di Matilde Adduci
Vi è oggi una narrazione prevalente sull’India, secondo cui quella che è stata definita la più popolosa democrazia del mondo sarebbe altresì una ‘storia di successo’ della globalizzazione. Tale narrazione, che spesso rappresenta l’India come futuro ‘ufficio del mondo’ in virtù del dinamismo del suo settore informatico, si è progressivamente affermata dopo il 1991, anno in cui il paese ha avviato un progetto di riforma dell’economia – e di trasformazione della società – di stampo neoliberista. Non è superfluo ricordare la portata paradigmatica del cambiamento cui ciò dava corso. L’India si allontanava infatti nettamente da quell’esperimento di ‘economia mista’ avviato all’indomani dell’Indipendenza (1947), volto a ristabilire il controllo nazionale sullo spazio economico interno e imperniato sul riconoscimento del ruolo dello Stato nel processo di sviluppo capitalistico del paese. Se nell’ambito di tale progettualità lo Stato era considerato un attore chiave nei processi di crescita, nonché in quelli di redistribuzione della ricchezza socialmente prodotta, le politiche di riforma del 1991 trovavano invece il loro fondamento in un impianto teorico – già egemone a livello mondiale – che riconosceva una rinnovata centralità alla razionalità del mercato.
Successivamente all’avvio delle riforme neoliberiste, l’India ha conosciuto, come meglio vedremo, una rapida accelerazione del proprio tasso di crescita complessivo – sebbene sia importante ricordare che risultati significativi erano stati ottenuti in tal senso già nel corso degli anni Ottanta. Allo stesso tempo, il paese ha conseguito traguardi importanti in termini di crescita dei servizi informatici e, più in generale, ad alta tecnologia – là dove, per inciso, il ruolo giocato dallo Stato nello sviluppo dell’industria del software non è stato trascurabile. Per quanto rilevante, ciò compone effettivamente il quadro di una ‘storia di successo’? Tale storia è da considerarsi, poi, socialmente neutrale? In altre parole, l’esperimento neoliberista in India si sarebbe tradotto, così come la narrazione dominante vorrebbe, in una serie di processi di trasformazione in cui tutti sono potenzialmente vincitori? A fronte di tali interrogativi, intendiamo compiere qui di seguito un tentativo finalizzato a gettare luce, per quanto parzialmente, su alcuni importanti processi che la metafora di ‘ufficio del mondo’ o la locuzione ‘miracolo indiano’ non sembrano particolarmente adatte a illuminare. Ciò richiede il duplice sforzo di dar conto della natura della crescita indiana, nonché di riportare al centro della riflessione la questione del lavoro. In primo luogo, tuttavia, appare importante compiere un passo indietro ed esplorare la natura del consenso sociale che, ormai oltre vent’anni fa, si è coagulato intorno alla progettualità politica neoliberista.
La ridefinizione del ruolo dello Stato dei processi di sviluppo. Una progettualità socialmente neutrale?
L’estate del 1991 è stata contrassegnata, in India, dal precipitare di una grave crisi finanziaria. Ciò ha costituito l’evento scatenante in seguito al quale il paese ha intrapreso la strada dell’integrazione con un ordine economico internazionale ormai contraddistinto, in termini di ideologia e di pratiche politiche, dall’egemonia del neoliberismo. Si trattava, come abbiamo sopra accennato, di una svolta rispetto alla precedente strategia di ‘economia mista’ che coniugava, all’interno di un sistema democratico multipartitico, il ruolo di leadership del settore privato con un sostanziale intervento statale (Chandrasekhar e Ghosh, 2004). Elaborata sin dall’ultima fase della lotta anticoloniale, il cui principale protagonista fu il Congresso nazionale indiano, e posta poi progressivamente in essere sotto la guida di questo stesso partito – che, con l’eccezione di brevi periodi, mantenne la maggioranza assoluta dei seggi in parlamento sino al 1989 – tale strategia non si è rivelata priva di importanti contraddizioni. Non intendiamo, qui, soffermarci su queste ultime. Preme tuttavia sottolineare che, nell’ambito del dispiegarsi delle dinamiche di trasformazione economica e sociale cui il regime dirigista indiano aveva dato corso, a partire dagli anni Ottanta si era delineato uno scenario in cui influenti componenti sociali che avevano sostenuto il progetto di ‘economia mista’ – traendone importante vantaggio – si erano ormai consolidate a livello tale da guardare con interesse al suo superamento (Chandrasekhar e Ghosh 2004, Chibber 2006, Corbirdge e Harriss 2000). Fra queste vi erano importanti segmenti del capitalismo agrario, divenuti sufficientemente forti da ambire alla competizione sul mercato internazionale; desiderosi di ampliare il volume delle esportazioni, tali fasce sociali chiedevano una netta adozione delle riforme di mercato, nonostante queste prevedessero, fra l’altro, un