di Roberto Salerno
I.
Sembra ormai patrimonio comune l’idea dell’irreversibilità della sconfitta della sinistra cosiddetta “radicale”. Fuori dal Parlamento, tradita dai suoi elettori – rifugiatisi in un movimento quanto meno ambiguo, quando non direttamente nell’astensione – e abbandonata dai militanti, non sembra più in grado di incidere in nessun modo sui destini del Paese.
Meno discussa è invece l’incredibile débâcle della sinistra moderata – o “riformista” – quella che una volta si sarebbe chiamata socialdemocratica e che oggi prova in tutti modi a nascondere cos’è, peraltro riuscendoci benissimo. A differenza di quella radicale, la sconfitta della sinistra moderata non è però nei numeri; in fondo in Italia il PD è alla guida del governo. La sconfitta è ideologica: l’idea stessa della giustizia sociale – in fondo vera ragion d’essere di ogni sinistra moderata o radicale, riformista o rivoluzionaria – è stata assorbita e reinterpretata attraverso strumenti e politiche limpidamente di destra, una destra forse civile, ma di certo paternalistico-elitaria.
II.
Per provare a meglio definire questa sconfitta limitiamoci a soli quattro esempi, lasciando per ultimo quello più clamoroso. In coda, una serie di affermazioni dei nuovi punti di riferimento culturale della neo-sinistra moderata faranno rabbrividire anche i più aperti verso le promesse riformiste del PD o di SEL.
A) La pace sociale. Il mantenimento della pace sociale è ormai del tutto delegata all’attività di repressione. Dalle semplici manifestazioni – regolamentate soprattutto da governi nominalmente di centro sinistra – ai conflitti sociali più radicali – del tutto abbandonati dalla sinistra moderata – il PD ha dato solo risposte d’ordine o, come amano dire, istituzionali. L’area del dissenso, per la sinistra moderata, non è delimitata dalle intollerabili sopraffazioni, politiche e sociali, di un sistema che scarica le proprie contraddizioni sui più deboli, come da tradizione, ma dalle indistinte “regole”, dimenticando opportunamente che le regole non sono neutre, ma espressione degli interessi dominanti. C’è sempre un buon motivo per creare mille distinguo in merito alle proteste: dalla pericolosità del linguaggio all’opportunità del momento. Ne discende il tentativo di appropriarsi di temi tradizionalmente di destra, come la sicurezza o l’appoggio incondizionato alle forze dell’ordine, anche quando coinvolte in fatti che chiamare criminosi è un pallido eufemismo. E, naturalmente, la pronta denuncia di un clima di intolleranza quando alcuni disperati, invece che suicidarsi, pongono in essere gesti eclatanti. Da dove realmente provenga la disperazione delle persone non sembra tema in grado di suscitare la stessa indignata preoccupazione.
B) La politica estera. Dal bombardamento, mai dimenticato, contro la Serbia – vera vergogna di qualsiasi uomo di sinistra – agli scellerati appoggi alla guerra in Libia, passando per Iraq e Afghanistan, al prossimo appoggio all’attacco della Siria, alla totale cecità dei complessi processi di riorganizzazione politica sociale in Sudamerica (non necessariamente Chavez e Castro, ma persino quello che si muove in Bolivia, in Ecuador o in Argentina con la Kirchner, che non è certo legata alla sinistra radicale), l’abbandono di qualsiasi prospettiva autonoma e l’appoggio più o meno incondizionato alla politica della destra americana – o di Obama, che è la stessa cosa – hanno del tutto chiuso la possibilità di contare qualcosa nella politica internazionale. Non che tradizionalmente si sia mai stati particolarmente influenti – in fondo rimaniamo un protettorato USA – ma essere costretti a ricordare il Craxi di Sigonella come esempio di schiena dritta è davvero un triste epilogo per la sinistra.
