di Tommaso Bobbio
Le elezioni del maggio scorso hanno consegnato all’India un Primo Ministro nuovo, dall’aria dura e determinata, dalle intenzioni chiare di riformare il paese rilanciandone l’economia e modernizzandone le strutture e la società. Narendra Modi, da anni una delle personalità più forti e carismatiche del partito della destra estremista indù Bharatiya Janata Party (BJP), ha condotto una campagna elettorale incentrata intorno alla sua figura di leader incorruttibile, efficiente e carismatico, sulla sua esperienza decennale alla guida dello stato del Gujarat condotto con – apparente – successo alla ribalta dell’economia nazionale e proiettato velocemente su uno scenario di sviluppo globalizzato e tecnologicamente avanzato. Dato per avvantaggiato già nella maggior parte dei sondaggi pre-elettorali, Modi si è trovato a condurre una campagna elettorale avendo come principale oppositore Rahul Gandhi, il giovane e già stanco candidato del Partito del Congresso, il cui compito difficilissimo era quello di difendere l’operato del suo partito, al governo dal 2004 ma travolto da scandali di corruzione e da un diffuso malcontento nei confronti della situazione di rallentamento dell’economia, del generale aumento delle diseguaglianze e del malfunzionamento dei programmi di welfare destinati alle fasce più svantaggiate della popolazione. Nonostante queste premesse, la vittoria schiacciante del BJP e di Narendra Modi è stata sorprendente: conquistando 283 seggi in parlamento, su un totale di 543, il partito di Modi ha ottenuto la maggioranza assoluta, rafforzata da una coalizione che conta 336 parlamentari, e quindi gli permette una grande libertà di scelta e di movimento nella gestione delle politiche del nuovo governo.
Tale consacrazione del BJP ha acuito ulteriormente la sconfitta del Partito del Congresso, crollato da 262 a 44 parlamentari e abbandonato dagli elettori di tutte le classi sociali. Senza una guida interna forte e impantanato in una coalizione troppo frastagliata per permettere una linea politica coerente, il governo a guida Congresso negli ultimi due anni aveva fallito su quasi tutti i fronti, non riuscendo in particolare ad articolare una risposta effettiva alla crisi di produttività e di investimenti, conseguenza in parte della crisi globale, in parte dell’incapacità di affrontare riforme del sistema da parte del governo (The Economist, 17 January 2013; Jha 2012). In questo scenario il Congresso si era affidato, non senza resistenze interne, al rampollo della famiglia Nehru, Rahul Gandhi, figlio di quella Sonia Gandhi che alla fine degli anni ’90 era riuscita a risollevare le sorti del partito portandolo alle vittorie elettorali del 2004 e del 2009. Tuttavia, a parte il nome e il lignaggio, Rahul non ha dimostrato grandi capacità di mobilitare l’elettorato e, nonostante il volto nuovo e l’età giovane, non ha convinto di riuscire a portare rinnovamento dentro a un partito dalla leadership ormai debole e non più in grado di presentarsi come difensore degli interessi dell’intera nazione nel confronto con partiti chiaramente connotati intorno a interessi di casta, di gruppi regionali, o religiosi.