notevole ridimensionamento della spesa pubblica in agricoltura. Al loro fianco si trovavano strati importanti del capitale industriale, in uno spettro che andava dai capitalisti di nuova generazione ai grandi gruppi monopolisti. I primi si dimostravano interessati ad avviare processi di integrazione, seppur come partner minori, con i grandi gruppi internazionali impazienti di accedere al mercato indiano; i secondi, da parte loro, mostravano una crescente insofferenza verso i vincoli imposti dal regime dirigista – che, per esempio, riservava importanti settori della produzione alla piccola e media industria, in virtù della sua capacità di generare occupazione. Il crescente consenso intorno al progetto neoliberista in India vedeva dunque l’intrecciarsi di interessi nazionali e internazionali, nonché la riaffermazione, all’interno dei confini nazionali, di una storica alleanza fra ceti agrari e industriali. Vi era, poi, il ruolo giocato da una classe media rafforzatasi durante gli anni del ‘dirigismo statale’ che, divenuta ormai più abbiente, ambiva ad accedere con maggior facilità ai beni offerti dal mercato globale e sosteneva dunque con forza le istanze di liberalizzazione del commercio. Non bisogna inoltre sottovalutare il ruolo giocato da un’emergente categoria di nuovi ricchi, non direttamente coinvolta in attività produttive, quanto in attività di intermediazione commerciale e finanziaria – talvolta sconfinanti in traffici illeciti – che si dimostrava naturalmente incline a sostenere il processo di integrazione con il mercato internazionale. A tutto ciò si aggiungevano, infine, le pressioni esercitare da quella componente dell’alta burocrazia che aveva sviluppato stretti legami con le grandi istituzioni finanziarie internazionali da cui emanavano, sin dai primi anni Ottanta, una serie di importanti prescrizioni volte alla diffusione della ricetta neoliberista nel Sud del mondo – altrettanti criteri di condizionalità per i paesi indebitati. Nell’insieme, si trattava di componenti sociali numericamente minoritarie, ma estremamente influenti dal punto di vista socio-economico e politico.
Era questo il contesto in cui, a fronte del precipitare della crisi finanziaria del 1991, il governo indiano, sotto la guida del Congresso, negoziava un ingente prestito con il Fondo monetario internazionale e avviava un programma di liberalizzazione dell’economia conforme alle condizionalità imposte da tale istituzione – nonché alle pratiche politiche suggerite un anno prima da Banca mondiale in un rapporto dedicato all’India (Byres, 1997). Ciò nonostante il fatto che alcuni influenti intellettuali avessero suggerito con decisione, nell’acceso dibattito apertosi nel paese, l’esistenza di possibili strade alternative (Chandrasekhar e Ghosh, 2004).
Si apriva così una nuova fase di governo dell’economia, a tutt’oggi in corso, caratterizzata da politiche di generalizzata riduzione della spesa pubblica; limitazione del potere di controllo dello Stato sulla capacità produttiva e sui prezzi (si pensi, ad esempio, alla questione del calmieramento dei prezzi degli alimenti base); politiche volte alla creazione di un contesto favorevole all’iniziativa privata, fra cui spiccava la diminuzione dell’imposizione fiscale; politiche di integrazione con il mercato internazionale, attraverso la progressiva liberalizzazione delle importazioni e degli investimenti; politiche di liberalizzazione finanziaria, che prevedevano la limitazione del controllo del sistema bancario, al fine di creare un ambiente favorevole alla proliferazione di istituzioni finanziarie in grado di incoraggiare l’entrata del capitale estero. Si trattava dunque di quell’insieme di politiche di ‘ritiro dello Stato’ che, a ben vedere, e contrariamente alla retorica neoliberista, difficilmente potrebbe essere conseguito da uno Stato minimo (Bernstein 1990, Byres 1997, Chadrasekhar e Ghosh 2004). In effetti, l’attuazione di questo insieme di misure richiedeva un’elevata capacità di gestione dell’economia da parte dello Stato e un’altrettanta elevata capacità di controllo dello stesso sui processi di trasformazione in atto. Nello specifico, da una parte, la burocrazia statale era chiamata a svolgere un ruolo chiave nel realizzare le politiche di taglio della spesa pubblica; dall’altra, nell’ambito delle politiche del lavoro, improntate a una crescente deregolamentazione e informalizzazione, alle istituzioni statali si richiedeva di dispiegare una notevole capacità di intervento e di controllo, se non di coercizione, in specie di fronte all’opposizione dei lavoratori organizzati sindacalmente (Byres 1997, Chadrasekhar e Ghosh 2004). In nome del ‘ritiro dello Stato’ sembrava di fatto avviarsi un processo, certamente non privo di tensioni, di netta ridefinizione della sfera degli interessi sociali in favore dei quali lo Stato veniva chiamato a intervenire.
