di fondamentale nel rapporto politico, ovvero il farsi carico di se stessi e degli altri: in Rete ciascuno dice tutto quello che gli pare, ma nessuno risponde di nulla.
Ma ti sembra più importante il fatto che i nuovi media elettronici siano realmente strapotenti, in discontinuità rispetto al passato, oppure il fatto che con la crisi economica e politica attuale le élites tendano a ricorrere alla mediazione mediatica-tecnologica non essendo in grado di esercitare una egemonia razionale?
Le élite di oggi, quelle che hanno il potere economico reale e quindi la capacità di agire sulle élites politiche, certo non sono più le élites borghesi della prima età moderna, che legittimavano il loro accesso al potere politico (oltre che economico) grazie alla loro capacità di innovazione intellettuale. Le élites di oggi producono invece mediazione immediata non solo attraverso la forma merce ma anche attraverso l’amplificazione mediatica dell’intimità. Viviamo in una società grondante sentimenti che vengono costantemente diffusi e amplificati dai media. La democrazia sembra consistere nello spazio concesso a tutti di esternare i propri sentimenti, nella possibilità per ciascuno di andare in televisione per dire quanto voleva bene a Tizio, quanto Caio lo ha maltrattato, ecc. E questa infinita congerie di sentimentalità serve a rimuovere i dati strutturali, a occultare le articolazioni reali dell’economia e della politica. E il modo che le élites – quelle economiche e tecniche che hanno il potere reale – hanno trovato oggi per legittimarsi è paradossalmente quello di scomparire come élites, o meglio di diventare élites invisibili (a parte quelle frange che si concedono alla spettacolarizzazione del lusso e del glamour, anch’essa parte del gioco) e far sparire il concetto stesso di mediazione. La mediazione è solo ciò contro cui si polemizza: i partiti, i rappresentanti, gli intellettuali…
E gli insegnanti!
…i professori, certo. Nella mediazione in senso proprio e classico c’è il principio di autorità, mentre nella pseudo-immediatezza c’è democrazia virtuale elettronica, raccontata, narrata: prevale la dimensione delle infinite soggettività, dilatate all’estremo. Milioni di storie private che sperano di trovare una piccola audience televisiva.
Passiamo ora ad un tema specifico. L’attuale attacco alla mediazione politica partitica classica passa, a mio avviso, anche attraverso l’amplissimo ricorso alle primarie; che spazio c’è secondo te per le primarie in un partito di sinistra?
Le primarie possono promuovere persone che abbiano una rete, come i funzionari di partito, i politici di professione, che hanno dedicato tempo – non dico denaro – concentrazione, dedizione, al crearsi una base elettorale. Se la modalità di accesso alla politica passa solo attraverso le primarie, il rapporto di osmosi tra società e politica soffre. Se vogliamo un professore in politica, non gli possiamo chiedere di partecipare alle primarie vittoriosamente. Naturalmente si può pensare che sia meglio che i professori facciano i professori e i politici facciano i politici, ma ciò potrebbe comportare d’altra parte anche un impoverimento della politica. Allora se vogliamo un professore, è inevitabile che sia cooptato, tanto da un partito vecchio stile quanto da un nuovo partito delle primarie. In generale, il partito tradizionale tentava di far crescere le persone attraverso percorsi graduati, alla fine dei quali si poteva concludere che qualcuno fosse pronto per il mandato politico. Oggi invece assistiamo a bruschi passaggi dall’anonimato del lavoro di partito al parlamento solo perché una persona ha avuto la capacità di avere consenso, anche se momentaneo, come uno spot. Ma poiché oggi si chiede ai politici proprio di portare consenso – e sicuramente i professori, le figure dell’autorità, il consenso non lo portano – le primarie, anche se non garantiscono che gli eletti abbiano una formazione politica adeguata, sono un metodo funzionale alla politica di oggi di produrre e riprodurre ceto politico.
Cosa pensi della mescolanza tra leadership parlamentare/governativa e leadership del partito? Delle primarie aperte ai non iscritti per le cariche di partito a livello nazionale, e anche a livello locale?
