di Francesco Pallante
Quel che colpisce, a vent’anni dai referendum Segni del 1993, è il ripetersi dell’illusione di poter forzare la realtà del sistema politico per mezzo di artifici legislativi. Come se le leggi fossero formule magiche, pronunciando le quali si trasformano le cose.
Da questo punto di vista, Mattarellum e Porcellum erano analoghi: entrambi, tra sistema dei partiti e sistema elettorale assumevano il primo come variabile dipendente dal secondo. Eppure, non c’è stata legislatura post ’93 che si sia conclusa senza la crisi della coalizione premiata dagli elettori. La ragione è evidente: si trattava di coalizioni elettorali, non politiche, concepite al solo scopo di imporsi sull’avversario, mettendo insieme anche chi insieme non poteva ragionevolmente starci (emblematiche le coalizioni-mostro realizzate nel 2006).
Ora, con l’accordo Renzi-Berlusconi, ci risiamo. Sarebbe interessante chiedere ai teorici delle decisioni razionali com’è spiegabile questo incaponirsi generalizzato su una soluzione che ha dimostrato ampiamente, e da vent’anni, la sua inadeguatezza. Tanto più che adesso la situazione è cambiata, e in senso ulteriormente sfavorevole al maggioritario. Se già si è dimostrato impossibile farlo funzionare con due poli, figurarsi con tre. Saranno necessarie forzature ancora maggiori, con esiti che, alla luce delle esperienze passate, è facile immaginare ancora più disastrosi.
Il nodo è il rapporto tra rappresentanza e governabilità. Due principi costituzionali che però – come ha ricordato la sentenza n. 1/2014 della Consulta – non stanno esattamente sullo stesso piano. La nostra è, in primo luogo, una democrazia rappresentativa; poi, certo, necessita – come tutti i sistemi politici – di essere governata. Ma non al costo di trasformarsi in una “democrazia governativa”. La prerogativa delle Costituzioni novecentesche è stata la capacità di produrre inclusione sociale attraverso l’estensione della rappresentanza, a dispetto delle Costituzioni liberali dell’Ottocento, che si basavano sulla sua limitazione. La presa d’atto della necessità di considerare la società nella sua articolazione in classi, nel suo pluralismo ideologico, nella complessità dei sistemi di interessi che in essa si contrappongono segna il passaggio di secolo (nel caso italiano con qualche ritardo, in verità). Ma si è trattato di una stagione di breve durata. Mai come nei trent’anni successivi alla seconda guerra mondiale le diseguaglianze sociali sono, a livello planetario, diminuite. Poi, la rotta si è invertita e oggi le 85 persone più benestanti del pianeta posseggono una ricchezza pari a quella dei 3,5 miliardi più indigenti. Una tendenza generalizzata, in cui l’Italia si segnala come uno dei paesi a maggior crescita della diseguaglianza. La logica esclusiva è tornata a prevalere, producendo anomia sociale, disaffezione politica e (dis)torsioni costituzionali riguardo ai diritti, alla forma di governo, alle fonti.
Ma è sul piano storico che sono all’opera le mistificazioni più evidenti: il dialogo politico che, in epoca di proporzionale, ha portato – pur tra enormi difficoltà e tensioni – l’Italia dal sottosviluppo al G7 è stato bollato col marchio d’infamia del “consociativismo”; mentre l’immobilismo politico che, in epoca di maggioritario, ha accompagnato il declino italiano degli ultimi vent’anni è stato celebrato sotto il nome della “democrazia decidente”. Eppure, a volgere lo sguardo retrospettivamente, le uniche decisioni che nel nostro Paese siano davvero state capaci di trasformare i rapporti economico-sociali nel senso indicato dall’art. 3 Cost. si collocano tutte tra i primi anni Sessanta e gli ultimi anni Settanta (dalla scuola media unica e obbligatoria al servizio sanitario nazionale, passando per l’energia elettrica, i diritti dei lavoratori, le pensioni, il diritto di famiglia, la progressività fiscale, ecc.). Persino sui temi etici si decideva più allora che oggi: divorzio e aborto trovarono, nonostante tutto, una regolazione; fine vita e coppie di fatto ne sono tuttora privi. Il maggioritario è stato, a conti fatti, un gioco a somma negativa: è riuscito nel capolavoro di diminuire, nel contempo, rappresentatività e governabilità.
Ci si chiede come si possa pensare di governare un Paese senza rappresentarne i cittadini. A furia di escludere, siamo arrivati ad avere una Camera in cui il 55% dei seggi è andato a un partito votato dal 25% degli elettori. E solo l’insipienza umana ha fatto sì che la situazione non si riproducesse nell’altro ramo del Parlamento, cosa alla quale vorrebbe ora ovviare la proposta Renzi-Berlusconi (potenzialmente suscettibile di produrre risultati ancora più distorsivi, non essendo prevista una soglia minima di accesso al ballottaggio).
E se la smettessimo di credere alle formule magiche e tornassimo a fare i conti con la realtà? L’Italia è un Paese attraversato da fratture numerose e profonde. Non è una novità: era così nel 1945, è così oggi. Bisogna ritrovare il coraggio di guardare le cose come stanno. Con tre partiti che oscillano tra un quinto e un quarto dell’elettorato, non si può fare a meno di riconoscere l’ineluttabilità del dialogo politico. In casi come questi (lo dimostra persino la Gran Bretagna), c’è bisogno di mediazione, non di contrapposizione. La logica dell’incontro deve sostituirsi a quella dello scontro.
Il che non significa appiattirsi sulla situazione di fatto: si possono immaginare correttivi, sia sul piano della rappresentanza, sia su quello della governabilità. Purché di correttivi, e non di stravolgimenti, si tratti. Ragionevoli clausole di sbarramento per l’accesso alla ripartizione dei seggi. O meccanismi di razionalizzazione del rapporto di fiducia, sul modello francese (fiducia iniziale presupposta) o tedesco (sfiducia costruttiva). O, ancora, una combinazione di queste proposte. Insomma: nulla vieta di pensare a un Parlamento ampiamente, ma non totalmente, rappresentativo, in dialogo con un governo capace di entrare e/o restare in carica anche in assenza di una chiara maggioranza parlamentare e, per questo, costretto a operare mettendosi in ascolto di tutte le forze parlamentari più rilevanti.
Prima di tutto, però, occorre un’operazione di psicanalisi collettiva: sradicare dalla testa degli elettori l’infantile capriccio di volere a tutti i costi conoscere il nome del vincitore la sera delle elezioni. Molto meglio sarebbe andarsene tutti, più semplicemente, a dormire.