di Guido Montanari
La crisi della città fabbrica
Negli anni Settanta del secolo scorso le lotte operaie per migliori condizioni di vita e di lavoro hanno un fulcro importante a Torino e si riflettono nelle giunte di sinistra (1975-1985), guidate da Diego Novelli. È il periodo del tentativo di sostituire il Piano regolatore vigente (Annibale Rigotti, 1959) con un nuovo strumento urbanistico incentrato sul riequilibrio territoriale a scala regionale, sul raggiungimento degli standard urbanistici, sul rispetto della struttura storica urbana e sul controllo della rendita fondiaria[1]. L’esaurimento di questa fase si annuncia con gli “anni di piombo” e con la sconfitta sindacale dello sciopero dei 35 giorni alla Fiat (1980), che segnano l’inizio di una metamorfosi economica e sociale epocale: frammentazione dell’apparato produttivo, smantellamento delle grandi concentrazioni operaie, chiusura di fabbriche, riorganizzazione e delocalizzazione della produzione nella cintura urbana e all’estero.
La fine dell’attività produttiva del Lingotto (1982) e il famoso concorso a inviti della Fiat per il riutilizzo dei suoi 181.000 mq[2], sanciscono il tramonto della “città-fabbrica”, ma anche l’esaurimento dell’urbanistica dei piani e dei progetti pubblici e l’inizio dell’urbanistica “contrattata”[3], direttamente guidata dai capitali privati, al di fuori del controllo democratico della trasformazione urbana.
Con la chiusura di decine di fabbriche, l’attuazione da parte della Fiat di un massiccio piano di licenziamenti, di prepensionamenti e di cassa integrazione, Torino si presenta a fine anni Ottanta come una città in grave crisi, in bilico tra il rischio di una esplosione sociale dai risvolti imprevedibili e le opportunità del rinnovamento urbano di circa 10 milioni di metri quadri di aree industriali dismesse.
In una stagione politica improntata all’ideologia neoliberista che trova i suoi alfieri nel presidente americano Ronald Reagan e nel primo ministro inglese Margareth Thatcher, Torino adotta il nuovo Piano regolatore (Vittorio Gregotti e Augusto Cagnardi, 1995) focalizzato su tre obiettivi principali: lo sviluppo del terziario, la valorizzazione della produzione edilizia, il marketing urbano internazionale. Il piano individua tra i principali settori della trasformazione urbana la “Spina centrale”, come collegamento delle aree industriali dismesse, l’asse di corso Marche come nuova possibilità infrastrutturale e di espansione urbana, e l’asta fluviale del Po, come luogo di loisir e di sport. Di queste tre aree soltanto la Spina centrale, ha avuto completa attuazione, incentrata sul nuovo boulevard realizzato sull’asse nord-sud, attraverso la copertura della trincea ferroviaria.
La vincente candidatura ai Giochi Olimpici Invernali del 2006 e i forti finanziamenti per opere infrastrutturali come il nuovo passante ferroviario e la metropolitana, sono tra i principali inneschi del nuovo Piano regolatore. Sull’onda della frenesia olimpica, nel decennio 2000-2010 le due amministrazioni di Sergio Chiamparino portano a termine la ricostruzione di circa 6 milioni di metri quadri di aree un tempo industriali, attraverso più di 250 varianti urbanistiche basate su notevoli densità edilizie, sulle “nuove centralità” e sulla contestata decisione di realizzare “edifici alti”[4].
La trasformazione delle aree industriali abbandonate
Tra le principali aree in trasformazione, la ex Fiat Avio, nel quartiere del Lingotto, è destinata a residenze e uffici tra cui la nuova sede della Regione Piemonte, con la torre per uffici di Massimiliano Fuksas, di 200 metri. La sistemazione urbana non tiene conto della matrice viaria circostante e prevede zone verdi prevalentemente su soletta. Oltre la ferrovia il Mercato Ortofrutticolo Ingrosso (Umberto Cuzzi,1932) dopo i costosi interventi di restauro per la breve destinazione olimpica, risulta abbandonato, mentre il nuovo quartiere di edilizia convenzionata è in stato di degrado e buona parte degli alloggi non assegnati.
Più a nord inizia la Spina centrale, elemento di collegamento delle maggiori aree industriali dismesse[5]. La Spina 1, tra corso Rosselli e corso Peschiera, dove un tempo sorgeva la ex Materferro, prevede il progetto di “Porta Europa”, due torri asimmetriche, assurdamente disassate rispetto all’asse del boulevard. Il nuovo quartiere comprende residenze e un centro commerciale, le cui scelte architettoniche banali e la conservazione della sola facciata dei capannoni storici, costituiscono occasioni perse del progetto di riqualificazione, ma soprattutto emerge l’inadeguatezza degli spazi pubblici, limitati a una deserta piazza anfiteatro e ad un breve viale pedonale, entrambi privi di verde e non riscattati dalle fontane con le sculture di Mario Merz.