A Bologna facciamo spesso primarie, e sempre aperte, ovvero con possibilità di voto per chiunque si dichiari elettore. Il Pd non vuole certo rinunciarvi, perché sono un efficacissimo strumento di propaganda, dato che attirano l’attenzione dei media, perché c’è competizione e perché mostrano l’apertura del partito verso l’esterno. La contro-indicazione è che a volte gli sconfitti alle primarie non collaborano con i vincitori e spezzano l’unità del partito, fino a fargli perdere le elezioni. Più in generale, oggi, primarie a parte, non è il partito che elegge il segretario, ma il segretario che si fa il partito. Non c’è più la variabile segretario e la costante partito. La variabile anzi è il partito, e la costante è l’uomo che si mostra capace di vincere non solo le primarie, ma soprattutto le elezioni politiche. Il partito è quasi solo un partito elettorale, un partito di cui qualcuno si impadronisce con le primarie e che viene usato poi per vincere le elezioni. Si suppone che questa persona abbia un certo orientamento politico, ma certamente il baricentro della politica oggi non sta nel partito. I partiti tradizionali non ci sono più: sono stati uccisi, e al tempo stesso si sono suicidati.
Le primarie sono qualcosa che avviene dopo questa morte?
Un partito un tempo credeva in se stesso, non nelle primarie. Per credere in se stesso un partito deve essere fortemente strutturato, fortemente radicato; deve essere un partito in cui si discute molto, dove entrano molte idee e molti interessi che si confrontano, e perciò non ha bisogno di primarie perché ha l’esterno già dentro di sé; ma oggi questo non c’è più e un partito va a cercare il consenso come può, e le primarie sono un buon modo per ottenere consenso (con i rischi sopra accennati).
Il partito elettorale dunque non è certo un partito di idee. La situazione italiana attuale è caratterizzata dalla neutralizzazione completa di ogni tradizione culturale, di ogni continuità nei riferimenti simbolici, anche quelli compatibili semplicemente con il liberalismo bobbiano (socialismo, liberalsocialismo, lavoratori, lavoro, sinistra); i nomi e i simboli dell’ex pci e delle coalizioni da esso guidate hanno subito continui mutamenti (fino a Renzi che, alla Leopolda, non ha mai usato le insegne del PD); perfino SEL nel nome fa riferimento alla sinistra ma non al socialismo. Mi pare che questa strategia di distruzione dall’alto non corrisponda al sentimento di gran parte della base. Quali sono secondo te in questo momento le idee-forza che possono credibilmente aiutare la sinistra a recuperare qualcosa del suo bacino di militanza e di intelligenza potenziali?
La sinistra, per me, non può non avere a che fare col lavoro, intellettuale e materiale. Deve fare in modo che il lavoro sia il centro della società. Oggi il lavoro non lo è: il sistema economico è congegnato in modo che il lavoro sia una variabile dipendente e una merce a buon mercato infinitamente sostituibile. Secondo il neoliberismo il lavoro deve essere solo una parte della vita del lavoratore, non il cuore di essa. Al lavoratore il neoliberismo chiede poco (quanto a qualificazione) e dà poco: retribuzioni basse, certo, ma soprattutto lo vuole incondizionatamente subalterno. Certo, ci sono anche posizioni di responsabilità, in cui occorre un know how, ma anche in quel caso il lavoro non deve essere qualcosa in cui ne va della tua esistenza. Io invece penso che il lavoro sia il cuore esistenziale delle persone. Se c’è un umanesimo moderno è un umanesimo del lavoro, la mediazione reale attraverso cui il soggetto entra in relazione con sé e con gli altri. La nostra repubblica è fondata sul lavoro, che è il cuore esistenziale degli individui e della loro relazione sociale. La sinistra quindi deve lavorare per fare in modo che il lavoro torni ad essere il momento centrale dell’esistenza delle persone e della società, posto che ciò sia possibile storicamente e politicamente, e che le persone lo vogliano, che non si siano già abituate allo stile di vita e al modo di pensare il lavoro del neocapitalismo. Cioè solo come fonte necessaria di reddito, e non come momento centrale dell’esistenza, come rapporto sociale. Se il lavoro perde definitivamente la sua centralità, la sinistra può essere, certo, “sinistra dei diritti”: ma senza la tutela del lavoro che ne è dei diritti?
