Crisi della politica. Fine di un’epoca storica?
di Marco Brunazzi
L’abbattimento del Muro di Berlino e il susseguente, rapidissimo collasso dei regimi comunisti europei, sino alla disintegrazione della stessa Unione Sovietica due anni dopo, avevano diffuso la speranza in molti che nulla più si frapponesse al dispiegarsi della democrazia nelle forme storiche vissute in Occidente, soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento.
In verità, tale speranza è andata largamente delusa, in particolare in Russia, dove molti pensano appropriato definirne il regime attuale con il temine di democratura.
D’altronde, alcuni (soprattutto coloro che avevano alimentato il dissenso nei confronti dei rispettivi regimi burocratico-polizieschi) avevano anche sperato che proprio in quei paesi si riuscisse almeno a creare una democrazia non solo improntata ai classici principi della tradizione liberale, ma anche in qualche modo in grado di recuperare quel tanto di anelito sociale e di partecipazione popolare che in precedenza era stato conclamato ma largamente disatteso dalle nomenklatureegemoni.
Soprattutto nella vituperata DDR, la Germania comunista, considerata da molti in Occidente sino allora (e non senza ragioni) come una mera finzione artificiale, una protesi del potere politico-militare sovietico nella vecchia Zona d’occupazione post-bellica, si erano manifestate voci in tal senso, peraltro presto accantonate e sommerse dall’euforica riunificazione con il suo miracolistico cambio del marco Est-Ovest uno a uno.
Eppure, se il fenomeno della Ostalgie è oggi un soggetto letterario e cinematografico di successo non soltanto in Germania non è tanto perché si rimpiangono i tempi in cui si era giovani. Neiges d’antan e cetrioli in scatola evocati dal film Good bye Lenin sono gradevoli suggestioni, autoironici esercizi di Sehnsucht, ma non possono celare il fatto che a distanza di vent’anni i rimpianti continuino a gratificare il partito post-comunista nei Laender orientali di robusti consensi elettorali. Forse le speranze deluse dei dissidenti avevano anche qualche ragionevole base. Forse era possibile immaginare una democrazia più completa e convinta di quell’unica ora disponibile.
Forse, a uno sguardo più obiettivo, occorre prendere atto che il problema di un livello insoddisfacente di democrazia non riguarda soltanto i paesi ex-comunisti dell’Europa Orientale, ma ormai anche quelli occidentali.
Che la politica, quale è risultata storicamente in Occidente nelle forme della democrazia rappresentativa e costituzionale, sia oggi in crisi è infatti una constatazione banale.
Cresce ovunque l’astensionismo elettorale; i partiti e gli schieramenti in campo appaiono sempre meno distinguibili, sia dal punto di vista degli ideali di riferimento che ancor più delle concrete proposte programmatiche; il confronto è sempre più personalizzato tra candidati che puntano essenzialmente sulle doti di fascino e di carisma personali; la politica è nell’insieme sempre più spettacolarizzata, asservita alla logica di un’informazione che divora le notizie e le dimentica di giorno in giorno; gli stessi risultati elettorali, lungi dallo stabilire un punto fermo, dal giorno dopo sono continuamente rimessi in discussione da sondaggi di opinione, che generano aspettative e timori i quali, a loro volta, condizionano le scelte della politica quotidiana più dello stesso voto.
D’altra parte, le stesse istituzioni fondamentali della democrazia rappresentativa, innanzitutto i Parlamenti, ma anche i Governi, sono sempre meno in grado di prendere decisioni realmente significative, scavalcati costantemente da scelte che li trascendono a livello di organismi sovranazionali e di economia globalizzata.
Non stupisce che in una situazione del genere crescano ovunque partiti e movimenti populisti: la loro marginalità radicale li rende a un tempo visibili e appetibili per un elettorato sempre più confuso e impaurito dall’evidente inadeguatezza del sistema politico democratico.