Come abbiamo anticipato, la progettualità politica neoliberista venne avviata da un esecutivo guidato dal Congresso – che, non godendo della maggioranza assoluta, contò dapprima su una neutralità di fatto dell’opposizione e quindi sull’appoggio di alcuni partiti minori – e, dopo la sconfitta di questo partito nel 1996, fu portata avanti da governi di coalizione di breve durata. A partire dal 1999, poi, essa subì una netta accelerazione, in seguito all’ascesa al potere della National Democratic Alliance (NDA), la coalizione di governo guidata dal Bharatiya Janata Party (BJP), partito di destra fautore di una politica nazionalista e di difesa dell’identità indù. La sconfitta di tale coalizione, nel 2004, è stata attribuita, in maniera non secondaria, all’acuirsi della sofferenza degli strati meno abbienti della popolazione a fronte del rapido incedere delle riforme economiche, intorno alle quali stava prendendo corpo una crescente conflittualità sociale. Con il ritorno al potere di una coalizione guidata dal Congresso, denominata United Progressive Alliance (UPA) – poi confermata dalle elezioni del 2009 – l’impianto di politica economica è rimasto tuttavia fondamentalmente informato dalle prescrizioni politiche proprie del neoliberismo, seppure si sia assistito a una parziale introduzione di politiche sociali volte a mitigarne l’impatto sulle fasce di popolazione più vulnerabili. Fra queste, è importante ricordare il National Rural Employment Guarantee Act (NREGA), una legge finalizzata alla creazione di impiego nelle aree rurali approvata, non senza ritardi, sul finire del 2005 – vale a dire entro quel lasso di tempo durante il quale la coalizione di governo godeva dell’appoggio esterno delle forze di sinistra (fra cui il Partito comunista marxista), impegnate nel tentativo di condizionare il governo verso l’attuazione di politiche sociali. Ritorneremo su tale provvedimento, non prima di aver dato conto del quadro d’insieme emerso nel corso della realizzazione delle politiche di riforma.
Il miracolo indiano? Alcune riflessioni sulla natura della crescita nell’India della globalizzazione
Se nel corso degli anni Ottanta il tasso di crescita dell’economia indiana si era attestato intorno a una media annua del 5,5% – contro il 3,5% del quindicennio precedente – nel primo decennio successivo alle riforme di mercato la performance economica del paese si dimostrava ancor più degna di nota, con un tasso di crescita medio annuo pari al 6%. Con l’aprirsi del nuovo millennio, poi, l’India è andata incontro a un periodo di boom, nella fattispecie durante il quinquennio 2003-2008, in cui il tasso di crescita medio annuo ha sfiorato il 9%. Come si ricorderà, il 2008 è stato l’anno in cui ha preso avvio l’attuale congiuntura di crisi economica mondiale, cui l’India è riuscita a sottrarsi per un biennio, attraverso politiche di espansione della spesa pubblica e di contenimento dei tassi di interesse. Successivamente, con il venir meno di tali stimoli, il tasso di crescita del paese è rallentato, toccando il 6,2% nel 2011-12 e posizionandosi al di sotto del 5% nell’anno successivo. Se tale rallentamento è fonte di preoccupazione, in ogni caso nell’ultimo ventennio l’India ha conosciuto una traiettoria di crescita complessiva notevole. Non altrettanto può dirsi, tuttavia, dei traguardi conseguiti in termini di sviluppo umano; secondo i dati forniti dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (United Nations Development Programme – Undp) su tale indicatore, infatti, nel 2013 l’India si è collocata 136a tra 187 paesi (Undp 2014). Se si guarda, poi, all’indice globale della fame, nel 2014 l’India si è posizionata 55a su 76 paesi, con un livello della fame considerato ‘grave’ (e, sino all’anno precedente, ‘allarmante’), in uno scenario in cui il 70% dei bambini indiani al di sotto dei cinque anni risultava affetto da anemia (International Food Policy Research Institute 2014). Inoltre, se a inizio anni Novanta la percentuale di forza lavoro impiegata in condizioni di informalità era già pari al 90% circa, ad oggi essa è ulteriormente cresciuta, attestandosi intorno al 93%. Ciò significa che la quasi totalità della forza lavoro indiana è privata della sicurezza nelle condizioni di impiego (assenza di protezione contro il licenziamento arbitrario) e di lavoro (assenza di protezione contro incidenti e rischi per la salute), e non ha accesso a sistemi di sicurezza sociale fondamentali quali pensione, maternità o congedo per salute (Lerche 2012, Breman 2013).