Effetto opposto ha invece avuto il candidato del BJP che, presentandosi con la forza di tre elezioni consecutive vinte in Gujarat, ha incarnato la figura di uomo della provvidenza. In dieci anni alla guida del suo stato, Narendra Modi ha costruito la sua scalata ai vertici nazionali con una propaganda basata su tre pilastri principali: efficienza, modernità, rispetto delle tradizioni. In questo senso, i risultati in termini di crescita economica registrati sotto la sua amministrazione sono sempre stati presentati come il quasi naturale sbocco di politiche che esaltavano gli assetti più imprenditoriali della tradizione culturale gujarati creando un clima favorevole agli investimenti, allo sviluppo industriale e al commercio. E così Modi, leader indiscusso del BJP nel suo stato, rappresentava la punta di questa piramide, l’ispiratore di un modello di cultura politica in cui tradizione e modernità sono incarnate nella figura stessa del leader politico, che costantemente veste e usa i simboli della tradizione nella sua retorica, ma allo stesso tempo è perfettamente a suo agio nell’organizzare e condurre eventi internazionali, facendosi guida del suo stato, o dei “cinquanta milioni di fratelli e sorelle gujarati” come amava definirli lui, verso un futuro di prosperità nel mondo globale (Bobbio 2012; Guichard 2013; Suhrud 2008). In anni in cui la generazione di dirigenti che avevano portato il BJP al governo dal 1998 al 2004 – con Atal Bihari Vajpayee e Lal Krishna Advani in testa (il secondo, a 87 anni, è ancora in parlamento) – e in cui i temi della propaganda anti-musulmana che avevano funzionato da forte spinta di mobilitazione negli anni ’90 stavano entrambi perdendo presa sull’elettorato, Narendra Modi ha gradualmente occupato la scena grazie alla sua capacità di parlare un linguaggio più direttamente rivolto alle aspirazioni e alle paure di fasce sempre più ampie della popolazione toccate, nel bene e nel male, dagli effetti di lungo periodo dell’apertura dell’economia indiana ai mercati globali seguita alle riforme del 1991. Le sue radici di militanza e di provenienza ideologica nel Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), l’organizzazione paramilitare ‘madre’ di tutte le associazioni estremiste di stampo induista, da sempre ne hanno fatto una figura legittimata per le frange più estreme della destra indù, mentre il suo lessico votato alla crescita economica, allo sviluppo e alla retorica della globalizzazione come bene universale ne hanno ampliato enormemente la base di consenso. Un estremista sotto molti punti di vista. Il coinvolgimento del suo governo nei pogrom anti-Musulmani del 2002 in Gujarat ne ha fortemente minato la credibilità sia per la comunità internazionale (gli Stati Uniti gli hanno negato il visto d’ingresso fino a quest’anno), sia per ampi settori della società e della politica indiana, ma la sua capacità di spingere l’economia locale verso tassi di crescita vicini a quelli della Cina ne hanno, allo stesso tempo, rafforzato l’immagine di leader vincente e di modello di buon governo. Destreggiandosi al meglio tra i due fuochi di retoriche contrapposte che lo dipingevano da un lato come un dittatore in pectore, “tipico caso di personalità fascista” (Nandy, 2002), dall’altro come l’esempio di politica efficiente e di successo, l’esempio perfetto di politico-manager, Modi ha costruito la sua ascesa nel partito e presso l’opinione pubblica sull’ambiguità degli estremi, sfruttando la controversia continua che il suo nome e le sue esternazioni suscitavano per garantirsi una grande e costante risonanza mediatica.
Ma, oltre il fumo delle polemiche costanti, la vittoria di Modi nelle ultime elezioni, così come le sue vittorie nelle elezioni locali del Gujarat nel 2002, 2007 e 2012, raccontano anche di un progressivo consolidarsi di una cultura aggressiva e intollerante verso le fasce più deboli della popolazione, viste come un freno alle aspirazioni globali e di sviluppo della nuova ‘Shining India’ (Appadurai 2000; Ahmad 2004). La lettura del suo successo personale può quindi diventare una chiave per capire alcune importanti implicazioni sociali e culturali che accompagnano la traiettoria di sviluppo in India oggi.
Narendra Modi, l’intolleranza, le classi medie
La storia di Narendra Modi comincia apparentemente nel 2002 con i pogrom anti-musulmani che da febbraio a maggio paralizzarono l’intero stato del Gujarat, causando circa 2.000 vittime e producendo una popolazione di profughi interni di circa 150.000 persone (Varadarajan 2002).
