Dalla dissoluzione dell’Urss alla Russia di Putin
di Roberto Sinigaglia
Questo articolo si pone l’obiettivo di descrivere, seppure in maniera sintetica, la successione degli avvenimenti che condussero alla piena manifestazione degli elementi di crisi presenti nell’Unione Sovietica sino alla sua dissoluzione.
Un’opinione assai diffusa è che queste vicende, che rappresentano a mio avviso il maggior cataclisma della storia mondiale nella seconda metà del secolo scorso, siano ormai di scarso interesse soprattutto per le giovani generazioni. Sono invece persuaso che il presente, dominato da una grave instabilità del quadro internazionale e da una crisi finanziaria di cui dobbiamo ancora conoscere e temere gli esiti, trovino, in questo grande avvenimento, le loro scaturigini.
1. Ascesa e caduta di Michail Gorbačëv
Quando Michail Gorbačëv assunse la carica di segretario generale del Pcus (11 marzo 1985), l’Urss versava già in una grave crisi. Come storici, possiamo tranquillamente affermare che questa era iniziata molti anni prima, con la destituzione di Chruščëv nel 1964.Per legittimare il suo potere e per allentare la morsa nei confronti della popolazione, stremata da anni di privazioni legate alle tremende vicissitudini dei piani quinquennali e a una guerra devastante, