di Silvano Belligni
1. Secondo l’opinione prevalente, la crisi delle città industriali nasce dal declino della sovranità politica ad opera della globalizzazione: è un effetto dello svuotamento dello Stato nazionale e della tendenziale emancipazione delle città dalla dipendenza dal centro. Nel “nuovo intermezzo” che si apre le città vengono investite di nuove responsabilità, sia economiche che politiche: rischiano la deindustrializzazione e il declino, ma tendono anche ad assumere una centralità inedita nell’economia politica del capitalismo globalizzato. Si aprono nuove opportunità per l’iniziativa strategica delle élite locali su cui ricade la scelta del modello di sviluppo urbano da realizzare. Le città diventano artefici del proprio destino, responsabili della propria fortuna. L’agency non è ostaggio della struttura.
Secondo altre interpretazioni, la crisi muove invece dall’economia e dal modo di produzione: essa affonda le sue radici nella dissoluzione del modello di regolazione fordista-keynesiano (a sua volta da mettere in relazione con la crisi di profittabilità del capitalismo e la contrazione del surplus dei primi anni Settanta). A partire dagli anni 1973-75 il sistema di produzione fordista, e l’insieme connesso di pratiche, di norme, di istituzioni che ha dominato il mondo capitalistico nel lungo ciclo postbellico e che ha modellato la città industriale lascia progressivamente il campo a un regime di produzione flessibile. Le città manifatturiere vengono investite da processi di ristrutturazione produttiva che ne sconvolgono i precedenti equilibri spaziali e sociali, mettendone in forse lo sviluppo e esponendole ai rischi della decadenza e della desertificazione.
È in questo scenario critico (tante volte evocato) che, a partire dagli anni Ottanta, hanno corso i tentativi da parte delle élite urbane di mettere in campo strategie di sopravvivenza rivolte a non subire, ma a governare la ristrutturazione, ipoteticamente in grado di scongiurare i rischi del declino, e di traghettare proattivamente le città sotto stress verso nuovi equilibri sociali e produttivi, volta a volta denominati post-fordisti, post-industriali, post-moderni (dove il prefisso post denota soprattutto l’incertezza degli obiettivi e l’indeterminatezza degli esiti). Sui contenuti e sugli effetti di queste strategie, che abbiamo oggi di fronte, è opportuno (ma anche difficile) tentare un bilancio critico.
2. Le ricette con cui le città ex industriali hanno cercato di reagire alla crisi dello sviluppo e di contrastare i rischi di declino presentano inevitabilmente peculiarità contestuali e aspetti idiosincratici, ma mostrano a ben vedere una sostanziale uniformità, tanto in Europa quanto sull’altra sponda dell’Atlantico. Imprenditorialismo urbano e politiche di crescita competitiva sono il denominatore comune che caratterizza il ciclo politico urbano oggi arrivato a esaurimento: entrambi questi parametri sono un’applicazione ai contesti urbani del paradigma neoliberale divenuto egemone con gli anni Ottanta.
Imprenditorialismo urbano significa che le città tendono a comportarsi come imprenditori collettivi la cui missione è di promuovere il benessere della città come un tutto. In questa prospettiva le città sono in competizione tra loro, dentro e fuori degli Stati nazionali; se vogliono sopravvivere alla concorrenza e migliorare la loro posizione relativa di mercato devono intercettare il capitale mobile assicurandogli condizioni di profittabilità superiori a quelle offerte dai concorrenti; devono trattenere e/o attrarre risorse economiche e finanziarie, lavoratori qualificati, popolazione giovane, centri di ricerca, attività direzionali, talenti, eventi, turisti, consumi. A questo scopo devono impegnarsi in politiche di sviluppo economico del territorio (developmental policies). La crescita economica – e non la qualità urbana – è il bene comune (“l’interesse generale”) della città come sistema che risponde ai cittadini non solo stakeholders, ma shareholders, azionisti della propria città.
In quanto finalizzate a incentivare l’afflusso di risorse, le politiche di crescita si declinano nella forma tipica di politiche dell’offerta. Si tratta sostanzialmente di assicurare infrastrutture per le imprese, agevolazione fiscali, credito, sicurezza, assenza di conflitto industriale, disponibilità di forza lavoro qualificata e anche dotazione di strutture per il tempo libero e il divertimento. “Creare un buon clima per gli affari” è lo slogan che riassume questa strategia di imprenditorialismo urbano.