Modi aveva ufficialmente assunto l’incarico di Chief Minister (primo ministro del governo di uno stato federale) nell’ottobre dell’anno precedente, sostituendo il suo collega di partito Keshubhbhai Patel con il difficile compito di risollevare le sorti del BJP, che nello stato stava perdendo consenso elettorale molto rapidamente. A conti fatti, Modi non solo ha raggiunto l’obiettivo ma è andato molto oltre le aspettative: come dimostrano i recenti risultati elettorali, si è dimostrato un vincente, uno che non ha mai perso un’elezione; ha la reputazione di politico forte e incorruttibile, che è in grado di portare avanti riforme decisive per scardinare la proverbiale immobilità dell’amministrazione e della burocrazia indiana. Ma come si conciliano i due estremi di questo quadro, l’estremista indù e il politico neo-liberista e riformista? Apparentemente agli opposti, in realtà estremismo religioso e propaganda ‘modernista’ su questioni di politica economica sono diventati due facce di una stessa retorica che ha gradualmente ri-orientato il dibattito politico, in India e non solo, negli ultimi vent’anni.
L’apertura dell’economia indiana alle liberalizzazioni e ai capitali stranieri, iniziata nel 1991, è stata infatti seguita da un’entusiasta aderenza a stili di consumo e di vita stereotipicamente ‘occidentali’, rivelando l’aspirazione di settori sempre più ampi della popolazione a far parte di un contenitore genericamente definito come ‘middle-class‘ ma che simboleggia una speranza e un’ansia di ascesa sociale e affermazione che vanno al di là di una semplice identificazione censitaria. Allo stesso tempo, la progressiva affermazione (a partire dalla fine degli anni ’80) di una cultura e di un’appartenenza politica che si identificano con una propaganda estremista indù si può leggere come lo sforzo di rimarcare una specificità tutta indiana, che sottolinei una differenza dell’India nel calderone culturalmente omologante del mondo globalizzato. Interpretando l’ascesa del fondamentalismo indù, soprattutto negli ambienti delle classi medie urbane, come una sorta di “disagio verso la modernità”, l’antropologo Thomas Blom Hansen ha sottolineato lo sforzo delle classi medie urbane nell’essere identificate come pienamente parte di un immaginario globale mantenendo tuttavia una propria identità, connotata da un’aderenza molto esteriorizzata ai riti e ai simboli dell’induismo targato RSS (Hansen, 1999, 232-235).
In realtà, la parabola politica di Narendra Modi racconta una storia diversa: per il modo in cui ha dimostrato di padroneggiare le politiche economiche per trarre i massimi vantaggi dall’apertura al libero mercato (in una competizione fratricida tra stati federali, Hirway 2000), giocando allo stesso tempo con le politiche identitarie e con le insicurezze di ampie fasce della popolazione, Modi ha dimostrato di essere un politico moderno e spregiudicato. Il suo lessico è composto da elementi che non mettono in antagonismo modernità e tradizionalismo religioso, ma, anzi, fanno della sintesi tra questi due aspetti il punto fondante del suo modo di essere, oltre che di fare politica. Nelle sue parole la via indiana allo sviluppo passa attraverso una rigida affermazione di appartenenza esclusiva a una supposta tradizione indù pura (cioè non inquinata dal sincretismo e dallo scambio, che invece hanno caratterizzato per secoli la storia del subcontinente). La sua stessa immagine, il suo aspetto fisico, i profili della sua vita privata che emergono in pubblico, portano a vedere nella sua persona la riconciliazione tra tradizionalismo e modernità. Con grande facilità, Modi ha giocato negli anni il ruolo del leader religioso, dedito allo yoga e a una vita quasi ascetica, che si trova però perfettamente a suo agio nei consessi internazionali e riesce ad attirare grandi capitali e investimenti nel suo stato. La maestosa messa in scena del Vibrant Gujarat Global Investors’ Summit, fiera biennale in cui il governo del Gujarat invitava investitori e rappresentanti governativi da tutto il mondo per promuovere lo stato come destinazione di investimenti, rappresenta la quintessenza dell’immagine pubblica e del successo di Narendra Modi.
