La specie del federalismo fiscale
Federico Revelli
Se, come si è scritto, “il federalismo è un genere con molte specie”,1 il federalismo fiscale è, tra le specie, la più ambigua e controversa.
A ben guardare, tuttavia, e diversamente dal significato che viene ad esso frequentemente attribuito nel dibattito politico e giornalistico – intrappolato in una malintesa traduzione letterale dall’inglese – il concetto di “federalismo fiscale” che emerge nella teoria economica del Novecento fa riferimento non ad una specifica struttura territoriale del settore pubblico da preferirsi rispetto ad altre, né ad un particolare processo di decentramento o devoluzione di responsabilità e poteri in campo finanziario, né, tanto meno, al bizzarro principio del “confederativismo tribale”,2 secondo il quale entità territoriali antropomorfe dovrebbero potersi appropriare della ricchezza da esse creata.
Piuttosto, il federalismo fiscale configura un impianto concettuale entro cui sono ordinati i principi ai quali si dovrebbe ispirare l’ordinamento della finanza pubblica in un sistema istituzionale in cui coesistano più livelli di governo, statale, regionale e locale in senso stretto. Ciò implica, in primo luogo, che l’impianto teorico che va sotto il nome di federalismo fiscale si applichi tanto alla ripartizione delle funzioni pubbliche e delle entrate fiscali in sistemi “federali” in senso stretto (in cui i tre tipici livelli di governo vanno riqualificati come federale, statale e locale), quanto al disegno del sistema tributario negli Stati unitari.
In termini più precisi, al federalismo fiscale interpretato quale guida normativa all’organizzazione del settore pubblico in un sistema di governo a più livelli può essere attribuito uno dei tre seguenti ruoli.
a) Il primo, corrispondente all’accezione più ampia e ambiziosa del termine presente in letteratura, consiste nell’attribuire all’impianto concettuale del federalismo fiscale il ruolo di guida per quel che riguarda il disegno della struttura territoriale stessa del settore pubblico. Nel senso del numero dei livelli di governo (per rispondere, per esempio, alla domanda se sia necessario o meno un livello di governo provinciale nel nostro ordinamento) e dell’ampiezza e dei confini delle giurisdizioni a ciascun livello (dal dibattito sulla frammentazione comunale alla forma di governo delle aree metropolitane).
b) Il secondo concerne la ripartizione delle competenze in materia di fornitura di servizi pubblici (dalla sanità alla gestione dei trasporti pubblici o dei rifiuti) a ciascuno dei livelli di governo presenti nell’ordinamento, assumendo come data la struttura territoriale del governo.
c) Il terzo fa riferimento all’architettura tributaria – il mix di entrate proprie e entrate “derivate” – capace di consentire il finanziamento delle spese pubbliche a ciascuno dei livelli previsti di governo, data la struttura territoriale del governo e la relativa attribuzione delle competenze.
Ora, la sterminata letteratura economica in materia di federalismo fiscale ha, nel corso dei decenni e almeno a partire dalle formalizzazioni della metà del secolo scorso, da Charles Tiebout a James Buchanan e Wallace Oates, riconosciuto come un’organica risposta ai problemi posti dall’organizzazione del settore pubblico in un sistema a più livelli richieda idealmente di affrontare simultaneamente tutti gli aspetti sintetizzati sopra nei punti a), b) e c).
Tuttavia, gran parte della letteratura seguente si è poi concentrata sugli aspetti più prettamente finanziari di cui al punto c), in una sorta di risposta pragmatica alle storiche difficoltà che si incontrano in tutti i Paesi, compreso il nostro, a modificare la struttura territoriale di governo: si pensi alla genesi delle Regioni (per non parlare di quello che si prospetta un ancor più sofferto travaglio per quanto riguarda le Città Metropolitane, travaglio ormai ventennale) o all’eliminazione di enti considerati, più o meno a ragione, inutili.
Forse per questo si è giunti, negli anni più recenti, a identificare il federalismo fiscale con la più riduttiva accezione che fa riferimento al puro aspetto della tecnica del finanziamento delle spese degli enti territoriali. Anche qui, però, la confusione sul termine non è mancata. Ciò che la dottrina del federalismo fiscale stabilisce in proposito, infatti, non è affatto una particolare struttura fiscale – più o meno decentrata, o imperniata sull’una o sull’altra imposta – quanto piuttosto una serie di criteri normativi che dovrebbero guidare il legislatore fiscale nel determinare, date le funzioni attribuite agli enti territoriali, quale sia il modo preferibile per finanziarle.
I temi fondamentali che sono stati affrontati nella ricerca teorica degli ultimi decenni e che sono stati oggetto di un crescente numero di indagini empiriche negli anni più recenti sono tre: 1) la definizione dell’entità dello squilibrio fiscale cosiddetto “verticale” da colmare attraverso flussi finanziari tra diversi livelli di governo, ovvero il ruolo della finanza derivata; 2) la scelta tra il meccanismo della comunione e quello della separazione delle fonti di entrata e le sue conseguenze in termini di responsabilità degli amministratori locali e di “concorrenza” tra enti; 3) l’entità dello squilibrio fiscale cosiddetto “orizzontale” e l’intensità e i criteri della perequazione territoriale.