Viste in questa chiave, le politiche di crescita competitiva sono, almeno in una certa misura, “indipendenti dal contesto”: il loro nucleo è lo stesso per tutte le città. Al loro interno si modulano o si combinano in mix diversi tre principali cluster di politiche pubbliche: le politiche tradizionalmente rivolte a favorire le rendite e i profitti legati all’uso del suolo e all’attività edilizia e immobiliare; le politiche rivolte a promuovere e a sostenere la diffusione di una economia urbana basata sulla conoscenza e sull’intermediazione; le politiche rivolte a creare occasioni di intrattenimento e di consumo culturale. Growth machine, knowledge machine, entertainment machine sono tre espressioni gergali per significare l’inclinazione che possono assumere le agende di sviluppo urbano a seconda che si rivolgano a promuovere gli interessi fondiari e immobiliari in un contesto prevalentemente localistico; che privilegino un orientamento rivolto a promuovere l’innovazione tecnologica legata all’economia digitale e della conoscenza; o che inclinino piuttosto a favorire l’intrattenimento dei cittadini e dei turisti e a diffondere un’atmosfera creativa. Di regola ciascuna città cerca di perseguire tutti e tre questi obiettivi, ma uno finisce per prevalere definendo il carattere dell’agenda e il modello di crescita urbana.
In questa prospettiva strategica, le questioni redistributive e i problemi di integrazione e di qualità sociale e ambientale, e la condizione urbana a essi connessa, hanno necessariamente un posto di secondo ordine; sono non obiettivi primari ma, nella migliore delle ipotesi, vincoli, sottoprodotti della mobilitazione individualistica per la crescita. La nuova politica urbana è soggetta a dei limiti invalicabili (Peterson parla di city limits). La città manageriale-keynesiana che ha dominato un’epoca storica, incentrata sulle politiche redistributive (che trasferiscono reddito dai segmenti più forti a quelli più deboli della popolazione), sulle welfare policies e le politiche della domanda finanziate col deficit pubblico, non è più (se mai lo è stata) economicamente sostenibile. La qualità sociale e urbana, la sostenibilità ambientale, il coinvolgimento e l’empowerment dei cittadini non sono elementi costitutivi dell’azione di governo, ma derivazioni dello sviluppo. Lo spazio urbano non può che essere modellato in modo indipendente da scopi sociali, anche quando si ammette che la città è il luogo in cui le disuguaglianze di reddito, di ricchezza e di opportunità divengono concrete, vengono fissate e riprodotte, generando dualismo, frammentazione, gentrificazione, alienazione, anomia.
3. Al passaggio dalle strategie manageriali keynesiane alle strategie imprenditoriali schumpeteriane rivolte a promuovere la crescita competitiva delle città corrisponde una profonda ristrutturazione degli assetti di potere e dei modi dell’azione pubblica. Al cuore della revisione della urban politics si pone l’idea (e con essa la pratica) della governance. La governance è il modo in cui si esercita il potere nel quadro della accresciuta complessità ambientale, della frammentarietà e della contingenza della società urbana seguite alla dissoluzione dell’ordine industriale-fordista. Nella città dopo Ford le agenzie di governo non sono in grado di determinare unilateralmente le decisioni e di controllare i risultati della loro azione. Se vuole produrre e implementare decisioni efficaci lo Stato locale deve ricercare la collaborazione di organizzazioni private che dispongono di dotazioni autonome e possono mettere in campo poteri di veto e imporre non-decisioni. Il potere pubblico non può più agire come potere su, ma solo come potere di: deve ricercare la cooperazione o la neutralità di attori non governativi dotati di risorse complementari, promuovendo con essi patti ad hoc, partnership o alleanze durature di governo (regimi urbani).
Queste coalizioni urbane tendono a essere descritte da chi ne fa parte come pluraliste e inclusive, e come tali vengono accreditate dai media e dalla scienza politica. In realtà si tratta quasi sempre di una inclusione parziale e di tipo orizzontale, che chiama a codecidere sulle politiche pubbliche i rappresentanti della business community, delle professioni, della sfera del pubblico e di alcune agenzie del nonprofit, ma che non contempla il coinvolgimento attivo delle classi popolari. Sempre più la politica urbana diventa affare di ristretti nuclei di politicians selezionati attraverso meccanismi di tipo neo-notabilare; sempre meno i cittadini sono chiamati a discutere e a partecipare al policy-making. Anche perché, i partiti politici, già protagonisti effettivi della vita locale, si sono ormai ridotti a pallide larve, unicamente interessati al sistema delle spoglie (di quelle minori, per di più), e sono sempre meno capaci di collegare istituzioni e società e di mobilitarsi per fini collettivi. In questo scenario sconnesso, anche i movimenti urbani non possono che riflettere la disgregazione della città post-moderna, incapaci di trovare unità strategica, sintonie ideali o anche solo convergenze parziali. La conseguenza è che i cittadini sono ridotti al rango di consumatori passivi di occasioni ludiche e di assistenza, privi di voce se non per acclamare eventi e celebrità. Dietro le retoriche sull’inclusione, un potere elitario incombe sulle città in crisi. Modernizzazione anomica e rivoluzione passiva sono le categorie che meglio descrivono questi processi di cambiamento.
