Aspetti istituzionali, giuridici ed economici di una nuova centralità del settore pubblico
di Ugo Mattei
Chi si avvicini al problema dell’economia mista, anche in un’ottica di federalismo, deve incassare alcuni risultati quantomeno culturali della grande crisi economica nell’ambito della quale ci stiamo muovendo. Dopo 15 anni di travolgente mainstream intellettuale in cui era impossibile avanzare qualunque dissenso alla retorica della “fine della storia”, dopo che l’ideologia del “turbo-capitalismo”, si è schiantata contro le proprie contraddizioni e ha dovuto dichiarare apertamente bancarotta, sarebbe ora che si mettessero sul tavolo e discutessero ipotesi alternative, siano esse solidaristiche, comunitarie, socialdemocratiche o di ri-pubblicizzazione dell’economia.
Un’ipotesi ottimistica di uscita dalla crisi circa la sintesi virtuosa, che potrebbe generarsi dai due crolli (del 1989 e del 2009), richiede in ogni caso una riflessione consapevole su alcune priorità istituzionali. Per quanto concerne il nostro paese, in questo scritto mi occuperò essenzialmente degli assetti giuridico-istituzionali a mio avviso necessari per rifondare un’economia mista congruente con il nostro fraseggio costituzionale.
1. Presupposti strutturali
L’attuale crisi ha evidenziato alcuni punti: in società complesse tutti i sistemi politico-sociali sono necessariamente misti presentando tratti di pubblico e di privato. La fede nella primazia non mediata del settore pubblico ha comportato il crollo del sistema sovietico. Quella nel settore privato (deregolamentazione, privatizzazione, finanziarizzazione, mercatismo ecc.) ha travolto il modello neo-liberista. La lezione che se ne può trarre per l’elaborazione di un “buon sistema” è che il rapporto fra pubblico e privato deve essere ben temperato ed equilibrato.
Una seconda contrapposizione radicale fra modello sovietico e modello neo-liberista sta nella dimensione del tempo. Il primo modello rinviava sine die la realizzazione del comunismo e la conseguente sparizione dello Stato e del diritto. Esso trascurava il presente, operando di conseguenza una pianificazione del tutto astratta. Per contro, il capitalismo globalizzato è gravemente ammalato di quello che con orribile neologismo viene denominato “shortermismo”. I cicli politici sono determinati da continui sondaggi e prove di gradimento e la corporation ragiona con scadenze trimestrali. La trionfante logica del qui e adesso, oltre a delegittimare qualsiasi pianificazione (libera competizione, innovazione ed efficienza adattiva sono “i valori” che condannano la pianificazione) provoca evidenti fenomeni di miopia.
Poderosamente sostenuti sul piano ideologico, questi estremi si sono moltiplicati come cellule cancerogene portando al collasso le rispettive economie. Il settore privato e le legittime preoccupazioni per il benessere sociale immediato, sono stati travolti nel sistema sovietico. Nel turbo-capitalismo il settore pubblico e qualunque preoccupazione di medio lungo-periodo hanno ceduto all’invasività del privato e alla logica del profitto e dello scambio di mercato immediato.
2. Rifondare il settore pubblico
Se questa semplificazione è almeno in parte corretta, riceviamo una prima indicazione sulle priorità istituzionali intorno alle quali bisogna lavorare per elaborare un modello istituzionale nuovo. Il settore privato infatti nel ventennio della fine della storia ha prosperato sulla produzione di esternalità negative scaricando i costi sociali del modello di sviluppo soprattutto sull’ambiente e sui lavoratori. Il settore pubblico, quando non direttamente saccheggiato attraverso privatizzazioni-svendita, ha dovuto farsi carico dei costi sociali prodotti dal turbo-capitalismo assorbendo a sua volta notevoli esternalità negative prodotte da quel modello di sviluppo. Il pubblico è emerso da questo ventennio non soltanto dissanguato e diffamato, ma anche indebolito al punto da non potersi più far carico di settori cruciali per la sua legittimazione quali sicurezza, giustizia e naturalmente welfare.