A fronte di tali contraddizioni, pare opportuno interrogare più a fondo la natura del recente processo di crescita del paese. Nel far ciò, è in primo luogo importante soffermarsi su una tendenza invero preoccupante. Nel corso dell’ultimo ventennio, infatti, si è profilato in India uno scenario in cui la forza lavoro sottoccupata nelle campagne è costantemente aumentata, senza trovare sbocchi significativi in impieghi maggiormente produttivi e meglio remunerati. Per meglio comprendere tale quadro d’insieme, è importante richiamare che, mentre il contributo dell’agricoltura al prodotto interno lordo (Pil) è costantemente diminuito – passando dal 34% nei primi anni Novanta al 17,9% un ventennio più tardi – il contributo dell’industria è rimasto quasi invariato – dal 24% di inizio anni Novanta al 25,3% del 2010. L’incremento davvero significativo è stato dunque concentrato nel settore dei servizi – il cui contributo al Pil, pari al 42% nei primi anni Novanta, toccava il 56,8% vent’anni più avanti (Ghosh 2013). I servizi, però, sono una categoria estremamente eterogenea, comprendente una gamma di attività ampliatesi nel tempo, caratterizzate da livelli di dinamicità alquanto diversi. I segmenti più avanzati del settore sono costituiti da attività altamente tecnologiche, che impiegano lavoro ad alta intensità di conoscenza (vale a dire servizi finanziari, informatici, servizi per la consulenza tecnico-amministrativa, telecomunicazioni). A questi si affiancano non solo attività meno dinamiche e più tradizionali, quali la ristorazione o l’insieme dei servizi pubblici, ma anche, significativamente, un amplissimo bacino di attività a bassa produttività, assai scarsamente remunerative, del tutto afferenti al settore informale (si pensi, per esempio, ai venditori di strada o ai guidatori di auto-rickshaw). Si tratta dei cosiddetti ‘impieghi rifugio’, in cui nel corso dell’ultimo ventennio si è riversata parte di quella forza lavoro in sovrannumero nelle campagne, non assorbita dall’industria.
Non sarebbe tuttavia possibile comprendere appieno questo scenario, senza fare riferimento alla crisi attraversata dall’agricoltura, settore che continua a tutt’oggi a impiegare il oltre il 50% della popolazione attiva. Nel periodo che va dal 1990-91 al 2002-03, infatti, il tasso di crescita della produzione agricola ha conosciuto un notevole rallentamento, attestandosi intorno a una media annua dell’1,58%, a fronte del 3,19% degli anni Ottanta. Vi è ormai ampio consenso sul fatto che le cause di tale crisi – il cui aspetto più impressionante è consistito in un generalizzato aumento del tasso di suicidi fra i contadini – siano da ricercarsi in quelle politiche di ‘ritiro dello Stato’ tradottesi in un deciso calo delle principali voci di spesa pubblica destinate alla sfera rurale, nonché nell’impatto non secondario che le misure di liberalizzazione finanziaria hanno avuto sulla riduzione del flusso di credito verso le campagne (Jha 2006, Reddy e Mishra 2009). Ciò su cui qui vorremmo maggiormente soffermarci è quel processo di ristrutturazione sociale dispiegatosi nell’India rurale parallelamente alla crisi e tradottosi in un notevole aumento delle fasce sociali svantaggiate. Nel primo quindicennio successivo alla liberalizzazione, infatti, non solo si è assistito a un aumento delle unità familiari senza terra – passate dal 38,7% a metà anni Novanta al 43% nel decennio successivo – ma anche dei contadini piccoli e marginali, i cui appezzamenti non costituiscono una fonte sufficiente di sostentamento – che a inizio anni Novanta rappresentavano il 74% dei coltivatori indiani e dieci anni più tardi costituivano oltre l’80% di questo universo. Ciò non significa che non vi siano stati strati sociali capaci di consolidare la propria posizione durante gli anni di crisi. Il riferimento, qui, è a quella componente del capitalismo agrario concentratasi nella produzione di raccolti da esportazione e dimostratasi inoltre capace di diversificare i propri investimenti – ad esempio nel commercio e nel trasporto dei beni agricoli. A fronte di tale scenario, alcuni studiosi hanno sostenuto che le politiche di stampo neoliberista abbiano favorito il consolidarsi di una società duale nelle campagne indiane, in cui la grande maggioranza della popolazione contadina è crescentemente soggetta a processi di marginalizzazione (Bhalla 2005). In effetti, seppure in anni più recenti sembri essersi verificata una ripresa dalla crisi in termini di produttività – là dove, parallelamente a una ripresa della spesa pubblica nel settore, il tasso di crescita dell’agricoltura ha toccato, nel periodo 2007-12, il 4,1% medio annuo – le unità familiari rurali totalmente prive di terre sono ulteriormente aumentate – attestandosi al 49% nel 2012 –, così come i contadini piccoli e marginali – giunti a rappresentare, nel 2012, l’85% dei coltivatori nel loro insieme (Jha 2013). Si tratta di quelle fasce di popolazione rurale oggi colpite da livelli di sottoccupazione allarmanti, al cuore della questione sociale che attraversa le campagne indiane e che, in assenza possibilità migliori, cercano uno sbocco almeno parziale nel terziario a bassa produttività.