Crisi economica e finanziaria, crisi ambientale, crisi securitaria (reale e psicologica) indotta dai terrorismi reali e massmediatici, crisi da incapacità di integrazione dei massicci flussi migratori in atto sono altrettante micce accese per riattizzare i vecchi (?) fantasmi del razzismo e dei separatismi nazionalistici -etnicistici.
Ma questa crisi della politica, fin qui molto sommariamente richiamata, sta già rivelando una conseguenza ancora più profonda: l’eclissi di un’epoca cominciata quasi tre secoli fa con le grandi rivoluzioni liberali (inglese, americana, francese) proseguita nel Novecento con le grandi rivoluzioni sociali (russa, cinese, e di tante altre intrecciate con la crisi del colonialismo).
Queste rivoluzioni non hanno operato solo sul piano politico: esse hanno portato a compimento istituzionale le rivoluzioni intervenute o in atto a livello economico, sociale, giuridico e culturale.
Lo Stato moderno in quanto Stato di diritto, fondato sul prioritario principio della sovranità della legge e quindi sull’eguaglianza dei cittadini di fronte a essa, era stata la forma giuridico-politica che aveva sancito una nuova ed esclusiva appartenenza identitaria: quella della cittadinanza.
Le appartenenze pre-moderne riferite alle identità familiari, corporative, nazionali, religiose furono declassate a identità private ovvero secondarie a livello pubblico.
Infatti, la rigorosa perimetrazione degli spazi pubblici rispetto a quelli privati stabiliva inequivocabili gerarchie: si era quel che si era, cioè cittadini, in quanto aderenti a quel patto di cittadinanza che le costituzioni formali solennemente statuivano.
Non per nulla, la pretesa di mantenere ambiti di sovranità diversa, come quella della Chiesa, fu oggetto di una lunga e strenua lotta da parte del potere statuale che ben comprendeva la non negoziabilità di tale pretesa, pena il regredire in forme pre-moderne di sovranità multiple e concorrenti. Ma, conseguentemente, anche la pretesa di porre la propria particolare identità personale e collettiva insieme (religiosa, etnica, sociale, ecc.) come prioritaria rispetto alla legge universalmente egualitaria non poteva che essere respinta. Queste identità di secondo livello, insomma, potevano bensì essere riconosciute e persino tutelate, ma in quanto non contrastanti con la normativa costituzionale e di legge e comunque a essa subordinate e mai concorrenti o, peggio, alternative.
D’altra parte, la modalità con la quale il cittadino poteva affermare una sua identità prioritaria compatibile con l’assetto costituzionale era proprio l’impegno politico, realizzato, da una certa epoca in poi, nelle forme del moderno partito politico.
Era infatti in quelle sede e forma che il cittadino realizzava la sua dimensione collettiva.
Il partito prefigurava, come in un microcosmo, il modello di società auspicato che si sarebbe voluto estendere all’intero corpo sociale entro il quale si sarebbe eventualmente inserito sino a sostituirlo, ma nella stessa cornice concettuale.
D’altronde, la stessa utopia anarchica, non diversamente dalla pur antagonista visione marxista di fine dello Stato, ipotizzavano la scomparsa di una forma storica di organizzazione sociale, chiamata Stato, a vantaggio di un’altra più evoluta e liberatoria, innanzitutto per ogni singolo cittadino, messo in condizione di esprimere e realizzare al meglio la propria personalità, comunque senza i vincoli di legami prioritari comunque ascrivibili.
Insomma, la politica dell’età moderna non era soltanto la forma di organizzazione del potere sociale, ma anche la forma di realizzazione dell’identità primaria della cittadinanza, e questo anche per le dottrine dichiaratamente rivoluzionarie e radicalmente critiche del pensiero liberale.
Ho usato al passato questa descrizione perché a me sembra che sia oggi in atto ovunque in Occidente una fortissima tendenza ad abbandonare il carattere, per così di dire, di sovranità laica dello Stato a favore nuovamente di concorrenti e alternative sovranità.