Anziché insistere su liberalizzazioni che troppo spesso non sono che ulteriori privatizzazioni (di servizi) camuffate, oggi è prioritario rifondare il “grande sofferente” del ventennio trascorso il quale non può reggere a lungo a ulteriori salassi: occorre perciò prioritariamente ricostruire anche culturalmente un settore pubblico autorevole e forte, capace di dialettica autentica con il settore privato (evitando di esserne corrotto), in cui prevalga la logica del pubblico interesse e del pubblico servizio. Questa è precondizione essenziale per riallineare costo privato e costo sociale dell’attività privata d’impresa garantendo, fra l’altro, efficace tutela pubblica dei lavoratori (pubblici e privati) e dell’ambiente in una logica di sostenibilità di medio-lungo periodo.
Il settore pubblico che bisogna rifondare deve essere attivo, efficiente e diretto nella sua azione. Esso deve essere indipendente e soprattutto guidato da una pianificazione strategica per implementare le decisioni politiche, introducendo una logica progettuale e istituzionale sottratta all’arbitrio dell’uomo forte (o della maggioranza del momento), recuperando così una prospettiva istituzionale di medio-lungo periodo, valutata anche sulla base del suo impatto sulla qualità della vita qui e adesso. Si tratta di un compito di ristrutturazione del capitale sociale pubblico che deve passare attraverso un grande sforzo di studio e di insegnamento perché soltanto valorizzando e motivando i lavoratori del settore pubblico è possibile recuperarne efficienza e produttività: togliere competenze alla PA tramite ulteriori privatizzazioni costituisce una scorciatoia a questo punto suicida. L’amministrazione pubblica deve tornare in grado di garantire la qualità dei progetti di pubblico interesse che la politica intende avviare e farsi garante che questi possano continuare senza sprechi anche quando cambia il vento politico. Solo tramite il recupero di una visione strategica volta al perseguimento del bene comune si può superare la logica per cui fare le riforme significa semplicemente disfare quanto fatto dal governo precedente.
3. Porre al centro i servizi pubblici
Siamo soliti descrivere le economie più avanzate come economie di servizi. Il “saper fare” è l’aspetto più importante nella produzione di servizi, e si fonda soprattutto sulla relazione collaborativa fra quanti sono coinvolti nella loro produzione.
Beni e servizi possono essere in proprietà tanto pubblica quanto privata. Non esiste alcuna ragione di principio per cui il settore privato sia un miglior produttore di servizi rispetto a quello pubblico. Anzi, poiché la produzione di servizi di qualità è un’esperienza relazionale, non è per nulla scontato che il modello gerarchico aziendalista e quello competitivo tipico delle relazioni di mercato fondate sulla ricerca del profitto siano i più adatti alla produzione di servizi di qualità. Sta a noi dimostrare che un governo democratico dell’economia, fondato sulla valorizzazione di relazioni cooperative, è meglio attrezzato al fine della produzione di servizi di qualità.
Nel ventennio della fine della storia (1989-2009) una potente retorica ha scaricato sul solo settore pubblico il costo del malcontento generalizzato derivante dal declino della qualità della vita prodotto dalla mercificazione di massa e dalla ricerca spasmodica della crescita quantitativa del profitto (i servizi offerti in outsourcing simboleggiano il declino della qualità). Come osservato da Kenneth Galbraith già cinquant’anni fa, nelle società affluenti la domanda non è spontanea (come lo era quella di vestiti, cibo e ricovero ai tempi di Smith e di Ricardo), ma va indotta attraverso forme insistenti di pubblicità. Tuttavia la pubblicità sostiene il solo settore privato che vi investe massicciamente e intensifica la pressione sul settore pubblico per il quale la pubblicità non sostiene la domanda (la pubblicità del settore pubblico ha la pessima nomea di “propaganda”). In altri termini, mentre si bombarda l’etere cercando di convincere i consumatori ad acquistare una nuova automobile, non si menziona che la vendita di più automobili comporta più traffico e che ciò produce un costo sociale (in termini di ambiente e di tempo sprecato) di cui il settore privato che vende automobili non si farà carico. Anche quanti non posseggono un’automobile dovranno spendere per costruire strade più ampie o parcheggi pubblici sicché ancora una volta il settore pubblico sovvenziona quello privato. Tuttavia la circolazione intasata o la mancanza di parcheggi sono “imputati” al settore pubblico perché questi nessi non vengono esplorati.