È a questo punto importante guardare più da vicino ad alcune importanti dinamiche che hanno attraversato l’universo dell’industria nel contesto definito dall’attuazione delle pratiche politiche neoliberiste. A ben vedere, nel corso del primo decennio di realizzazione delle misure di liberalizzazione e deregolamentazione del settore – parte di una progettualità politica che prevedeva altresì la privatizzazione delle imprese pubbliche, con particolare enfasi su quelle capaci di generare profitti elevati – il tasso di crescita medio annuo dell’industria si è attestato intorno al 7%, vale a dire non distante dal traguardo medio raggiunto nel corso degli anni Ottanta, e la forza lavoro assorbita dall’industria ha continuato ad attestarsi, come in quel decennio, intorno all’11%. Ciò non significa che l’universo dell’industria non abbia conosciuto significative trasformazioni. Da una parte, il processo di espansione del settore si è dimostrato, molto più che in passato, caratterizzato dal susseguirsi di oscillazioni fra picchi molto elevati e fasi di decelerazione della crescita (Chandrasekhar e Ghosh, 2004). Dall’altra, il capitalismo industriale indiano è andato incontro a un importante processo di differenziazione. Se infatti il grande capitale è stato in grado di consolidarsi – anche in virtù di una più intensa interazione con i grandi gruppi stranieri – l’industria di piccole dimensioni si è dovuta misurare con notevoli difficoltà (Chandrasekhar e Ghosh 2004, Patnaik 2006). A seguito della limitazione delle politiche di controllo del sistema bancario, l’accesso a misure di credito agevolato si è dimostrato infatti sempre più problematico per tale segmento dell’industria, che doveva altresì confrontarsi con l’indisponibilità delle risorse necessarie a immettersi sul mercato azionario in espansione, nonché con il peso, spesso schiacciante, della crescente competizione con il grande capitale nazionale e straniero. Come già accennato, la piccola industria costituiva tradizionalmente un settore ad alta intensità di lavoro; le implicazioni di una progressiva crisi di questo settore sulla generazione di impiego appaiono dunque evidenti.
In ogni caso, come anticipato, dopo aver attraversato una fase di decelerazione della crescita nel periodo a cavallo fra la fine e l’inizio del nuovo millennio, in anni più recenti l’industria, insieme ai servizi, è andata incontro a un vero e proprio periodo di boom. In effetti, nel periodo che va dal 2003 al 2008, la crescita media annua di entrambi i settori ha sfiorato il 10%. Prima di interrogare le ragioni sottese a tale boom, è importante sottolineare che, di fatto, tale crescita ha interessato segmenti strettamente definiti dei due settori, fra cui, nell’universo dell’industria, quello automobilistico e, nel mondo dei servizi, le telecomunicazioni, l’informatica e i servizi per le imprese, trainati dalla domanda espressa dal mercato statunitense. Questi ultimi, a loro volta, hanno contribuito in modo importante a una sostenuta crescita del settore immobiliare commerciale (Nagaraj, 2013). Se si guarda invece al periodo di boom dal punto di vista dell’occupazione, ricordando le difficoltà strutturali dell’India nel generare ‘lavoro dignitoso’ per tanta parte della sua popolazione, appare che, nell’industria, la crescita dell’impiego ha appena compensato il declino esperito nel precedente periodo di decelerazione del settore (Mazumdar, 2013). La percentuale di popolazione impiegata nell’industria sul finire del primo decennio del Duemila si attestava poco sopra all’11% (Mehrotra et al. 2012). In questo scenario, il settore delle costruzioni ha dimostrato una maggiore capacità di generazione di impiego – la percentuale di popolazione impiegata in tale settore è infatti passata dal 4,5% di inizio anni Duemila a oltre il 9% di fine decennio; tuttavia è stato fatto notare come le costruzioni costituiscano in India una tipologia di lavoro caratterizzata, ben più di altre, da alta volatilità, alto livello di incertezza nelle condizioni di impiego e bassi livelli salariali (Chandrasekhar e Ghosh, 2011). A ben vedere, dunque, i problemi strutturali intorno ai quali si compone la ‘questione del lavoro’ in India non sono stati significativamente scalfiti. Certamente, il boom dei servizi ad alta intensità di conoscenza, già caratterizzati da notevole dinamismo, ha fatto sì che tale segmento del terziario generasse nuove opportunità di impiego. Tuttavia, tali opportunità sono vincolate al possesso di un bagaglio di conoscenze tali da renderle di norma accessibili alle fasce medio-alte della popolazione urbana. Nel suo insieme, dunque, il settore dei servizi, che sul finire del primo decennio del 2010 impiegava complessivamente oltre il 25% della popolazione attiva, ha continuato a dimostrare un profondo dualismo, là dove, a fianco di settori altamente dinamici e settori più tradizionali, si è protratta l’espansione di quel segmento dei servizi a bassa produttività, che continua a comporre la metà del settore nel suo insieme. E’ proprio all’interno di questa componente dei servizi che trova impiego almeno a tempo parziale, a bassissimo costo e in pesanti condizioni di precarietà, parte di quella forza lavoro che il settore agricolo e industriale non riescono ad assorbire.