C) La giustizia. Ingessata dall’antiberlusconismo, la sinistra moderata ha anche qui dimenticato tutte le terribili distorsioni del sistema giudiziario italiano, che continua a essere fonte ineguagliabile di prevaricazione verso i deboli. I dati della popolazione carceraria sono devastanti, e naturalmente correlati alla classe sociale di provenienza; la scarsa efficienza dei procedimenti giudiziari è sempre giustificata da carenze d’organico, che ci sono, ma che non spiegano la leggerezza con cui molti magistrati mandano la gente in carcere; la formazione dei magistrati – che sono spesso del tutto incapaci di comprendere la delicata funzione del proprio ruolo – li rende molto spesso deboli con i forti e fortissimi contro i deboli – valga per tutti la repressione del dissenso in val di Susa operata da Caselli. Il disinteresse reale verso questa fondamentale questione è assordante.
D) La questione economica. È qui che la sinistra moderata ha abbandonato del tutto la propria vocazione, firmando la propria resa incondizionata. L’adozione di una prospettiva di destra, lucidamente di destra, è suffragata da tantissime prove. Le politiche economiche hanno del tutto dimenticato non solo Marx, ma addirittura Keynes, con l’incredibile appoggio – “incredibile” proprio in senso tecnico, in tempi di recessione – alle misure di austerità di Monti e dei governi precedenti. È una storia che arriva da lontano. Dall’indipendenza della Banca d’Italia dal Tesoro, per esempio (senza che nessuno si chiedesse “indipendenza da chi?”), che ha prodotto un effetto terribile sui conti pubblici alzando in maniera indiscriminata i tassi di interesse sui titoli di Stato; o dalla paura dell’inflazione, come se fosse un male in sé, cosa che forse può credere qualche tedesco ancora traumatizzato da Weimar, ma che è assurda in Europa; ma, ancora, dall’entusiastica adesione a un sistema di cambi fissi, prima, e addirittura di moneta comune, dopo, rinunciando al solo strumento che davvero poteva offrire una qualche forma di protezione ai ceti più deboli contro gli shock esterni, come quello arrivato dagli USA nel 2008. E, a corollario, ci sono naturalmente le privatizzazioni, vere dismissioni di patrimonio pubblico che non hanno prodotto mai un abbassamento di prezzi o un miglioramento del servizio (basta pensare a luce, acqua e gas) e che non solo hanno ulteriormente arricchito i potenti gruppi finanziari (quando non semplici avventurieri), ma si sono trasformate in un ulteriore peso per le classi deboli, alle prese non più con un settore pubblico “comprensivo” per una bolletta pagata in ritardo, ma con un privato fuori da ogni controllo.
III.
Che questo sconfortante quadro sia l’esito di una precisa mutazione ideologica lo si può ricavare dalla triste sequenza di visioni del mondo che traspare da quelli che sarebbero i riferimenti politici ideali di questa nuova sinistra. Per i padri nobili, anche intellettuali d’area, l’irredimibile popolo va, forse, emancipato ma, prima e soprattutto, salvato dalle proprie pulsioni ormai naturaliter di destra o, come più elegantemente (?) si dice adesso, antipolitiche. E siccome ogni tanto il popolo è recalcitrante deve essere messo sotto stress in modo da poter fare quello che i padri nobili sanno essere buono e giusto. In ogni caso, si devono limitare al massimo gli spazi di partecipazione, anzi, le stesse modalità di partecipazione devono essere decise dall’alto e condotte da esperti che sapranno sagacemente guidare le collettività verso quello che è giusto per loro (casualmente quasi sempre in sintonia con gli interessi dei potentati economici e dei gruppi dirigenti).
Vanno, così, al di là dell’immaginazione di un complottista le ridenti dichiarazioni di Romano Prodi, il candidato vero della sinistra moderata alla Presidenza della Repubblica, capace di dire, senza particolari difficoltà, e di ripetere varie volte, che l’euro è qualcosa che non conviene ai cittadini italiani, ma che, siccome conviene alla Germania, si doveva fare («la Germania è il Paese più grande e più forte d’Europa grazie all’euro», ma anche «nonostante tutto ciò, penso che l’euro non solo si salverà, ma celebrerà molte altre decine di compleanni perché esso costituisce la forza della Germania», Il Messaggero, 31 dicembre 2011). Ancora più sconcertante è l’idea – che ritroviamo in tutti i padri della patria – dell’uso delle crisi come strumento per aggirare i vincoli democratici: «I am sure the Euro will oblige us to introduce a new set of economic policy instruments. It is politically impossible to propose that now. But some day there will be a crisis and new instruments will be created» (sempre Prodi al Financial Times, 5 dicembre 2001).