Inaugurato nel gennaio del 2003, all’indomani dei pogrom e della rielezione di Modi a Chief Minister dello stato, il Vibrant Gujarat Summit è diventato negli anni l’occasione non solo per mettere in mostra le grandi opportunità offerte dal governo del Gujarat ai potenziali investitori, ma anche e soprattutto per offrire un palcoscenico internazionale a Modi per recitare il suo copione preferito, quello appunto del leader fortemente e intimamente radicato nelle radici religiose e culturali indù (e gujarati nella fattispecie), che manovra con successo le leve dell’economia neo-liberista. A questo proposito è stato notato come “Modi abbia trasformato l’atto di investire in uno degli stati indiani tradizionalmente più industrializzati e favorevolmente aperti al commercio in uno spettacolo di alto profilo” (Jose, 2012), una fiera rivolta agli investitori e ai governi di tutto il mondo, ma anche una vetrina per il leader indiscusso di questo modo di fare politica.
Sviluppo economico come motore di eguaglianza sociale
Fin dalla metà degli anni ’80, il Gujarat è stato considerato come un laboratorio delle associazioni fondamentaliste indù, che sul suo territorio e nella sua società hanno sperimentato tecniche di mobilitazione di massa su una piattaforma ideologica che identifica l’appartenenza nazionale indiana con una versione reinterpretata della comunità indù, un’ideologia definita, dallo stesso RSS, Hindutva (Nandy et al., 1995; Jaffrelot, 1996; Hansen 1999). Per oltre trent’anni, associazioni legate all’RSS hanno concentrato la loro attenzione sulle masse di lavoratori industriali, che nei grandi centri urbani stavano subendo gli effetti di un progressivo ridimensionamento dei principali settori di produzione, in particolare il tessile, con una drastica riduzione di diritti, di risorse economiche, e di appartenenza di classe (Shah 2002a, 2002b, Shani 2007; Yagnik and Sheth 2005, 2011; Spodek 2010, 2011; Patel 2002). E, in anticipo su una tendenza che si rispecchierà su scala nazionale dagli anni ’90, il BJP in Gujarat ha iniziato a capitalizzare sulla progressiva infiltrazione di una cultura di intolleranza religiosa per costruire una forte base di consenso trasversale alle differenze di classe e di casta, ma concentrata su di un diffuso sentimento anti-musulmano. I simboli esteriori dell’appartenenza religiosa, come la partecipazione a processioni o festival religiosi, o il rendere le visite ai templi una consuetudine sociale (Bobbio, 2014), sono così progressivamente diventati un modo per affermare la propria religiosità e insieme per dimostrare una propria aderenza comunitaria identificata a livello pubblico con le politiche del BJP.
Salito al potere, Modi ha da subito cercato di rafforzare questa idea di comunità proprio presentando se stesso come la quintessenza di un supposto ethos gujarati, fondato su tradizioni religiose e culturali che erano in sé già profondamente discriminatorie, in quanto escludevano a priori tutti i non indù, automaticamente identificati come non-gujarati (Jose, 2012). Da questo punto di vista, la storia non inizia con i pogrom del 2002, ma, anzi, questi rappresentano il culmine di un processo che ha ridefinito i termini dell’appartenenza e del riconoscimento all’interno dello stato e della nazione, processo cui Modi ha preso parte fin dagli albori, come giovane attivista dell’RSS e organizzatore di importanti manifestazioni religiose spesso culminate in disordini e violenze (Jose, 2012). In quest’ottica appare più facile capire come i pogrom del 2002 abbiano marcato anche un significativo, quanto tragico, punto di svolta nella storia degli scontri comunitari nel paese, rappresentato dalla dimensione di massa assunta dalle violenze. Per la prima volta infatti, in uno sfoggio di follia collettiva durato vari giorni, persone di tutte le estrazioni sociali, di casta e di censo, hanno preso parte ai saccheggi e alle violenze, distruggendo negozi e case di famiglie musulmane.