È altresì importante guardare un po’ più da vicino alla natura del boom economico indiano di metà anni Duemila, a partire dal contesto internazionale in cui esso è maturato. È stato fatto notare come tale boom abbia coinciso con una fase di notevole crescita del commercio mondiale (2003-2008) – dopo il periodo di rallentamento che era seguito alla crisi finanziaria asiatica di fine anni Novanta – nonché con una fase dell’economia globale caratterizzata da un aumento dell’afflusso di capitale verso le economie emergenti (2002-2007). Tale aumento era a sua volta significativamente correlato all’abbassamento dei tassi di interesse negli Stati Uniti, seguito all’esplosione della bolla speculativa della new economy (dot.com), nonché alla volontà degli investitori globali di assumere rischi di investimento nelle emergenti economie di mercato (Nagaraj 2013). Questo lo scenario globale all’interno del quale si è assistito in India a un notevole incremento del tasso di investimento negli specifici segmenti dell’industria e dei servizi sopra indicati. Tale incremento è stato nutrito dall’espansione del credito erogato da banche domestiche, a sua volta sostenuto da un ingente afflusso di capitale privato estero. Ad oggi, è possibile affermare che, lungi dal rappresentare l’avvio di una trasformazione strutturale dell’economia indiana – o, in altre parole, un successo a lungo atteso delle riforme neoliberiste – il boom sia stato un fenomeno ciclico, trainato dal debito, avvenuto nel contesto di una fase favorevole dell’economia globale, venuta meno con il crollo finanziario del 2008 e la crisi economica mondiale che ne è seguita (Nagaraj 2013).
Come già accennato, dopo un periodo di crescita sostenuta da politiche di espansione della spesa pubblica, la performance economica dell’India ha cominciato a rallentare, in uno scenario in cui la crescita dell’industria è precipitata all’1% nel 2012-13, per rallentare ulteriormente allo 0,4% nel 2013-14 (Government of India 2014), con evidenti implicazioni sull’occupazione.
La ‘questione del lavoro’ si conferma dunque urgente in India. È allora importante guardarla più da vicino.
Quale ‘lavoro dignitoso’?
Appare ormai chiaro che, se con l’avvio e il consolidamento delle riforme di stampo neoliberista l’India ha raggiunto importanti traguardi in alcuni settori dell’economia, e parte della sua popolazione ha potuto trarne vantaggi notevoli sia in termini materiali, sia di possibilità di realizzazione delle proprie speranze e aspirazioni, ciò non può tuttavia dirsi per le classi lavoratrici del paese. Proprio alle condizioni di lavoro e di vita dei 470 milioni di uomini e donne che compongono la forza lavoro indiana – impiegata, come abbiamo visto, per il 93% in condizioni di informalità e a cui si aggiungono circa 30 milioni di bambini che lavorano – vorremmo guardare adesso un po’ più da vicino.
Uno studio pubblicato nel 2008, dal titolo ‘India’s Common People: Who are they, how many are they and how do they live?’ (I cittadini comuni in India: chi sono, quanti sono e come vivono?), faceva emergere che, secondo dati di metà anni Duemila, i tre quarti della popolazione indiana viveva in condizioni di povertà relativa, e dunque vulnerabilità, definite da un livello di consumo medio giornaliero inferiore ai due dollari – in termini di parità di potere d’acquisto (Sengupta, Kannan, Raveendran, 2008). Due anni più tardi, un importante periodico indiano, Economic and Political Weekly, pubblicava un editoriale dal titolo: ‘Jobless Growth: The years of rapid economic growth have been years of jobless growth; does the government care?’ (Crescita senza lavoro: gli anni di rapida crescita economica sono stati anni di crescita senza lavoro; al governo importa?). Il senso di richiamare di seguito queste due pubblicazioni risiede nel fatto che la questione della vulnerabilità sociale in India è intimamente legata alla questione del lavoro – ovvero della sua frammentazione e precarizzazione, che assume molti volti.
La presenza di elevati livelli di sottoccupazione nelle campagne ha profondamente contribuito al consolidarsi di geografie del lavoro complesse. In uno scenario caratterizzato dall’intensificarsi dei fenomeni migratori interni, che interessano in particolar modo i lavoratori senza terra e i coltivatori marginali, il fenomeno della migrazione stagionale, spesso intrapresa attraverso intermediari, continua a essere estremamente diffuso. Le occupazioni stagionali possono essere agricole o non agricole; afferire alla sfera del lavoro dipendente (per esempio nelle fabbriche di mattoni o presso siti di costruzioni) o a quella dell’auto-impiego; portare il lavoratore in villaggi diversi da quello di origine o nelle città – dove spesso questi abiterà, in condizioni di grande precarietà, in uno slum o poco lontano dal sito delle costruzioni in cui ha trovato lavoro (Harriss-White 2001). Quest’ultima circostanza contribuisce, fra le altre cose, al delinearsi di uno scenario in cui i confini fra campagna e città divengono sempre più permeabili, mentre al contempo all’interno delle città la divisione spaziale fra ceti meno e più abbienti sempre più evidente (Fernandes, 2004, Gooptu 2011). È infine importante notare, qui, che il lavoro migrante stagionale assunto attraverso un agente intermediario è di norma esposto a condizioni di lavoro spossanti e a mancanza di regolarità nei pagamenti di salari già esigui (Lerche 2010). Nel caso in cui il lavoratore migrante abbia dovuto contrarre un debito con l’intermediario, ciò si tradurrà in condizioni lavorative – e di vita – ancor più ardue, che possono essere caratterizzate da elevati livelli di coercizione sino all’estinzione del debito: si calcola che questo fenomeno interessi a tutt’oggi dai dieci ai venti milioni di persone (Lerche 2010, Breman, 2008).