Compresa tra corso Peschiera e corso Vittorio Emanuele II, Spina 2 doveva caratterizzarsi come un nuovo polo culturale della città, incentrato sul raddoppio del Politecnico, sulla nuova biblioteca di Mario Bellini e sul riuso a strutture espositive delle notevoli architetture ottocentesche delle carceri e delle Officine Grandi Riparazioni delle ferrovie. Sono state completate soltanto le nuove residenze sull’area ex Nebbiolo ed ex Westinghouse, fabbriche storiche completamente demolite, tranne la palazzina uffici, lasciata in stato di abbandono. L’espansione del Politecnico è stata condotta secondo un piano frammentario e poco aperto alla città, mentre la biblioteca e il riuso delle OGR sono sospesi per mancanza di risorse. Lascito positivo della stagione olimpica è l’ex villaggio media di via Boggio, destinato a residenze universitarie, estremamente necessarie in una città che ha individuato nella “conoscenza” uno dei principali settori di sviluppo.
Proseguendo verso nord un’altra importante area di trasformazione è quella della stazione di Porta Susa, riprogettata come nodo di interscambio modale su tre livelli e destinata a soppiantare la storica stazione di testa di Porta Nuova. Nelle vicinanze è in costruzione il grattacielo di Renzo Piano, che svetterà a ridosso dei quartieri ottocenteschi, mentre la gara per l’assegnazione del vicino grattacielo gemello per ora è andata deserta.
Più a nord, oltre la Dora, Spina 3 costituisce l’area più significativa di tutta la trasformazione postindustriale che comprende le aree delle ex Acciaierie Vitali, ex Michelin, ex Savigliano, per circa un milione di metri quadrati[6]. Vi sono state realizzate residenze per circa 15.000 abitanti, attività commerciali, direzionali e di ricerca, ma non sono stati previsti asili, scuole, ambulatori, luoghi di ritrovo. I nuovi complessi edilizi, completamente avulsi sia urbanisticamente sia tipologicamente dal tessuto storico, sfrangiato ma ancora riconoscibile, si impongono con le loro masse fuori scala tipiche della peggiore edilizia degli anni Settanta. Tre torrette di circa settanta metri costituiscono il nuovo landmark del quartiere, visibile dai belvederi storici di Torino (Monte dei Cappuccini e Superga) come nuovo sfondo incongruo delle architetture auliche del centro. Spazio pubblico significativo è il sagrato della chiesa del Santo Volto di Gesù di Mario Botta, confinato però in una zona a margine che non riesce a porsi come fulcro del quartiere. Questo ruolo è svolto dalla “piazza” del centro commerciale e della multisala cinematografica, spazio aperto al pubblico, ma non pubblico. Tassello interessante della trasformazione è invece il parco “postindustriale” di 450.000 mq, disegnato da Peter Latz, che rivela un’affascinante sedimentazione di ruderi industriali, contestata però dai cittadini per la scarsa presenza di verde[7].
Ancora a nord, lungo l’asse di via Cigna, è in costruzione la Spina 4, i cui primi esiti confermano la visione urbana fin qui descritta: nessuna attenzione a soluzioni di mobilità sostenibile, nuovi edifici dissonanti dal contesto, che non riescono a operare la ricucitura del tessuto urbano con spazi pubblici di qualità. Analogo approccio antiurbano emerge in quasi tutti i nuovi interventi recenti realizzati a scala di isolato, segnatamente quelli compresi sulle aree dismesse delle Ferrovie dello Stato, tra corso Dante e corso Bramante, ma anche il nuovo Polo universitario delle Facoltà umanistiche progettato da Norman Foster sull’area Italgas, la nuova sede della Lavazza (arch. Cino Zucchi) e numerose altre trasformazioni realizzate e previste[8].
Memoria e genius loci per un disegno urbano democratico
Il “modello Torino” è stato propagandato dai mezzi di informazione e da buona parte della pubblicistica specializzata come un esempio di trasformazione positiva e di gestione oculata del territorio[9], ma non sono stati tenuti in conto aspetti quali paesaggio, beni comuni, partecipazione, sostenibilità sociale e ambientale. I Giochi Olimpici e una serie di altri eventi accortamente proposti in sequenza, dal Congresso mondiale degli architetti alla nomina a Word Design Capital, dai Campionati mondiali di scherma, alle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità, hanno avuto un’ampia eco mediatica che è riuscita a promuovere a scala internazionale e nazionale la nuova immagine di Torino come città dell’arte, della ricerca scientifica, del divertimento e dello sport[10]. In effetti la città si presenta al turista con un centro storico riqualificato, alcune aree pedonali, una buona presenza di verde, di musei e di monumenti, oggetto di significativi interventi di restauro e di ammodernamento[11].
