La nostra classe dirigente
di Silvano Belligni
1. Benché la questione della “classe dirigente” sia un tormentone che riaffiora periodicamente sui media nazionali e cittadini, riproponendosi con poche variazioni nel succedersi delle generazioni e dei regimi, quello attuale sembra un buon momento per tornare a parlarne. Non tanto perché le imminenti elezioni pongono di per sé il tema della qualità e del ricambio del personale di governo quanto perché, come ormai quasi tutti riconoscono, siamo alla fine di un ciclo politico che ha fortemente caratterizzato la storia recente della città e una riflessione retrospettiva si impone anche su questo terreno. In ogni caso, il tema delle classi dirigenti mantiene pur sempre una sua corposa rilevanza, se è vero che dalla loro qualità e dalla loro azione dipende, almeno in parte, la ricchezza delle nazioni e delle città. E’ giusto dunque discuterne, a patto che esso venga posto nei suoi giusti termini e non agitato retoricamente a fini di lotta politica o di marketing sociale.
Ci sono due modi per impostare il problema. Il primo è quello, tra il lamentoso e il furbesco, della deprecatio temporum, per cui la “classe dirigente” viene sempre considerata in tutto o in parte inadeguata ai tempi, organicamente incapace di rappresentare le “forze emergenti” della società, o vista senz’altro come il frutto di una selezione avversa che deprime le forze vitali del merito e del talento (specie delle giovani generazioni). Questa posizione rientra nella normale dialettica sociale e nella fisiologia della lotta politica, che negli intorni elettorali tende inevitabilmente ad accentuare i suoi toni, ma non sembra in grado di offrire una serie prospettiva interpretativa né convincenti spunti di riforma.
L’altro approccio – che a noi sembra più proficuo, anche se tutt’altro che facile da praticare e fortemente controvertibile nei suoi risultati – consiste nel valutare la classe dirigente di una comunità iuxta propria principia, alla luce del lavoro da essa effettualmente svolto, mettendone in risalto caratteri, doti, manchevolezze e prospettive in relazione al contesto in cui si colloca e ai risultati conseguiti.
Assumendo questa seconda prospettiva, l’interrogativo dirimente potrebbe essere formulato sobriamente in questi termini: il gruppo che ha diretto Torino nel quindicennio a cavallo del secolo è stato all’altezza dei compiti che si era prefissato e delle aspettative che ha alimentato? E’ riuscito nel suo intento proclamato di trasformare la tendenza al declino della città in una metamorfosi rigenerativa? Rispondere in modo non sommario e non pregiudiziale a questa domanda significa rimettere il dibattito sulla “classe dirigente” locale nei giusti termini, non solo per consentire un giudizio storico-politico retrospettivo, ma anche per fornire elementi e criteri di selezione per il futuro governo urbano che vadano al di là delle istanze, invero un po’ stucchevoli, agitate dal giovanilismo d’assalto.
2. La prima condizione per impostare correttamente la questione è di aver chiaro il suo oggetto e i suoi limiti: di che parliamo quando parliamo di “classe dirigente”? Come hanno impietosamente mostrato alcuni recenti lavori storici e sociologici, l’espressione è semanticamente ambigua e empiricamente vaga, si presta a molti equivoci e tende pertanto ad essere usata perlopiù evocativamente e retoricamente, quando non in modo indiscriminato o partigiano. Meglio parlare allora di ruling class o, più amichevolmente, di élite di governo: intendendo con questa espressione non la “classe politica” ufficiale, ma il gruppo informale che riunisce quanti svolgono funzioni direttive essenziali nell’ambito del government cittadino e regionale e coloro che rappresentano i gruppi più dinamici della società civile e della società politica, e che concorrono in modi e da posizioni differenti alla formulazione dell’agenda urbana e alla sua realizzazione. Questa idea di élite governante deriva dalla constatazione che nei sistemi complessi la funzione di governo si struttura ordinariamente attraverso meccanismi di governance che travalicano i confini tra pubblico e privato (oltre che tra livelli amministrativi e spesso anche tra maggioranza e opposizione), dove ai poteri pubblici sono assegnati compiti di coordinamento, di facilitazione, di mediazione, di impulso, ma raramente compiti egemonici, di guida e di controllo unilaterale sulle politiche pubbliche.