Io temo che per riprendere oggi il discorso sul lavoro la sinistra avrebbe bisogno anche di una forte rifondazione culturale. Inoltre il lavoro a un certo punto è stato piegato nei rapporti diretti di lavoro, sui luoghi di lavoro, ma è stato anche distrutto culturalmente dalla cultura del consumo. Le ultime generazioni fin da piccole sono state bombardate da messaggi mediali antilavoro e proconsumo, dalle promesse di lavoro nello spettacolo provenienti dai talent show, dalla speranza nella fortuna (tipica dei quiz) e dall’invito ad affidarsi al proprio fascino seduttivo, ecc, e certo non è stata la scuola ad insegnargli la disciplina del lavoro. Ma mi pare che, arrivati in azienda, – che io vedo molto più severa di come la vedi tu – gli viene richiesta proprio la disciplina del lavoro.
La disciplina sul lavoro consiste soprattutto nel fatto che il lavoratore non deve creare problemi politici al padrone, non deve rivendicare nulla; ma mi pare che il capitalismo odierno richieda una bassa qualità del lavoro, un basso livello di impegno, di attenzione. Non sono infrequenti prestazioni lavorative davvero pessime, poste in essere da persone che hanno studiato male, a cui è stato insegnato male. E il padrone è di solito poco interessato alla qualità degli studi Certamente, a un certo livello di mansioni, la cosa cambia: si chiede che l’ingegnere sappia fare almeno l’ingegnere. Ma il nostro è un capitalismo che va un po’ all’ingrosso; forse ciò è proprio dell’Italia che non è più un Paese centrale nel sistema capitalistico globale.
Però si va all’ingrosso anche al livello alto. So di vecchi manager e dirigenti che si lamentano che quelli nuovi, che magari li sorpassano rampando nella catena gerarchica, sono spesso impreparati, approssimativi…
Infatti il capitalismo non ha più le caratteristiche di efficienza e di dedizione al lavoro, che erano sue caratteristiche storiche tipiche. Produce oggi merci di ampio consumo di massa affidandosi alle tecniche automatizzate; e si fregia di fiori all’occhiello della ricerca, di pochi laboratori che sono le punte avanzate dell’innovazione, con numeri ridottissimi di ricercatori. Ad esempio, in Italia abbiamo aziende di punta, creative, dell’alta moda, ma non è detto che tutto il settore dell’abbigliamento lavori così. E’ questo che mi fa dire che l’insieme del capitalismo italiano pare funzionare all’ingrosso.
Tu parli, nel saggio su “Legge elettorale e oltre”, di “partito formativo”. Vorresti spiegarci qual è secondo te il nesso tra l’educazione (garantita a tutti dalla costituzione) e la formazione politica? Qual è la formazione necessaria per i cittadini del xxi secolo, e quali sono le condizioni formative dell’esistenza di una sinistra?
Se una scuola pubblica funziona, fa un’operazione politica, non partitica, perché produce, oltre a un minimo di cognizioni nella testa delle persone, oltre alla capacità di organizzarle e di argomentare, anche cittadinanza consapevole. Mi rendo conto che tutto ciò è assai inattuale…
Tuttavia molti insegnanti non sono estranei a questa logica…
Certo. Ma, nonostante gli sforzi di molti, la scuola ha troppi e troppo potenti concorrenti nella società. Ciò che non fa la scuola dovrebbe farlo il partito formativo, ciò che non fa il partito formativo dovrebbe farlo la sinistra. O un’agenzia educativa capace di trasmettere quella consapevolezza mediata, riflessiva, senza la quale non si è padroni di se stessi. Ciò di cui stiamo parlando nasce dall’idea di fondo della modernità, che gli esseri umani hanno diritto di essere padroni di se stessi, e se non lo sono vanno messi in condizione di esserlo.
Certo. Articolo 3 Costituzione, comma 2°: è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono di fatto il pieno sviluppo della persona e la partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione del Paese…
…e questo è ciò che la modernità ci dà come obiettivo. E gli strumenti moderni, a questo fine, erano: lo Stato e il partito, e per certi versi anche il mercato, che, come diceva Marx, recideva le variopinte catene che legavano l’uomo alla natura. Insomma se non si fornisce all’uomo la facoltà di essere consapevole e padrone di se stesso si viene meno al telos fondamentale della politica moderna.
D’accordo, ma come può il Pd, che fa quel tipo di primarie, che è un partito del leader, un partito elettorale ecc., esercitare il ruolo di partito formativo?