La responsabilizzazione del settore pubblico di un degrado della qualità della vita in realtà prodotto dal modello di sviluppo quantitativo determinato dalla produzione privata di beni spesso inutili, (bisogna investire miliardi per stimolare la domanda di automobili, mentre non occorre spendere un centesimo per creare il bisogno di cibo per l’affamato o di rifugio per il senza tetto) è stata certamente un’operazione ideologica fin qui vincente ma costosissima sul piano economico e culturale. Quasi ovunque la figura dell’operatore pubblico, il civil servant, è stata delegittimata e ridicolizzata. Nei paesi meno ricchi gli stipendi molto bassi e la mediocre preparazione del personale delle amministrazioni hanno facilitato fenomeni corruttivi. La risposta imposta da Banca Mondiale e Fondo Monetario, lungi dall’essere quella ragionevole di rafforzare il settore pubblico restituendogli prestigio, capacità operativa e indipendenza è stata di segno opposto: l’“aggiustamento strutturale” ha imposto smantellamenti, tagli, ulteriori riduzione di personale. Questo stesso modello, tipico delle cosiddette “riforme a costo zero”, ha caratterizzato quasi tutti gli Stati, compresa l’Italia e perfino la Gran Bretagna, patria del civil service.
4. Un settore pubblico che torni a fare
Non è difficile per chi osservi le istituzioni pubbliche coglierne le metamorfosi che nell’ultimo ventennio hanno assecondato l’ideologia dominante. Il diritto pubblico si è progressivamente trasformato da un insieme di regole che disciplinano l’attività amministrativa diretta (volta al fare), a un aggregato di istituzioni di tipo “reattivo” volte a monitorare il rispetto di regole del gioco di natura privatistica in cui i servizi pubblici vengono per lo più offerti da privati (amministrazione volta al far fare).
Questo fenomeno non è solo italiano. Da noi come altrove, si osserva un progressivo trasferimento del potere a vantaggio di istituzioni “reattive”, in quanto tali non idonee alla ridistribuzione politica della rendita ma al contrario garanti di questa (e del profitto). Corte Europea, panel del WTO e soprattutto le varie Authorities nazionali, che a partire dalle leggi 287/1990 (tutela della concorrenza e del mercato) e 481/1995 (norme per la concorrenza e la regolazione di servizi di pubblica utilità), scardinano definitivamente la struttura dello Stato attore economico (quindi attivo e ridistributivo) trasformandolo in un mero soggetto regolamentatore, limitato negli strumenti a disposizione per incidere sulla vita economica del paese.
Drammatica conseguenza di questa scelta, in misura notevole eterodiretta ma certo condivisa da gran parte della nostra pubblicistica dominante, è che il settore pubblico smette di “fare” e quindi di “saper fare” e si limita a controllare i modi e le forme con cui il privato “fa” e “sa fare”. Per esempio l’Anas aggiustava le strade utilizzando i suoi stradini. Oggi gestisce appalti e paga i privati affinché facciano quel lavoro. Ma i privati sono motivati dal profitto, tendono a ridurre all’osso gli investimenti e a risparmiare sulla qualità. Al di la dell’efficienza comparata del risultato (mi sembra che i tempi delle riparazioni siano oggi eterni!) ci sono altre ragioni per cui questo modello di amministrazione che regolamenta invece di fare è ben poco desiderabile. Innanzitutto gli stradini erano pubblici dipendenti in grado, pur con sacrifici, di garantire a se stessi e alla propria famiglia un’“esistenza libera e dignitosa”. Ciò era, dal punto di vista dello Stato, un investimento di medio periodo sul capitale sociale perché alcuni figli di stradini avrebbero potuto studiare… Oggi gli stradini sono per lo più lavoratori migranti sfruttati, privi di garanzie e di stabilità. Essi rendono molto al settore privato che li impegna, ma nulla all’accumulo di capitale sociale così importante nella società dei servizi e della conoscenza. In secondo luogo, la Pubblica amministrazione a forza di “regolamentare” e “far fare” ha completamente disimparato a “fare”. Ne segue che il modello di diritto amministrativo fondato sul mito dello Stato regolatore in realtà rende il settore pubblico completamente dipendente da quello privato e incapace di sovvertirne le logiche distributive che strutturalmente favoriscono i più forti. Quando l’amministrazione statunitense stanzia centinaia di miliardi di dollari pubblici per uscire dalla crisi, non solo deve necessariamente darli al settore privato (il solo che resta), ma per farlo utilizza quelle stesse banche d’affari e quegli stessi studi legali che sono stati in gran parte corresponsabili della crisi. Non esiste più alcuna struttura federale in grado di operare direttamente, perché tali strutture sono state per oltre vent’anni smantellate o sottofinanziate (due esempi: EPA, l’agenzia per l’Ambiente e la SEC, la loro Consob).