Analizzata in questa luce, la Torino degli ultimi lustri sembra essere stata governata da una élite composta da poco più di un centinaio di persone, relativamente stabile nel tempo, eterogenea nella composizione ma culturalmente omogenea per visione e, soprattutto, per ideologia. Le caratteristiche di questa élite cittadina, agglutinatasi progressivamente a partire dall’inizio degli anni novanta intorno a una agenda di sviluppo e di rigenerazione urbana, offrono un utile punto di osservazione per intendere il senso dell’esperimento di governo che ha avuto luogo nella città sabauda e per consentire un giudizio meditato sui suoi contenuti, sui suoi esiti e sulle sue prospettive.
Nel merito, l’attributo che meglio sembra riassumerne la composizione è proprio l’eterogeneità. Eterogeneità politica in primo luogo: il gruppo raccoglie esponenti delle tre principali famiglie ideologiche che hanno dominato la storia nazionale e locale dell’Italia repubblicana: quella liberale, quella cattolica e quella comunista, quest’ultima reduce da una radicale (anche se non sempre esplicita) revisione della sua tradizione e dei suoi valori e da una omologazione ai canoni del neoliberalismo.
Eterogeneità dei background e dell’appartenenza professionale, in secondo luogo. Qui il dato rilevante è il nuovo equilibrio che si istituisce al suo interno, rispetto al passato della prima repubblica dominata dai partiti, tra politici di professione e “non politici” provenienti dalla comunità degli affari, dalle professioni liberali, dal nonprofit e dall’accademia. La presenza, crescente nel tempo, di career politicians, ossia di politici di vocazione e amministratori di complemento impiantatisi stabilmente, in posizioni direttive, nelle istituzioni più importanti del settore pubblico e parapubblico (valga per tutti la folta rappresentanza del milieu Fiat) non è tale da contraddire questa tendenza alla deprofessionalizzazione e alla diversificazione del gruppo che governa la città.
Nell’ampio spettro di categorie e di professioni che l’èlite torinese incorpora si esprimono “organicamente” una coalizione di governance e una agenda di sviluppo a loro volta assai ampie e diversificate. L’agenda è costruita intorno a tre assi di riforma urbana: il primo riguardante la rigenerazione fisica e l’hardwere urbanistico e infrastrutturale della città; il secondo rivolto a valorizzarne l’incipiente vocazione di “distretto culturale”, guardando soprattutto, più che al capitale umano e all’alta cultura, al turismo e all’intrattenimento; il terzo orientato a promuovere localmente la crescita di una società e di un’economia della conoscenza sviluppando innovativamente, e con respiro internazionale, il patrimonio tecnico e scientifico della tradizione industriale locale.
L’eterogeneità dei gruppi dirigenti e la loro apertura alla società vengono di regola considerati come una risorsa di governabilità e una condizione di successo. E un’agenda che copre una così vasta gamma di problemi e di soluzioni appare di per sé un segnale strategico della volontà di superare un modello di sviluppo improntato all’industrialismo manifatturiero e alla monocultura automobilistica. C’è da chiedersi, tuttavia, se una tale ampiezza di prospettive fosse realisticamente perseguibile nelle sue diverse articolazioni di policy, o se non presentasse una gamma di obiettivi troppo ambiziosa e eccessivamente dispersiva, sovradimensionata rispetto allo stato delle risorse e delle capacità disponibili. Sembra esservi stata, in altre parole, una sopravvalutazione delle possibilità di governo, a cui hanno concorso diversi fattori. Il primo è il desiderio di allargare la sfera del consenso includendo nella coalizione di governance un arco molto esteso di forze, molte delle quali interessate a compensazioni collaterali strumentali più che a convergenze strategiche e programmatiche. Nel calcolo può anche aver giocato la prolungata facilità di accesso a mezzi finanziari cospicui (in barba agli allarmi ricorrenti sulla crisi fiscale dello stato centrale e locale), impedendo una accorta selezione delle priorità e una maggiore consapevolezza dei limiti futuri. Infine, non sono forse estranei alla bulimia programmatica dell’agenda cittadina anche una certa ebbrezza progettuale di ambienti intellettuali sedotti dalla retorica dei patti e dei piani strategici, così come il coro dei consensi sollecitato da un’accorta politica di immagine e di marketing urbano.
Il concorso di questi fattori ha verosimilmente impedito di concentrare le risorse e gli sforzi su quello che, a giudizio di molti, avrebbe potuto e dovuto essere l’effettivo asse strategico su cui puntare e su cui far convergere le risorse e le intelligenze locali: la “Torino politecnica”. L’idea di una città capace di promuovere l’innovazione a partire dai suoi saperi industriali e dalle sue vocazioni tradizionali, da lì muovendo per investire e fecondare le altre aree di policy individuate nelle agende di sviluppo e più in generale l’intera società urbana, non si realizza che in minima parte. A uno sguardo retrospettivo, delle tre agende quella politecnica è stata, se non la meno evocata, certo la meno incisivamente realizzata, anche per l’insufficiente apporto di alcuni degli attori fondamentali, a partire dai poteri pubblici e dalla business community.