Entro le coalizioni di governance che sostengono le agende urbane, il potere pubblico gioca in ruolo variabile, talvolta anche prominente ma (quasi) mai preminente. Difficilmente ha una funzione di guida, egemonica. Quando non è “al guinzaglio” del mondo degli affari (come nei casi tipici delle growth machine americane), non esercita comunque un ruolo di leadership, ma si assegna compiti di intermediazione, di coordinamento, di facilitazione, soprattutto di assorbimento di quel rischio imprenditoriale che competerebbe agli imprenditori. Difficilmente, anche volendolo, riesce a sottrarsi alla struttura incombente delle opportunità economiche e alla dipendenza dal mercato (anche perché ha dismesso o tende a sottoutilizzare quel tanto di potere economico che gli deriva dal controllo dell’economia pubblica locale). In queste condizioni, l’autonomia pubblica che talvolta si sente stentoreamente proclamare, è un puro flatus vocis.
4. Il saldo netto generale di questa fase storica di trasformazione delle città ex industriali è controverso. Le analisi comparate non ci aiutano molto a capire se la transizione al post-fordismo abbia avuto generalmente successo (anche per l’ambiguità della nozione di successo urbano), se nelle città in crisi si siano o meno instaurati nuovi equilibri evolutivi capaci di autosostenersi. Quello che è certo è che la logica della concorrenza è un gioco a somma zero che, pur entro un’ampia varianza di situazioni (da Detroit a Monaco di Baviera), seleziona inevitabilmente fra le città in competizione vincitori e vinti. E che genera comunque al loro interno instabilità, precarietà, fluidità, dualismo, con costi crescenti che si scaricano sulle classi deboli.
Torino è un buon esempio al riguardo. I cambiamenti di questi anni sono indiscutibili, ma essi non hanno prodotto la metamorfosi annunciata del modello di sviluppo urbano. Anche al netto della crisi di fine decennio è continuata e si è accentuata la svalutazione della capacità produttiva locale. La città è tuttora sospesa tra ansie di rigenerazione e rischi di declino, incerta se diventare una tecnopoli (ma tutte le città hanno ambizioni simili), un paese dei balocchi per giovani nullafacenti (non per colpa loro) e per turisti mordi e fuggi, oppure se ripiegare su un boosterismo fuori dal tempo, che alimenta e legittima la costruzione speculativa dei luoghi e lo scempio edilizio e paesaggistico. Manca un progetto di ricostruzione della città su cui mobilitare risorse e intelligenze che vada al di là del marketing urbano, che trascenda la gestione dell’emergenza e del declino, nella speranza che passi la nottata e la mano invisibile faccia il suo mestiere e non continui a mostrare solo il suo dito medio.
Il punto è: esistevano (ed esistono) alternative – teoriche e pratiche – allo sviluppo urbano fondato sull’imprenditorialismo e sulla crescita competitiva e, in caso affermativo, quali? Il bene pubblico della città può essere ricercato attraverso strategie, coalizioni urbane e agende pubbliche diversamente orientate? È possibile sottrarsi politicamente ai condizionamenti strutturali della globalizzazione e alla dittatura del valore di scambio, o davvero vi è un unico gioco possibile in città e l’attore pubblico può agire solamente all’interno di un range limitato e predefinito di possibilità? Insomma: qual è nello scenario odierno lo spazio di autonomia di una politica urbana non dettata dal mercato e dagli imperativi della ristrutturazione? Qual è lo spazio effettivo dell’agency in rapporto alla struttura? Qua e là coalizioni progressiste si sono insediate al governo delle città, ma raramente sono riuscite ad attuare i loro programmi e hanno quasi sempre avuto una vita breve e travagliata. Bisognerà far tesoro delle loro esperienze, ma un’analisi retrospettiva non è sufficiente per ripensare politicamente la città. Né si può pensare che un’alternativa allo stato di cose esistente emerga spontaneamente dagli episodi di resistenza che costellano la vita urbana. Perché un’altra città sia possibile, è indispensabile un grande lavoro politico e intellettuale.