In altre parole, non esiste possibilità di una politica pubblica senza la ristrutturazione immediata della amministrazione. Non è sufficiente che lo Stato inietti denaro nel sistema economico. Occorre che la maggior parte di questo denaro sia utilizzato per ricreare un’infrastruttura pubblica capace di spenderlo nell’interesse di tutti.
5. Il miglior livello di amministrazione. Questioni di Federalismo
Se vogliamo un settore pubblico capace di competere in qualità con quello privato dobbiamo affrontare una serie di questioni preliminari. Per fare ciò occorre innanzitutto comparare il settore pubblico con quello privato in modo omogeneo. Nel ventennio della fine della storia, le virtù del privato sono state date per scontate insieme alle patologie del pubblico. Nel modello sovietico, al contrario, si sono assunte le virtù del pubblico, dando per strutturali le patologie del privato. Un’onesta fenomenologia comparata deve viceversa confrontare il pubblico virtuoso col privato virtuoso e il pubblico patologico col privato patologico. La ricerca del modello misto deve partire da qui.
Sul piano teorico-strutturale, la sola cosa che si può dire è che il “profitto privato” costituisce la motivazione del settore privato (sia esso virtuoso o patologico), mentre meno chiara è la motivazione all’agire del settore pubblico, dove convivono, già a livello motivazionale, virtù e patologia. Parlare di “profitto pubblico” è un’aberrazione che non coglie la differenza qualitativa fra pubblico e privato anche se l’utilizzo di strutture privatistiche tipo SpA a maggioranza azionaria pubblica fa penetrare quest’idea (patologica) nel sistema.
In realtà il pubblico virtuoso deve perseguire l’“interesse pubblico” sotto forma di sostenibilità economica del servizio accompagnata alla distribuzione dei benefici a tutti coloro che contribuendo alla fiscalità generale ne sono i proprietari, nonché a coloro che a qualche titolo riconosciuto ne abbiano diritto. Questo è un passaggio teorico di grande importanza perché l’esclusione del profitto privato inserisce un delta a favore del pubblico nella gestione di qualsiasi attività economica sotto forma del quantum di profitto che, invece di essere assorbito dal capitale privato, viene ridistribuito fra tutti i consociati. La presenza di questo delta dovrebbe inserire una presunzione a favore del pubblico per ogni attività economica di pubblico interesse (includendo in quest’ambito la piena occupazione) invertendo dunque il modo di pensare tipico della fine della storia. Non tanto quindi pubblico soltanto laddove il privato fallisce, ma, al contrario, privato soltanto laddove il pubblico fallisce. Per esempio, la salvaguardia occupazionale di una realtà quale Termini Imerese dovrebbe passare attraverso l’allestimento di impresa pubblica volta a operare in settori virtuosi dal punto di vista della sostenibilità ecologica generale (per esempio produzione di sistemi integrati di trasporto pubblico su rotaia, operazioni di assemblaggio che, se svolte localmente, comportano risparmi soprattutto ecologici nel trasporto): nuovi trasferimenti di denaro pubblico a operatori privati (per giunta nell’ambito di settori obsoleti e da dismettere quale l’automobile) appaiono paradossali. Si tratta del frutto di un modello culturale che assume un ruolo meramente sussidiario del pubblico, quando invero sussidiario (ai sensi anche degli artt. 41, 42 e 43 della Costituzione) dovrebbe essere quello del privato, invertendo l’onere della prova.
Diverse sono le motivazioni del pubblico patologico. Negli anni della “fine della storia” si è imposta la teoria delle “scelte pubbliche” legata al nome del Nobel ultraconservatore James Buchanan, teoria che ha presentato una patologia come virtù, con esiti anche culturali davvero dirompenti. È noto che Buchanan ha indicato nella massimizzazione delle possibilità di essere rieletti la principale motivazione dei politici, contribuendo alla “morte dell’ideologia”: uno degli aspetti paradossalmente più ideologici della fine della storia. L’imporsi di questa finta non-ideologia comporta conseguenze sconcertanti. Per esempio, mentre un tempo dire a un politico: “Vuoi solo essere rieletto!” conteneva una nota di biasimo, oggi il pensiero dominante giustifica i continui tradimenti delle promesse di cambiamento, considerandoli passi necessari per la rielezione in un contesto dominato dalle corporation. Mi pare emerga così la patologia di un modello misto fondato sul “contagio” politico e culturale fra il modello pubblico e il modello privato, in cui quest’ultimo apporta le sue motivazioni individualistiche, mentre il primo conferisce l’assicurazione contro il rischio d’impresa (il c.d. too big to fail).