Analizzata dal nostro peculiare punto di osservazione, questa irresolutezza strategica trova un puntuale riscontro nella configurazione strutturale dell’élite civica di governo. Il reticolo organizzativo che disegna le varie centralità degli attori rivela l’assenza di un sottogruppo interno in grado di centralizzare l’influenza e le informazioni convogliandole in direzione dell’agenda politecnica. Più in generale, quello che l’analisi delinea – quantomeno sotto questo peculiare profilo – è un reticolo sufficientemente integrato da permettere una azione di comunicazione e di mediazione tra i suoi cluster, ma troppo frammentato e decentrato per consentire di svolgere una funzione di guida e di controllo all’ una o all’altra delle sue componenti. E’ un “circolo centrale”, una sede pluralistica di compensazione tra interessi, ma non una leadership.
3. Siamo consapevoli che la narrazione prevalente, accreditata dall’establishment locale – e avallata da autorevoli centri di ricerca internazionali, oltre che confortata da un esteso consenso dell’opinione pubblica che ha raggiunto il suo apice nel post-olimpiadi – racconta una storia alquanto diversa. La storia di un successo metropolitano, di una transizione in buona parte compiuta, di un governo che ha lavorato bene riuscendo nell’impresa di consegnare ai suoi cittadini una città rigenerata, più gradevole da viversi, più differenziata nel suo tessuto sociale e produttivo, cresciuta nella sua immagine nazionale e nella sua reputazione internazionale. Solo la crisi economica e finanziaria, e la recente vicenda Fiat, avrebbero impedito di portare a compimento il lavoro, mostrando però in pari tempo la vitalità della nuova Torino e la sua capacità non solo di reagire alle sfide, ma di resistere ai guasti. Se un paio d’anni fa l’attuale sindaco poteva affermare che “in pochi anni Torino è passata da un luogo di degrado e crisi a una città che ha saputo reagire alla crisi”, di recente l’ex sindaco Castellani ha ribadito che “il progetto di città che abbiamo elaborato nel 1993 ha raggiunto – qualcuno più, qualcuno meno – tutti i suoi obiettivi”.
Naturalmente c’è del vero in questa narrazione, come in quasi tutte le narrazioni partigiane. Ma molte evidenze empiriche e numerose testimonianze di esperti e di operatori, tutt’altro che pregiudizialmente ostili, raccontano sempre più spesso una storia differente, tanto più severa e preoccupata quanto più ci si allontana dalle tribune mediatiche, dalle celebrazioni ufficiali e dalle occasioni mondane. Che, al di là delle modulazioni interpretative e dei toni, si può ridurre a questo: Torino è più che mai in bilico su un pericoloso crinale, tuttora sospesa tra decadenza e rinascita, ancora alla ricerca di un equilibrio evolutivamente stabile che non riesce a instaurarsi.
E’ un’interpretazione che ci sembra più aderente alla realtà. Non si tratta – sia chiaro – di svalutare l’impegno, il rigore e l’intelligenza con cui molti dei protagonisti di questi anni si sono prodigati nel compito di portare Torino oltre se stessa. Molte delle realizzazioni di questi anni resteranno come patrimonio della città, e di questo dobbiamo essere loro grati. Né vogliamo, in questo intervento, contrapporre alla loro visione dello sviluppo, imperniata sull’idea di crescita competitiva come bene comune della città, sull’imprenditorialismo urbano e sulle developmental policies, la nostra personale visione, rimproverando loro di non aver realizzato l’utopia di un’altra città, partecipata e solidale, più giusta e sostenibile. Può darsi che quello che si è giocato in questi anni fosse l’unico gioco possibile in città. Ma, avendo preso sul serio la promessa da loro stessi formulata di un nuovo modello di sviluppo, si deve constatare che essa non è stata mantenuta e che il traguardo non sembra all’orizzonte. Torino appare oggi almeno altrettanto precaria sotto il profilo strutturale di quanto non fosse all’inizio del ciclo di governo che volge al termine. Possiamo fischiettare per farci coraggio o prenderne responsabilmente atto e trarne le dovute conseguenze, per ripartire. Ci vorrebbe una classe dirigente.