Nei settori non agricoli dell’economia si è poi assistito alla proliferazione di piccole unità di produzione informali; del subcontratto da parte di aziende afferenti al settore formale verso aziende informalizzate; del ricorso, all’interno di unità di produzione che fanno parte del settore formale (private e pubbliche), al lavoro a contratto informalizzato – con l’assunzione di lavoratori attraverso un appaltatore, o una catena di apparatori, al fine di ridurre i costi del lavoro per quanto attiene sia alla remunerazione, sia alla sfera della sicurezza sociale; nonché del lavoro a domicilio di fatto retribuito a cottimo (pur potendo ufficialmente i lavoratori così impiegati afferire alla categoria dell’auto-impiego), in un crescendo di insicurezza e vulnerabilità (Lerche 2012, Sundar 2012, Papola 2012).
Come fa notare in modo importante lo studioso Jan Breman, ‘lungi dall’essere una caratteristica di un’economia arretrata, l’informalità deve essere intesa come un’espressione dell’incapacità o della mancanza di volontà dello Stato di regolare il capitale e controllare coloro che lo possiedono’, in uno scenario in cui, continua l’autore, ‘lo schiacciare il lavoro è divenuto la forza trainante dell’elevato tasso di crescita dell’India’ (Breman 2013, p. 22-23).
Abbiamo anticipato come a partire da metà anni Duemila si sia assistito all’introduzione, da parte di un governo guidato dal Congresso le cui pratiche continuavano a essere fondamentalmente improntate alla logica neoliberista – e dunque a riprodurre le contraddizioni sociali di cui abbiamo dato conto – di alcune politiche sociali volte ad alleviare almeno parzialmente la povertà nel paese; si trattava, può essere qui di interesse richiamarlo, di provvedimenti di portata assai più limitata rispetto ad altri contesti nazionali, quali il Brasile (Lerche 2012). Fra questi, come già accennato, il più importante è stato il National Rural Employment Guarantee Act (NREGA), approvato in un momento in cui il governo veniva appoggiato dall’esterno da forze di sinistra. Tale provvedimento garantisce cento giorni di impiego manuale all’anno per unità familiare rurale nell’ambito di programmi di creazione o mantenimento di opere pubbliche, retribuiti secondo il salario minimo prescritto dalla legge – in molti casi più elevato del salario di fatto corrisposto ai lavoratori rurali. Lungi dall’essere meramente tecnico-burocratica, la questione dell’effettiva realizzazione del NREGA si è rivelata nel corso del tempo squisitamente politica e ha costituito un importante terreno di mobilitazione di movimenti e attivisti a livello locale, non privo di gravi tensioni (Lerche 2010). In effetti, negli stati indiani in cui il programma ha avuto una corretta attuazione, esso si è rivelato importante non solo per il suo contributo nel migliorare le condizioni materiali di vita di coloro che ne hanno usufruito; il NREGA ha altresì dimostrato un potenziale di sfida verso diversi interessi locali costituiti, fra cui quelli di agenti intermediari che appaltano il lavoro, datori di lavoro abituati a corrispondere salari molto bassi o pubblici ufficiali corrotti (Lerche 2012, De Neve e Carswel, 2014).
Ciò sembra suggerire l’importanza del ruolo delle politiche attive del lavoro – e, in senso più ampio, delle politiche pubbliche – nella lotta alla povertà ben oltre i limiti definiti dalla progettualità delle riforme economiche ‘dal volto umano’. E questo, a ben vedere, ci porta a sollevare la necessità di ridiscutere radicalmente un paradigma – quello neoliberista – che, come sottolinea lo studioso Jan Breman (2013), riconosce nell’informalizzazione del lavoro la soluzione, piuttosto che il problema.