Fatte queste necessarie premesse, mi pare che l’esperienza recente possa offrire, in una pluralità di contesti, alcuni importanti dati costituenti poco più che una banalità che ciascuno sperimenta nella vita quotidiana. Esiste un rapporto inverso fra dimensione di un’istituzione (misurata per esempio dalla quantità del suo output, o da dati quantitativi circa la sua organizzazione interna) e la qualità del suo output. Grandi istituzioni, pubbliche o private che siano, tendono a risultati qualitativamente peggiori rispetto a piccole istituzioni.
Questo dato dovrebbe spingere alla ricerca di una dimensione ottimale nella produzione di servizi di pubblico interesse, una ricerca particolarmente importante perché pone il dilemma quantità-qualità al centro della nostra riflessione sulle differenze strutturali fra settore privato e pubblico. Infatti, il settore privato, stando alle analisi tradizionali sulle motivazioni (profit motive) tende a crescere, per aumentare i profitti. Il settore pubblico viceversa presenta limiti di crescita strutturalmente collegati alla sua giurisdizione (una dimensione giuridica e non economica). In altre parole, mentre nel primo caso la fisiologia vuole una crescita quantitativa (tendenzialmente infinita) accompagnata da un declino qualitativo a sua volta tendenzialmente infinito, nel secondo caso i limiti giurisdizionali possono essere tracciati e modificati al fine di governare il rapporto quantità/qualità. È cioè possibile ripartire da un organizzazione del pubblico che punti alla dimensione ideale valutata dal punto di vista della qualità dell’output. Naturalmente, una tale scelta lungi dall’essere meramente tecnica (come presentata da un ricco filone di analisi economico-giuridica sull’ottima dimensione del decision-making) costituisce una decisione squisitamente politica che deve tener conto del rapporto di forza fra settore pubblico e settore privato. In altre parole, il settore pubblico deve essere articolato in modo tale da essere sufficientemente forte da controllare il settore privato, invertendo la rotta rispetto al modello della fine della storia in cui il privato non solo contamina il pubblico nelle motivazioni ma lo domina dal punto di vista dei rapporti di potere.
È in questo ambito che sono da valutarsi le diverse ipotesi di federalismo più o meno accentuato rese possibili ancorché in modo un po’ farraginoso dalla riforma dell’art. 117 della Costituzione italiana. La valorizzazione del comune, conferendogli potestà fiscale autonoma soprattutto in riferimento al governo del territorio (del tutto regionalizzato nel 117), è in linea di principio desiderabile perché l’azione politica, più vicina ai cittadini, può essere maggiormente oggetto di valutazione qualitativa. La fiscalità comunale potrebbe retribuire adeguatamente funzionari locali capaci e meritevoli, innescando così un circolo virtuoso dal punto di vista del capitale sociale. D’altra parte, i comuni, per dimensioni, tendono a essere deboli nei confronti di interessi privati anche di dimensioni relativamente modeste, il che comporta la necessità di rafforzare il livello politico-istituzionale sovraordinato. Amministrazioni regionali e soprattutto statali vanno a loro volta ri-armate a supporto dell’azione politica comunale e a difesa di quegli interessi “sovrani” la cui tutela è bisognosa di rafforzamento in quanto particolarmente appetibili per il grande capitale in virtù delle potenzialità di profitto monopolistico. Di recente per esempio la proposta di “federalismo demaniale” dimostra come sovente decentralizzazione e federalismo non costituiscano altro che foglie di fico per programmi di saccheggio da parte di politici contaminati dalle esigenze di crescita quantitativa del capitale globale.