La crisi dello Stato-nazione è da tempo sotto i nostri occhi e le cause di tale crisi (globalizzazione economica, estensione di normative sovrannazionali, ecc.) sono già state richiamate.
Ma questa crisi di autorità dello Stato-nazione non si manifesta soltanto nei rapporti internazionali (politici, economici, giuridici, ecc.), ma anche nei rapporti interni.
E’ come se stesse venendo meno la convinzione della legittimità stessa della propria autorità, almeno nei termini ereditati dalla tradizione secolare della modernità.
Il collasso dei regimi comunisti in Europa Orientale ne sono stati un esempio vistoso: in quel caso non era venuta meno la forza legale e materiale di reprimere il dissenso, ma la convinzione della sua praticabilità in quanto sentita come legittima.
Qualcosa del genere sembra oggi accadere nelle democrazie occidentali, impotenti a governare le decisioni economiche e sociali che pure investono il loro territorio e inclini a dare spazi alle pretese comunitaristiche variamente motivate, che si accampano in molteplici forme.
In altri termini, viene meno il fondamento della neutralità laica dello Stato e lo si sostituisce con le microsovranità di fatto, religiose, linguistiche, economiche, territoriali.
In questo senso, la recente sentenza della Suprema Corte Federale Tedesca che ribadisce l’intangibilità della Costituzione, il Grudgesetz, la Legge fondamentale, di fronte a possibili ulteriori cessioni di sovranità a vantaggio delle istituzioni europee, è apprezzabile nelle intenzioni (per questa via potrebbero infatti passare manomissioni più o meno esplicite dei principi fondamentali vigenti), ma inadeguata nelle sue dimensioni, appunto, meramente e pateticamente nazionali.
D’altronde, l’incapacità dell’Unione Europea di dotarsi, per esempio, di politiche coerenti e unitarie di integrazione dei migranti appare evidente. Da una parte vi sono paesi (Gran Bretagna, Olanda, ecc.) dove queste scelte di riduzione minimalista (antilaica) del ruolo dello Stato sono ormai evidenti. In Canada, addirittura lo Stato federale dell’Ontario aveva deciso di consentire che la Sharia islamica sostituisse la legge civile in materia di diritto di famiglia per i cittadini musulmani che lo richiedessero. In verità, soltanto la Francia di orgogliosa tradizione laica e di cultura nazionalgiacobina, forte sia a destra che a sinistra, ha sinora tentato, a fatica, di tenere fermo il ruolo della sovranità laica dello Stato. Questo peraltro, in carenza di una efficace politica di integrazione economica, sociale e soprattutto culturale, non la salva dagli incendi ricorrenti delle sue turbolente banlieux, né dall’evidente disaffezione identitaria delle seconde e terze generazioni dei suoi immigrati. In Italia, dove, almeno dai Patti Lateranensi in poi, la sovranità dello Stato è dimidiata a vantaggio della Chiesa – e, anzi, addirittura costituzionalizzata dall’art. 7 – la tendenza a concordatizzare legalmente o di prassi i rapporti con tutte le altre e diverse confessioni religiose presenti è da tempo in atto.
Se si cita innanzitutto il cedimento del principio di laicità sul fronte religioso non è per inveterato anticlericalismo, ma perché questo è il terreno dove le tendenze denunciate di generale arretramento dello Stato verso arcaiche forme pre-moderne di convivenza civile sono più evidenti.
In conclusione, sembra che la lunga, plurisecolare stagione cominciata con l’Illuminismo e le sue applicazioni sul piano politico e istituzionale stia entrando in una crisi di cui non si vede lo sbocco, se non nella restaurazione di forme neofeudali di sovranità concorrenti e soprattutto di regressione dei diritti individuali nelle camicie di forza delle appartenenze originarie, che i comunitarismi e i fondamentalismi attuali aggressivamente ripropongono.
Marco Brunazzi insegna storia contemporanea all’Università di Bergamo ed è Direttore dell’Istituto G. Salvemini di Torino