Non era da meno Guido Carli, quando sul trattato di Maastricht affermava tranquillamente che «ancora una volta si è dovuto aggirare il Parlamento sovrano della Repubblica, costruendo altrove ciò che non si riusciva a costruire in patria»
(Cinquant’anni di vita italiana, Laterza 1996).
Così anche Tommaso Padoa Schioppa: «Nell’Europa continentale, un programma completo di riforme strutturali deve oggi spaziare nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola e in altri ancora. Ma dev’essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità» (Corriere della Sera, 26 agosto 2003).
Come stupirsi, a questo punto, che Monti possa tranquillamente affermare che «nei momenti di crisi più acuta ci sono i progressi più sensibili. Rientro dell’emergenza della crisi, affievolimento della volontà di cooperare. Non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di gravi crisi per fare passi avanti. I passi avanti dell’Europa sono per definizione cessioni di parti di sovranità nazionali a un livello comunitario. È chiaro che il potere politico, ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale, possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle perché c’è una crisi in atto, visibile, conclamata». E ancora, in sconfortante crescendo: «abbiamo bisogno delle crisi […] per fare passi avanti, ma quando una crisi sparisce rimane un sedimento, perché si sono messi in opera istituzioni, leggi, eccetera, per cui non è pienamente reversibile».
Se poi qualcuno continua assurdamente a cercare fuori dalla penisola qualche speranza, si rivolga pure a Jacques Attali, nume tutelare del nostro nuovo Presidente del Consiglio e così presente nelle cronache nostrane: «Era evidente, e tutti coloro che hanno partecipato a questa storia lo sanno, che l’euro, sapevamo sarebbe scomparso entro 10 anni senza un federalismo buggettario. Vale a dire con eurobond, ma anche con una tassa europea, e il controllo del deficit. Noi lo sapevamo. Perché la storia lo dimostra. Perché non c’è nessuna zona monetaria che sopravviva senza un governo federale … Tutti sapevamo che questa crisi sarebbe arrivata». E quindi da sovrani, anzi da despoti, «abbiamo minuziosamente “dimenticato” di includere l’articolo per uscire da Maastricht… In primo luogo, tutti coloro, e io ho il privilegio di averne fatto parte, che hanno partecipato alla stesura delle prime bozze del Trattato di Maastricht, hanno, ci siamo incoraggiati a fare in modo che uscirne… sia impossibile. Abbiamo attentamente “dimenticato” di scrivere l’articolo che permetta di uscirne». Concludendo: «non è stato molto democratico, naturalmente, ma è stata un’ottima garanzia per rendere le cose più difficili, per costringerci ad andare avanti». Persino il luogo in cui queste parole sono state dette diventa beffardo. Si tratta della “Università partecipativa” che Segolène Royal organizzò sul tema della “Crisi dell’euro” il 24 ottobre 2011.
IV.
Insomma, siamo in presenza di un paternalismo neanche conservatore, limpidamente reazionario. E a poco vale la copertura sul versante dei diritti civili, importante certo, ma che assume solo aspetti strumentali all’interno del quadro che abbiamo sommariamente accennato. Non è certamente impossibile intravedere forme di cinismo nella scelta di una presidente della Camera donna e con un curriculum fondato sull’assistenza ai rifugiati o di una donna di colore come ministro. Operazioni di maquillage – in un paese dove le donne sono vittime di continue violenze e il razzismo si espande in modo preoccupante – buone per provare a dare l’illusione di una diversità dalla destra che è sostanzialmente inesistente.
Questa è la sinistra moderata oggi. E visto che la sinistra radicale, arrivata in fondo al pozzo, sembra sempre più impegnata a scavare (e non certo come la vecchia talpa), se speranza esiste – se, solo se –non è certo da ricercare lì. Piuttosto, forse, nei singoli movimenti che stanno faticosamente provando a costruire dei momenti di conflitto sociale, dalla già citata Val di Susa al movimento sui beni comuni, dall’Ilva di Taranto ai tentativi bolognesi di spostare risorse dal privato al pubblico almeno negli asili nido. O, per allargare lo spettro, negli Indignados o nei vari Occupy e M15. Roba di poco conto si dirà. Certo, ma cos’altro rimane?