Tuttavia questa visione consolatoria di una città che ha saputo far fronte alla più grave crisi della sua storia contemporanea, evitando drammatici conflitti sociali e reinventandosi come luogo degli “eventi” e del turismo, manifesta alcune crepe[12]. A una analisi rivolta alla città nel suo complesso, e non soltanto alla sua parte aulica, emerge che il disegno delle nuove edificazioni non tiene conto della memoria della città e del suo genius loci. Il progetto dei nuovi quartieri ha portato all’abbandono della tradizionale tipologia degli edifici a corte, alla deformazione degli assi viari della griglia urbana storica e alla perdita del legame visivo con le montagne e con le colline che costituisce una delle peculiarità paesaggistiche più interessanti della città.
Torino dai tempi della sua costruzione come città capitale nel XVII secolo e fino ad anni recenti ha sviluppato una lunga tradizione di progetto dello spazio pubblico di qualità, evidente nel disegno delle piazze, delle strade, dei portici, nell’equilibrato rapporto tra architetture e spazi aperti. Lo straordinario ambiente naturale costituito dall’arco alpino, dalla collina e dal fiume ha per secoli suggerito relazioni visive tra monumenti a scala chilometrica, con prospettive aperte sul paesaggio[13]. Soltanto nell’ultimo quindicennio questi elementi di riferimento per il progetto urbano sono stati abbandonati.
Pur in presenza di qualche eccezione[14], l’indifferenza alle suggestioni che potevano venire dalla memoria del patrimonio industriale, dal dialogo con i contesti consolidati, ha disatteso una lunga tradizione di studi di storia urbana[15]. Si è affermata, invece, una visione dell’urbanistica, sottomessa alle proposte di investitori e di proprietari privati attratti da notevoli profitti, come risorsa per fronteggiare la crisi del bilancio comunale.
Il ricorso alle numerose varianti che progressivamente hanno ridotto le aree per verde e per servizi aumentando le cubature e le altezze, secondo la regola della “monetizzazione” del territorio e della posticipazione della realizzazione dei servizi pubblici, si è rivelato una continua, inutile rincorsa alle esigenze del bilancio[16] e non ha risolto problemi di fondo legati all’abitare che si fanno anzi sempre più pressanti.
Nonostante la presenza di un patrimonio di 35.000-50.000 alloggi sfitti[17], le circa 10.000 famiglie in cerca di casa[18] non riescono ad accedere ad affitti calmierati e si moltiplicano le situazioni di sfratto e di crisi abitativa. Ampie porzioni di territorio, come le sponde della Stura, oppure l’area a nord del parco della Pellerina, sono utilizzate per edificazioni abusive o di emergenza, realizzate da popolazioni nomadi e da irregolari, prive anche dei servizi urbani primari.
L’Amministrazione non è riuscita a controllare la trasformazione urbana in senso sociale, ad avviare processi di aggiornamento tecnologico, di innovazione produttiva, di attenzione agli aspetti ambientali ed energetici, in grado di incrementare la qualità dei nuovi quartieri[19]. La fragilità di un’edilizia basata prevalentemente sulle quantità realizzate evidenzia i suoi limiti, sia come volano dell’economia, sia come riqualificazione delle aree[20].
La capitolazione del progetto urbano nei confronti delle grandi banche e dei grandi operatori, si è nutrita della cancellazione della memoria storica della città, della qualità dei suoi spazi pubblici, dei servizi sociali, dei beni comuni, generando una crescente lontananza tra i cittadini e gli amministratori[21].
Torino, una città non più fordista nella sua organizzazione del lavoro ha continuato a imporre i processi decisionali tipici della città fabbrica, autoritari e burocratici, consolidando nei ruoli decisionali una ristretta élite dirigente, eterogenea per composizione, ma molto compatta per metodi e obiettivi[22]. Anche la nuova amministrazione, guidata da Piero Fassino, sta continuando con gli stessi metodi della precedente, l’attività di “valorizzazione” immobiliare attraverso la trasformazione di altri 4 milioni di mq di aree industriali. Nonostante il bilancio negativo della passata gestione, i progetti di trasformazione urbana continuano nella totale indifferenza dei saperi espressi dal basso.
È necessario e urgente interrompere questa prassi e aprire un confronto pubblico che coinvolga i cittadini, i comitati, le associazioni, le università, per ripensare la trasformazione urbana. Il riuso della aree dismesse deve basarsi su concetti di sostenibilità, deve cioè tenere conto degli aspetti sociali, culturali e ambientali del territorio come strumenti per la costruzione della città dei cittadini[23].