Per quanto riguarda il primo punto, quello cioè relativo allo squilibrio fiscale verticale, è caratteristica comune a tutti gli Stati unitari che il sistema tributario nazionale ponga i governi territoriali – regionali e locali – in posizione subordinata rispetto allo Stato centrale e con fonti di entrata propria complessivamente insufficienti a coprire il totale delle proprie spese: tale mancata corrispondenza tra entrate proprie e spese di competenza degli enti territoriali misura lo squilibrio verticale del sistema della finanza pubblica. Ora, se è evidente come lo squilibrio fiscale verticale sia fisiologico e costituisca pressoché ovunque il presupposto di un sistema di trasferimenti dal governo centrale agli enti territoriali per consentire a questi ultimi di adempiere alle proprie funzioni, assai meno banale è la questione relativa a quale sia la misura ideale – o quantomeno accettabile – di tale squilibrio.
In assenza di consistenti fonti di entrata propria degli enti territoriali le entrate tributarie affluiscono al governo centrale che le ridistribuisce agli enti locali: ovvero, in buona approssimazione, il sistema della finanza locale che ha caratterizzato l’Italia dalla riforma tributaria degli anni ’70 fino alla prima metà degli anni ’90, nonché quello che si prospetterebbe in futuro se, nella riaffermazione del principio del quia nominor leo, oltre al sostanziale depauperamento delle entrate comunali avvenuto attraverso la parziale abolizione dell’Imposta Comunale sugli Immobili (ICI) si concretizzasse anche la prospettata abolizione dell’Imposta Regionale sulle Attività Produttive (IRAP). Il sistema presenta in tal caso un elevato squilibrio fiscale verticale e si configura sostanzialmente come un modello di finanza derivata. Tanto la ricerca teorica quanto quella empirica (oltre che, verrebbe da dire, il buon senso) suggeriscono che tale modello tenda a generare comportamenti inefficienti – o addirittura irresponsabili – dovuti al fatto che le spese degli enti locali sono finanziate non già dai contribuenti che dei servizi delle amministrazioni decentrate pubbliche beneficiano e sulla cui gestione hanno tutto l’interesse a vigilare, quanto da trasferimenti statali (su cui peraltro i cittadini hanno assai minori informazioni rispetto ai burocrati che li ricevono) che inibiscono il virtuoso processo di accountability degli amministratori locali nei confronti delle proprie comunità.
Accettando pertanto il principio – sulle cui importanti conseguenze in termini di equità e distribuzione territoriale si tornerà fra poco – per cui sia desiderabile che gli enti decentrati dispongano di proprie fonti di entrata che garantiscano loro, accanto all’autonomia decisionale e gestionale, anche una minore dipendenza dai trasferimenti statali, si è posto storicamente il dilemma se ispirarsi alle modalità della comunione o della separazione delle fonti di entrata.
Secondo la prima modalità, cui si ispirò il primo tentativo organico di costruzione dell’impianto fiscale post-unitario, lo Stato centrale mantiene la prerogativa di tassare le principali basi imponibili, concedendo agli enti territoriali o di istituire aliquote addizionali/sovraimposte su quelle medesime basi imponibili, o di introitare una frazione del gettito (la cosiddetta compartecipazione) che lo Stato stesso ha riscosso e che può essere ricondotto alla base imponibile generata all’interno della giurisdizione dell’ente locale.
Se è vero che molti tra i Paesi industrializzati adottano, almeno in parte, il meccanismo della comunione delle fonti di entrata, è ben noto come esso sia qualitativamente inferiore rispetto a una reale autonomia finanziaria basata sulla separazione delle fonti di entrata stesse. In particolare, il meccanismo dell’addizionale locale a un’imposta nazionale soffre di due limiti principali: il primo è costituito dal rischio che, tassando lo stesso cespite, diversi livelli di governo entrino per così dire in concorrenza tra loro, rendendo necessario un laborioso processo di coordinamento verticale. Il secondo limite è costituito dalla scarsa visibilità per il contribuente dello sforzo fiscale che gli viene richiesto da diversi livelli di governo che applicano aliquote sulla medesima base imponibile (per esempio, nell’attuale ordinamento tributario italiano, il reddito personale la cui base imponibile è condivisa dallo Stato, dalle Regioni e dai Comuni), rendendo difficile per il contribuente stesso accertare ruoli e responsabilità di diversi enti nella determinazione dell’onere tributario complessivo.