Dopo il bagno di sangue dei pogrom del 2002, avvenuti con il coinvolgimento più o meno attivo di alcuni membri del governo locale e l’implicito benestare del Chief Minister, Modi ha portato avanti un duplice sforzo per rinnovare la sua immagine. In parte per schivare le accuse di essere coinvolto nei pogrom e in parte per consolidare la sua base elettorale tra le classi medie urbane, Modi ha orientato la sua agenda politica esclusivamente su temi di sviluppo, modernizzazione delle infrastrutture, e crescita economica. In questo modo, la retorica riguardo allo sviluppo economico del paese è diventata parte di un discorso teso a glorificare l’immagine stessa delle classi medie gujarati, considerate come quasi naturalmente propense al commercio e capaci di destreggiarsi tra le possibilità dell’economia liberalizzata. E solo Modi, solo il BJP, in quanto genuini difensori dell’identità Gujarati – e Indiana – potevano dichiararsi paladini dello sviluppo economico dello stato. Il risultato di tale retorica è stato una “re-immaginazione dello stato”, e delle sue tradizioni culturali, sotto la lente monocolore dell’Hindutva e delle politiche settarie che ne derivano (Prakash, 2003). La particolarità di questa costruzione politica in Gujarat, e che Modi ha trasferito con successo sul piano nazionale, è stato il porre sullo stesso piano, e anzi il rendere complementari, la retorica esclusivista indù (secondo la quale solo gli indù sono da considerarsi ‘veri’ indiani) e la propaganda modernista di stampo neoliberista (secondo cui l’India ha una propensione quasi naturale allo sviluppo e alla crescita economica). Il successo di questa narrazione politico-culturale risiede proprio nella sua ambiguità: gli argomenti di stampo economico vengono così presentati come l’ultimo passaggio per il raggiungimento di una società veramente egualitaria e ‘secolare’ perché, nelle parole di Modi, “ogni comunità [religiosa, castale, etnica] assaggerà i frutti dello sviluppo economico” (Time, 2012:4). E’ la crescita economica che si erge a unico indicatore non solo di giustizia sociale, ma anche di equanimità da parte dello Stato nei confronti di ogni gruppo minoritario. La laicità rientra così nella cornice dei benefici miracolosi della crescita economica, come fa notare il sociologo Shiv Vishwanathan: “il lessico della laicità rientra sempre all’interno di discorsi di razionalità economica. Gli investimenti possono essere calcolati e quantificati, quindi sono razionali, tutto ciò che cade al di fuori di questi discorsi è derubricato come soggettivo, etnico e irrazionale” (in Yadav, 2011).
Anche se a un primo impatto la logica secondo cui lo sviluppo economico si irradierà a pioggia su tutti i settori della società può sembrare egualitaria e inclusiva, in realtà non lo è. In primo luogo, l’accesso ai benefici della crescita economica di neo-liberista è stato limitato a settori della popolazione che potevano affacciarsi su un mercato del lavoro che richiede figure formate, specializzate e altamente istruite. Le fasce più svantaggiate, meno scolarizzate e vulnerabili dal punto di vista economico, si sono viste progressivamente espulse dal mercato del lavoro e sono state assorbite nell’universo di lavori informali, sottopagati e non protetti da alcuna garanzia contrattuale, che formano la base del miracolo economico indiano (Appadurai 2000; Breman, 2009). Inoltre, nel lessico settario del BJP e delle associazioni fondamentaliste indù, i confini dell’appartenenza sono ben chiari e delineati secondo una reinterpretazione settaria e conservatrice di tradizioni culturali e religiose. In quest’ottica, la tanto declamata “middle-class revolution” che ha risollevato l’economia del Gujarat durante gli anni di governo Modi (2001-2014) ha corrisposto al consolidarsi di una cultura intollerante verso tutti quei settori della società che a vari livelli non si conformano con l’immagine di modernità e progresso pubblicizzata e incarnata dal leader, in particolare gli abitanti delle baraccopoli urbane e i musulmani. Mascherando questa crescente intolleranza come, appunto, sintomo delle aspirazioni delle crescenti classi medie urbane, Modi ha giocato con successo il ruolo del politico-manager, riuscendo così a far trionfare le ambizioni di crescita sulle resistenze verso un personaggio che molti vedono come direttamente responsabile dei massacri del 2002.
Una nuova èra?