[1] R. Radicioni, P. G. Lucco Borlera Torino invisibile, Alinea, Firenze 2009.
[2] Venti progetti per il futuro del Lingotto, Etas Libri, Milano 1984.
[3] E. Salzano, Fondamenti di urbanistica. La storia e la norma, Laterza, Roma-Bari 1999.
[4] Quello che non fu mai un vero dibattito democratico sulla scelta di costruire in altezza è rintracciabile in Torino verticale “Atti e Rassegna Tecnica della Società degli Ingegneri e degli Architetti in Torino”, n. 3, dicembre 2010. Cfr. anche il sito web: www.nongrattiamoilcielo.org.
[5] Gli indici di edificazione, tra 0,6 e 0,7 mq di superficie lorda di pavimento (SLP) per mq di superficie territoriale, hanno generato sulle Spine circa 600.000 mq di SLP, ovvero quasi 2 milioni di metri cubi.
[6] Fondazione Vera Nocentini, Torino che cambia. Dalle Ferriere alla Spina 3. Una difficile transizione, Angolo Manzoni, Torino 2009.
[7] E. Boero, La spina 3 di Torino. Trasformazioni e partecipazione: il Comitato Dora Spina Tre, Impremix Edizioni, Torino 2011.
[8] Tra le altre aree industriali i cui progetti sono allo studio o in corso: Lavazza, Alenia, Ghia, Gondrand, Lancia, Isvor Fiat e Officine Grandi Motori.
[9] Emblematico di questo approccio: G. Durbiano, A. Derossi, Torino 1980-2011. La trasformazione e le sue immagini, Allemandi, Torino 2006.
[10] M. Bottero (a cura di), L’eredità di un grande evento, Celid, Torino 2007.
[11] Tra questi si segnalano il restauro della Venaria Reale e la riqualificazione di Villa della Regina, del Museo Egizio, del Museo dell’Automobile, del Museo di Arte e Ammobigliamento della Palazzina di caccia di Stupinigi.
[12] C. Bianchetti, Urbanistica e sfera pubblica, Donzelli, Roma 2008.
[13] G. Faraggiana, In fondo alle vie di Torino, la città e le alpi, Editris, Torino 2005.
[14] Per esempio il quartiere dell’ex Mercato Ortofrutticolo Ingrosso di Pietro Derossi e altri, che riesce a dialogare con il contesto e il Cineporto, ex Lanificio Colongo dello Studio Baietto Battiato Bianco, corretto recupero di un manufatto industriale. C. Ronchetta, M. Trisciuoglio (a cura di), Progettare per il patrimonio industriale, Celid, Torino 2008; L. Gibello (a cura di), ll cineporto della Film Commission Torino Piemonte, Celid, Torino 2009.
[15] Politecnico di Torino, Dipartimento Casa-città, Beni culturali ambientali nella città di Torino, Torino 1984.
[16] G. Montanari, Il più grande sacco dai tempi di Mussolini, in “Carta”, n. 8, ottobre 2007, pp. 18-20.
[17] Il dato è di difficile reperimento qui si fa riferimento sia ai censimenti Istat (2001) sia a fonti di agenzia.
[18] Il dato viene dalla Direzione dell’Azienda Territoriale della Casa di Torino.
[19] S. Crivello, L. Davico (a cura di), Qualità dell’architettura torinese. La parola ai protagonisti, Celid Torino 2007.
[20] Preoccupazioni in tal senso sono state espresse in numerosi convegni e prese di posizione da parte sia di associazioni dei costruttori, sia di sindacati dei lavoratori del comparto edilizio.
[21] Questa difficoltà ha riscontro nei tanti Comitati di cittadini nati a difesa della qualità urbana e trova testimonianze nei convegni di Italia Nostra, di Pronatura, di “Cittàbella” e nei dibattiti organizzati dall’Unione Culturale Franco Antonicelli (2009-2013).
[22] S. Belligni, S. Ravazzi, R. Salerno, L’élite che governa Torino, in “Teoria Politica”, n. 1, Torino 2008. M. Pagliassotti, Chi comanda Torino, Castelvecchi, Roma 2012.
[23] Le riflessioni di questo articolo derivano anche dal confronto con molti colleghi ed amici. Per la loro competenza e disponibilità ringrazio, tra altri: Silvano Belligni, Paolo Berdini, Franco Berlanda, Enrico Bettini, Fiorenzo Ferlaino, Elisabetta Forni, Roberto Gambino, Roberto Gnavi, Pier Giorgio Lucco Borlera, Claudio Malacrino, Fabio Minucci, Manfredo Montagnana, Raffaele Radicioni, Matteo Robiglio, Maria Teresa Roli, Emilio Soave, Maria Teresa Silvestrini, Antonella Visentin.