Le cose peggiorano, tuttavia, nel caso della compartecipazione degli enti territoriali al gettito riscosso dallo Stato, modalità che alimenta gli incentivi ai comportamenti irresponsabili e in cui si annidano i più seri pericoli di iniqua distribuzione territoriale delle risorse. Per quanto riguarda gli incentivi ai comportamenti (in)efficienti, il meccanismo delle compartecipazioni è del tutto assimilabile a quello della finanza derivata, con amministratori locali che spendono denaro raccolto da altri (lo Stato), senza alcun margine di effettiva autonomia finanziaria. Quanto agli effetti distributivi, un’estensione generalizzata – come sembra prospettarsi per le Regioni dai recenti interventi normativi in materia di federalismo fiscale3 – di quote crescenti di compartecipazione ai gettiti dei tributi erariali equivale a un vero e proprio meccanismo di trasferimenti “sperequativi”, ovvero l’attribuzione di maggiori risorse (raccolte con imposte statali) proprio agli enti dove la ricchezza è più elevata, con l’evidente necessità di correggere tale perversa distribuzione con un meccanismo opposto di perequazione a favore dei territori con minore ricchezza.
Sembra quindi evidente che il sistema della separazione dei cespiti – dove ogni livello di governo può contare, assumendosene la responsabilità politica di fronte al proprio elettorato, su proprie fonti di entrata che colpiscono basi imponibili distinte da quelle degli altri livelli – sia preferibile a quello della comunione degli stessi. Tale era, peraltro, la strada intrapresa con le riforme fiscali del decennio scorso che hanno portato ad attribuire proprie fonti di entrata fiscale ai Comuni (l’ICI), alle Province (l’Imposta Provinciale di Trascrizione dei veicoli, IPT) e alle Regioni (l’IRAP), seppure con una certa timidezza che risulta evidente dai forti limiti imposti dallo Stato ai margini di manovrabilità locale di tali imposte. Il sistema della separazione dei cespiti, se congegnato in modo organico e trasparente e se correttamente imperniato sul tributo che meglio si presta al finanziamento delle spese locali – per esempio l’imposta sulla proprietà immobiliare, compresa l’abitazione di residenza, che costituisce il cardine della finanza locale nella quasi totalità dei paesi occidentali – consente infatti ai contribuenti-elettori di osservare la politica fiscale adottata dalla propria amministrazione locale, di confrontarla con quella di altre amministrazioni (il cosiddetto fenomeno della yardstick competition)4, di valutare il contributo che viene richiesto a ciascun residente per il finanziamento delle spese pubbliche locali e di esprimere e far valere le proprie preferenze in materia di servizi pubblici locali e qualità della vita nella propria comunità.
È chiaro, tuttavia, come in tutti i paesi contraddistinti da forti divari territoriali di reddito e di ricchezza, il ruolo dei trasferimenti dallo Stato agli enti territoriali per colmare lo squilibrio fiscale “orizzontale” – ovvero la differenza tra la capacità di ottenere entrate proprie e i fabbisogni di spesa in ciascun ente – non possa che costituire una componente essenziale del sistema della finanza locale. Non a caso, l’indagine sulle caratteristiche desiderabili e sugli effetti dei sistemi di trasferimenti perequativi costituisce uno tra i punti più importanti sull’agenda della ricerca economica applicata nell’area del federalismo fiscale.
Inoltre, un elemento cruciale per il buon funzionamento di un sistema di finanza pubblica organizzato su più livelli consiste nella possibilità di valutare con precisione e obiettività i fabbisogni locali di spesa (derivanti dal livello di sviluppo economico, dalla composizione demografica della popolazione e dalla presenza – o assenza – di infrastrutture) e la performance delle amministrazioni nello svolgimento delle proprie attività. Alcune esperienze internazionali in questo senso dimostrano che ciò è possibile e con buoni risultati5. Al fine di poter esprimere un giudizio compiuto sull’impatto di strutture alternative di governo territoriale e di meccanismi più o meno decentrati di finanziamento dei servizi pubblici sul benessere dei cittadini, sono infatti indispensabili tanto regole trasparenti, efficaci e condivise sulla perequazione delle risorse iniziali a disposizione degli enti territoriali per mettere ciascuno di essi nelle condizioni di fornire i servizi pubblici indispensabili ai propri cittadini, quanto un sistema di puntuale e oggettiva valutazione della performance delle amministrazioni ai diversi livelli di governo, dalla bontà e affidabilità dei servizi sanitari e di istruzione, alla qualità dell’aria delle città in cui viviamo. In assenza di tali ingredienti fondamentali, il federalismo fiscale continuerà a essere una specie ambigua e controversa.
Note
1. D. Fausto, “Il federalismo fiscale nel paese del dualismo”, in: A. Fossati (a cura di) La nascita del federalismo italiano, Franco Angeli, Milano, 2003.
2. Il fenomeno è stato studiato nel caso italiano da: M. Bordignon, F. Cerniglia, F. Revelli, “In search of yardstick competition: a spatial analysis of Italian municipality property tax setting”, Journal of Urban Economics, vol. 54 (2003), pp. 199-217.
5. Per il caso della Gran Bretagna, si veda: F. Revelli, “Spend more, get more? An inquiry into English local government performance”, Oxford Economic Papers, vol. 62 (2010), pp. 185-207.