Infatti non vuole e non può. Per ora. Ma se le cose proseguono e non precipitano, il ruolo del partito dovrà essere ripensato; nella rinascita dell’Italia – l’obiettivo di Renzi, ma anche di tutto il Pd – dovrebbe esserci anche la rinascita dei partiti.
Allora siamo in un dilemma…
Diciamo che attualmente non ci sono molti partiti formativi. Siamo nella situazione di dire: ci vorrebbe una certa cosa, ma non c’è. Certo, si può anche dire: cominciamo a costruirla. Ti posso dire che cosa faccio io a questo fine: sono presidente della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna. Mi sforzo di costruire percorsi di crescita culturale e politica per i giovani e per gli insegnanti. I risultati sono buoni, ma chiaramente si sviluppano solo nel lungo periodo.
È l’esatto opposto della Leopolda.
Certo. Ma anche la politica vincente di oggi – e per fortuna che è vincente: pensa a che cosa sarebbe stato un successo di Grillo – dovrà dotarsi di un cultura politica articolata e di qualche spessore, se non vuole correre il rischio di essere solo una corrente di emozioni, in quanto tale estremamente volatile. Da una parte è vero che la politica consiste nell’usare il materiale che c’è, nello stare nel proprio tempo; ma dall’altra si deve stare nel proprio tempo nel modo migliore. In questa citazione da Hegel, un po’ corretta, c’è la sfida. E sono curioso di vedere come verrà affrontata, ora che comincia un’era nuova.
Veniamo a un ultimo punto. Come valuti oggi il M5S- in primo luogo dal punto di vista della rappresentanza politica e della promessa dell’eliminazione della mediazione umana a favore della mediazione tecnologica, e poi riguardo ai suoi militanti ed eletti, in cui è rilevante la componente di sinistra? Nel M5S c’è gente di tutti i colori, ma alcuni di loro che conosco li farei entrare in un partito formativo, se ce ne fosse uno…
Non trovo molto formativo il fatto di farsi cacciare dall’aula a Montecitorio (anche se in commissione i 5S sono più collaborativi). Valuto contraddittorio il fatto di voler far a meno della mediazione partitica, istituzionale, mentre l’unico collante tra loro è una persona fisica, e del tutto inadeguata, perché troppo orientata a un profilo ‘scenico’.
D’accordo!
Grillo è più un uomo di spettacolo che un uomo politico: non si fa scappare nessuna battuta, anche la più controproducente perché è un animale da spettacolo. È il loro unico collante: senza di lui tornano ciascuno dalla solitudine da cui proviene. Perché la Rete è solitudine.
Su questo non sono d‘accordo. Al contrario, guardando sui loro siti le loro schede di presentazione per le parlamentarie, risulta che moltissimi vengono da realtà associative, che sono gente molto socializzata. Il M5S ha risucchiato movimenti, comitati, realtà locali…
Bisogna fare le debite proporzioni. È vero, il M5S ha risucchiato altri movimenti. Molte persone con una forte vita associativa sono confluite lì. Ma se parliamo dell’elettorato, cioè di milioni di persone, le cose sono diverse.
Io vedo non solo negli eletti, ma nei militanti, che non sono neanche pochi, una forza formativa, anche se mal orientata…
Ma i primi a dover essere formati sono loro.
Sì. Ma la formazione ha tanti livelli, ci sono dei livelli nei quali sono apprezzabili.
Sono proprio loro – che tanto spesso parlano della necessità che noi, esponenti di altri partiti, veniamo ‘rieducati’ – a dovere essere formati. Sono giacobini e non lo sanno. Sono dannunziani e non lo sanno. Sono diciannovisti e non lo sanno. Diciamo che lì c’è un potenziale che è un peccato vedere così mal adoperato. Se non si dota di una seria e articolata cultura politica, il M5S non ha futuro.
Questo dicevo. E comunque è significativa la provenienza dalla sinistra.
Ci sono radicali giacobini, ci sono persone che provengono dalla sinistra (molte delle quali sono ritornate a noi, o all’astensionismo), ci sono anche ‘moltitudinari’ e movimentisti; e ci sono anche pulsioni antiparlamentari. C’è di tutto, com’è ovvio in un movimento populista, meno che una cultura politica matura e adeguata alla terribile difficoltà dei tempi.