Perché non basta dire di NO

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di Mario Dogliani

Cara Alessandra,

la tua relazione è certamente ben espressiva dell’impostazione di fondo che il Comitato del NO (quello ci cui facciamo parte) ha dato al suo discorso e alla campagna referendaria.

Non posso però non ribadire – in occasione della sua pubblicazione su Nuvole – che pur essendo fermissimamente contrario al ddl costituzionale Renzi-Boschi, e dunque altrettanto fermissimamente sostenitore del NO al referendum – non condivido il limitarsi a quella impostazione. Vorrei quindi indicare una prospettiva di possibile integrazione, nella convinzione che – risolvendosi la contesa referendaria in uno scontro “secco” tra SI e NO – ampliare lo spettro delle argomentazioni può consentire di intercettare un maggior numero di consensi.

L’impostazione del Comitato del NO consiste – e si esaurisce – nel criticare la riduzione, operata dalla legge di revisione, degli spazi di democrazia e di dissenso che la Costituzione attuale riconosce, senza però nulla dire dello stato in cui la nostra democrazia oggi si trova, e dunque senza offrire alternative – di fronte all’indubbio malfunzionamento delle nostre istituzioni, e alla loro profonda crisi di legittimazione – alle raffazzonate proposte governative e ai belati parlamentari.

Si dà così l’impressione che stiamo vivendo in un paradiso che qualcuno vorrebbe farci perdere, da cui rischiamo di essere cacciati.

E invece le nostre istituzioni sono collassate; e sono collassate alla radice, tanto che è scomparsa dall’orizzonte del credibile l’idea che siamo “rappresentati”, che dunque formiamo un “corpo politico”, e che siamo governati potendo partecipare alla determinazione della politica nazionale, e dunque avvicinandoci per quanto imperfettamente all’ideale dell’autogoverno. E noi costituzionalisti sappiamo bene che la legittimazione delle istituzioni politiche è l’alfa e l’omega della costituzione.

La conoscenza e l’esperienza di questo collasso è comune; ed è ancora diffusa – pur nell’imbarbarimento della cultura politica – la consapevolezza dei rischi che la democrazia corre quando si avvita sui propri conflitti interni (Italia del primo dopoguerra, Weimar …).

Occorre dunque una risposta più articolata all’obbiettiva verticalizzazione e de-socializzazione del potere che il disegno di riforma persegue, e che va giustissimamente criticata.

Il punto è chiaro: l’epicentro della crisi è il Parlamento. E la causa della crisi è – direttamente – quella dei partiti.

La casa brucia. Ma chi accorre a spegnere l’incendio?

Come ha scritto benissimo Francesco Pallante su «Il Piemonte delle autonomie»: “assodato che si è aperto un fossato tra istituzioni e cittadini, occorre capire come lo si possa superare senza caderci dentro. Due strade, principalmente, sembrano confrontarsi: (a) riempire il vuoto con apporti di nuova terra fino a rimettere in piano il terreno o (b) costruire un ponte attraverso cui “saltare” il vuoto corrispondente al fossato.

La prima è la via di chi vede nel Parlamento il punto debole del sistema costituzionale, e nella rivitalizzazione della rappresentanza, a tutti i livelli territoriali, la sfida da cogliere. Il rilancio della sovranità popolare passa, in quest’ottica, per il recupero di forme di cittadinanza attiva, che, se non possono più essere quelle della mediazione partitica tradizionale, implicano comunque strutture organizzate dotate di una qualche stabilità, capaci, per un verso, di “leggere” la società – coglierne gli assetti, interpretarne le istanze profonde – e, per l’altro, di confrontarsi intorno alla definizione di un’idea di vita collettiva che si proponga la trasformazione della società nel suo complesso.

La seconda, al contrario, è la via di chi vede nel Governo il punto debole del sistema costituzionale, e nel rafforzamento della governabilità, a tutti i livelli territoriali, la sfida da cogliere. In questa diversa ottica, il rilancio della sovranità popolare passa per il consolidamento degli strumenti idonei a “mettere in sicurezza” il risultato elettorale, sancendo sempre e comunque, al di là dell’effettiva quota di consenso raccolta, un “vincitore” di cui si assume la capacità di agire (non solo come esponente di parte, ma anche) come rappresentante di tutti.”

Terium non datur.

Se il fuoco si è diffuso così tanto, per cui la seconda via sembra quella vincente (anzi, quella obbligata, nella mente dei più) è anche perché gli intellettuali di sinistra, negli anni – o nei decenni – scorsi, e in quelli attuali, si sono ritirati nello sdegno e nell’indignazione, lasciando scioccamente che la politica si rattrappisse – secondo il suo intimo desiderio – nell’autoreferezialità e dunque nella miserabile rendita che questa consente, desertificando la società.

La revisione ha come baricentro la neutralizzazione e l’umiliazione del Parlamento. Di un Parlamento che è stato ed è il peggior nemico di se stesso.

In pochi abbiamo cercato di salvare la forma parlamentare. Non ci siamo riusciti. Ne è uscito un ibrido che assomma il peggio del maggioritarismo (il dominio del governo su un parlamento impotente) con il peggio del parlamentarismo (lo spappolamento del parlamento stesso). L’equilibrio dovrebbe consistere in una “direzione” del governo su un parlamento forte (e in grado di poterla – in casi gravi, esaurite le possibili mediazioni – rifiutare).

Il nucleo della riflessione che non è stata pubblicamente condotta avrebbe dovuto consistere nel chiarire qual è la profondità della posta in gioco, quali diverse idee di democrazia si fronteggino, e quali giudizi sulla capacità di rinascita dei partiti siano oggi possibili: quali giudizi siano improntati a cinismo e quali improntati ad una, politicamente ragionevole, scommessa.

Il cinismo porta a concepire il potere politico come un potere in realtà pre-politico (economico, mass-mediatico, fondato sulle reti degli arcana imperii) che poi viene “investito” da un voto popolare: un voto che però non modifica quella natura pre-politica, e non vi aggiunge alcuna risorsa specifica fondata sulla partecipazione dei governati. Rispetto alla società politica come intesa dal pensiero democratico, quel potere è e resta un potere extrasociale. I papi saranno tutti stranieri. La loro scelta è solo questione di gusto.

La scommessa democratica porta a concepire il potere politico come un potere rappresentativo “fatto” di visioni del mondo, di interpretazioni di interessi e di forme di vita, di insediamenti sociali costruiti nel tempo, di organizzazione, di mobilitazione … Il potere democratico è un potere fatto con lo stesso materiale della democrazia e delle istituzioni sociali che essa presuppone. Non è l’esito momentaneo di una scelta di gusto e di una delega assoluta.

Forse difendere la forma parlamentare non è più possibile. Chissà se “tornando allo Statuto” ci saremmo evitati i decenni di fango a cavallo di Otto e Novecento, e il fascismo. Ma questa incertezza non dovrebbe impedirci di pensare ad una forma di governo più rigidamente ispirata al principio della divisione dei poteri, e dunque più “accogliente” per il pluralismo politico e per la libertà parlamentare.

Purtroppo non è solo la garanzia del dissenso e la rivendicazione dei diritti che possono fondare una costituzione.

Mario Dogliani