6. Il patrimonio pubblico
Grazie ad un libro fondamentale e coraggioso del Rettore della Scuola Normale di Pisa (Salvatore Settis, Italia SPA ) i rischi di tale politica sono stati messi all’ordine del giorno. Si è avviata così una fase di riforme del regime dei beni culturali che hanno ricevuto in poco tempo attenzione bipartisan in forma di un “Codice” (e quindi legislativa): ma il patrimonio pubblico non è affatto limitato ai beni culturali (che pure ne sono una componente tutt’altro che trascurabile) e la sua buona gestione e garanzia costituisce una delle più importanti trasformazioni strutturali necessarie per portare la nostra organizzazione sociale in sintonia con la visione della Repubblica italiana contenuta nella Costituzione. Fra i beni pubblici infatti ci sono le principali infrastrutture del paese, dalle autostrade alle ferrovie ai porti agli aeroporti, ospedali, tribunali, scuole, asili, prigioni, cimiteri ma anche foreste, parchi, acque, frequenze radiotelevisive e telefoniche, proprietà intellettuale pubblica, crediti fiscali…. Il censimento di tali ricchezze è iniziato con il “Conto patrimoniale della Pubblica amministrazione” e per gran parte degli immobili è stato di recente completato dall’Agenzia del Demanio. Sappiamo adesso che il valore di questo patrimonio pubblico italiano è ingentissimo, il più alto in Europa, ed è quindi chiaro che la buona gestione di questa ricchezza, secondo principi giuridici ed economici generalmente condivisi, possa dare benefici estremamente significativi (non solo economici) alla collettività che, ai sensi della nostra Costituzione, ne è proprietaria. Non possiamo dimenticare infatti che la collettività non è composta soltanto da proprietari privati, ma anche da nullatenenti la cui unica proprietà è pro quota quella pubblica. Discutere di come utilizzare la proprietà pubblica è perciò questione fondamentale in democrazia e il luogo in cui ciò deve avvenire è il Parlamento perché il Ministero dell’Economia, a tacer d’altro, è oberato dalle esigenze di far cassa sul breve periodo.
Del tema del regime giuridico della proprietà pubblicae della riforma delle parti del Codice Civile che lo riguardano è stata investita una Commissione guidata Stefano Rodotà uno dei più prestigiosi studiosi internazionali della proprietà. La commissione ha completato i suoi lavori nel febbraio 2009 a governo dimissionario e parlamento sciolto. La proposta di legge delega da essa prodotta si trova ormai da oltre un anno nel cassetto del guardasigilli Angelino Alfano cui spetterebbe il compito istituzionale di portarla in Parlamento per la discussione. Nel frattempo, il consiglio regionale della Regione Piemonte ha fatto proprio all’unanimità, nell’ottobre 2009, il testo della proposta di legge esercitando, per la prima volta nella nostra storia costituzionale, il potere di iniziativa regionale previsto dalla riforma Costituzionale del 2001 e investendone direttamente il Senato.
Fra le più significative innovazioni che il parlamento dovrà discutere, c’è l’introduzione della nozione di beni comuni, che l’ordinamento deve tutelare e salvaguardare anche a beneficio delle generazioni future. Secondo la Commissione Rodotà i beni comuni di proprietà pubblica dovrebbero essere gestiti da soggetti pubblici ed essere collocati fuori commercio proprio al fine di evitarne la privatizzazione o lo sfruttamento privato a solo scopo di lucro. Sono beni comuni, tra gli altri: i fiumi i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate. La Commissione ha inoltre previsto altre categorie di beni pubblici, alcuni dei quali “che soddisfano interessi generali fondamentali, la cui cura discende dalle prerogative dello Stato e degli enti pubblici territoriali” sono ad appartenenza pubblica necessaria e quindi a loro volta non privatizzabili. Vi rientrano fra gli altri: le opere destinate alla difesa; le spiagge e le rade; la reti stradali, autostradali e ferroviarie; lo spettro delle frequenze; gli acquedotti; i porti e gli aeroporti di rilevanza nazionale ed internazionale. Altri beni sono pubblici non in quanto collegati alla sovranità dello Stato ma in quanto legati alle esigenze organizzative dello Stato sociale previsto dalla Costituzione. “Sono beni pubblici socialiquelli le cui utilità essenziali sono destinate a soddisfare bisogni corrispondenti ai diritti civili e sociali della persona”.
Seguendo tale impostazione, risulta evidente che, quale che possa essere l’attribuzione di poteri nell’ambito di un più accentuato federalismo – fiscale e istituzionale – non vi sarebbe compreso quello di trasferire dal pubblico al privato alcuno di quei beni definiti “comuni” o “pubblici”.