Alcune riflessioni all’indomani delle elezioni del maggio 2014
Tali questioni, già urgenti nel recente passato, rivestono a tutt’oggi persino maggiore impellenza. Le più recenti elezioni generali, tenutesi nel maggio 2014, hanno visto la vittoria del partito della destra nazionalista indù, il Bharatiya Janata Party (BJP), il cui leader e attuale primo ministro, Narendra Modi, annoverava, fra le sue promesse elettorali, una rinnovata era di ‘massima governance e minimo governo’ – ovvero una nuova, marcata accelerazione del passo delle riforme improntate all’ideologia del libero mercato. Tale promessa era accompagnata da una grande enfasi, ripresa da tanta parte della stampa indiana, sul ‘modello di sviluppo del Gujarat’, stato in cui Modi ha ricoperto a lungo la carica di Chief Minister. Non è questa la sede per proporre un’analisi dell’esito delle ultime elezioni generali. Tuttavia, pare importante richiamare alcuni elementi di riflessione. Nel far ciò, non è superfluo ricordare che il partito della destra nazionalista indù si è assicurato la maggioranza assoluta dei seggi alla camera bassa del parlamento (282 seggi su 543) avendo ottenuto una percentuale di voti pari al 31 per cento – in India vige infatti un sistema elettorale uninominale secco – vale a dire una quota di consensi di almeno dieci punti inferiore rispetto a quella usualmente conseguita dal partito vincente. Vi è certamente una notevole sproporzione fra il numero di seggi e il numero di voti ottenuti dal BPJ, ala parlamentare, lo rammentiamo, di un insieme di organizzazioni che si riconoscono nell’ideologia dell’Hindutva (induità) – secondo cui la comunità maggioritaria incarna la nazione – al cui cuore vi è la Rashtriya Swayam Sevak Sangh (RSS), una formazione gerarchica di destra reazionaria, ultra-nazionalista, dotata di una infrastruttura di quadri ideologicamente motivati e assai disciplinati (Chandokhe 2014, Vanaik 2014). Tuttavia, non bisogna sottostimare il consenso raccoltosi intorno al BJP, divenuto per la prima volta in assoluto il punto di riferimento centrale della politica indiana, in sostituzione del Congresso – il cui numero di seggi, in passato mai sceso sotto i 100, si è ridotto a 44 (Vanaik 2014). Ciò è tanto più importante, in un momento in cui in India sembra profilarsi uno scenario che richiama la riflessione di più ampio respiro circa ‘il temperamento anti-democratico che al presente pervade la società politica’ proposta dagli studiosi Albo e Fanelli nell’interrogarsi su una possibile fase autoritaria del neoliberismo (Albo e Fanelli, 2014). Qui sarà possibile accennare soltanto ad alcuni elementi di ragionamento intorno al consenso verso il BJP, che appaiono tuttavia importanti. È stato da più parti sottolineato come, da una parte, le promesse di Narendra Modi in materia di politica economica – esemplificate dalla sua azione di governo in Gujarat – siano risultate accattivanti all’interno di quelle componenti sociali che sin dall’inizio hanno sostenuto la progettualità neoliberista. Il riferimento, qui, è dunque alle classi capitalistiche – senza dimenticare che il BJP in effetti è stato il destinatario della gran parte dei finanziamenti elargiti dalle grandi imprese nel corso di una campagna elettorale che ha visto la mobilitazione di ingentissime quantità di denaro; nonché a una classe media in espansione. Tuttavia, il BJP ha ottenuto parte dei suoi consensi anche fra le classi più vulnerabili della società indiana (ad esclusione dell’elettorato musulmano). Ci pare a questo proposito importante l’invito, proveniente da studiosi quali Vanaik (2014), a riflettere su tale realtà in relazione, dato non da ultimo, all’assenza di una progettualità progressista genuinamente alternativa al neoliberismo, e di una capacità di mobilitazione della sinistra indiana intorno ad essa. In ogni caso, se si guarda un po’ più da vicino al modello di sviluppo che sarebbe esemplificato dallo stato del Gujarat, e a cui oggi l’India dovrebbe ispirarsi, appare chiaro che, al di là della retorica sull’efficienza, esso ha di fatto assai poco da promettere alle fasce di popolazione più sofferenti. A questo proposito, è stato infatti da una parte sottolineato come il Gujarat abbia attuato una politica di attrazione degli investimenti privati fondata su incentivi spesso rivelatisi non poco onerosi per l’erario – e sulla cui produttività è lecito interrogarsi, laddove non di rado i proprietari di terreni da destinarsi alla creazione di zone economiche speciali, acquistati dallo stato a prezzi molto bassi, hanno indulto in attività speculative (Ghosh 2014, Jaffrelot, 2013). Dall’altra, è stato evidenziato come in questo stato indiano gli elevati tassi di crescita complessivi coesistano con indicatori sociali preoccupanti – in primis per quanto riguarda i dati sulla malnutrizione infantile – nonché livelli salariali per i lavoratori informali inferiori alla media panindiana (Ghosh 2014a, Jaffrelot, 2013). In linea con tale modello, il nuovo governo indiano, parallelamente a un rinnovato impulso di privatizzazione di beni e servizi, ha annunciato ulteriori misure di ridimensionamento della spesa sociale, fra cui quella prevista per il NREGA (Bagchi 2014, Ghosh 2014b, Patnaik 2014). A fronte di tale scenario, una rinnovata riflessione su una progettualità politica che sappia coniugare sviluppo e giustizia sociale, intesa in senso ampio – il che implica un impegno effettivo anche in relazione alla questione di genere e alla questione ambientale – ci sembra ineludibile. Riconoscere che si tratta di un cammino difficile non significa crederlo inaccessibile.
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