Il 2013 è stato un anno di svolta per Narendra Modi. In un momento in cui l’intera nazione versava in una crisi economica sempre più evidente, i successi in termini di indicatori economici del Gujarat hanno aperto la strada a Modi per superare l’ultimo vero ostacolo che ne minava la credibilità. Infatti, le più grandi resistenze dopo il 2002 Modi le ha sempre trovate da parte della comunità internazionale, che lo ha ostracizzato impedendogli di fatto di viaggiare al di fuori dell’India. Le sirene della crescita economica, e quindi delle possibilità per gli investitori stranieri, hanno giocato però un’attrattiva irresistibile anche per quei governi che avevano sempre evitato rapporti con Modi per il suo presunto coinvolgimento nei pogrom. L’edizione 2013 del Vibrant Gujarat Summit si è così trasformata nella passerella internazionale che gli era sempre mancata. In quei giorni ha incassato importanti manifestazioni di appoggio da rappresentanti dei governi di Stati Uniti e Gran Bretagna, segno evidente che anche i paesi che l’avevano più apertamente osteggiato erano pronti a una sua eventuale vittoria elettorale (The Economist, 17 January 2013; Time, 26 March 2012).
Vittoria che puntualmente è arrivata quattro mesi dopo, anche se le proporzioni del successo elettorale di Modi e del BJP sono andate molto al di là delle loro più rosee previsioni. Figlio di una diffusissima delusione e ostilità verso il partito del Congresso, che durante i due mandati di governo (2004-2014) non è riuscito né a mantenere i tassi di crescita al livello delle aspettative delle classi medie né, tanto meno, a portare avanti programmi di welfare convincenti a vantaggio delle fasce più svantaggiate della popolazione, la vittoria del BJP è però anche il segnale del successo di un linguaggio e di una pratica politica che, se da un lato traccia un percorso di sviluppo e di crescita netto, dall’altro diminuisce drasticamente lo spazio per il dissenso nel momento in cui ogni critica al modello dominante viene definita come ‘anti-nazionale’ o frutto di politiche settarie.
Nei suoi primi sei mesi alla guida del governo centrale, Modi ha mantenuto il piglio risoluto e l’aura da politico-manager che finora gli è valsa ampi consensi. Nella sua iperattività ha già viaggiato in lungo e in largo, incontrando capi di stato e di governo in giro per il mondo, ha visitato Stati Uniti e Cina e tenuto banco al recente meeting annuale della SAARC (South Asian Association for Regional Cooperation). La retorica è sempre la stessa, l’India che si affaccia sul mercato globale, offrendo un porto vantaggioso per i grandi capitali e aprendo il suo mercato di un miliardo e duecento milioni di potenziali consumatori agli investimenti stranieri. Il tutto però mantenendo sempre un forte accento sull’unicità delle tradizioni e della cultura locale, come suggerisce la recente creazione di un ministero per le medicine tradizionali (Ayurveda, Yoga, Naturopatia, Unani, Siddha e Homoeopathy, AYUSH) subito ripreso sui media internazionali come il ‘Ministero dello Yoga’. Anche se in apparenza potrebbe sembrare l’ennesimo esempio di una macchina amministrativo-burocratica mastodontica, questo è in realtà uno dei messaggi che Modi sta cercando di far passare sul piano nazionale e internazionale: l’India si propone per un ruolo da protagonista tra le grandi potenze del mondo globalizzato, ma proprio in virtù della sua specificità radicata nella cultura e nella tradizione (indù, ovviamente).
Al di là della propaganda, in questi mesi l’economia indiana non ha registrato una sensibile inversione di tendenza rispetto agli anni precedenti, mancando gli obiettivi fissati dal primo ministro in campagna elettorale, sia in termini di crescita del PIL sia in termini di aumento del volume di investimenti stranieri (Times of India, 2014). I prossimi mesi dimostreranno se l’elettorato indiano sarà ancora disposto ad accordare fiducia indiscriminata all’uomo che ha promesso miracoli dal punto di vista economico, o se invece le sua malcelate tendenze autoritarie non rischieranno di riemergere ai primi segnali di dissenso diffuso.
Bibliografia e consigli di lettura
Siti internet e riviste online
Tehelka: www.tehelka.com
The Caravan: www.caravanmagazine.in
Seminar: www.india-seminar.com
http://www.eastonline.eu/it/opinioni/elefanti-a-parte
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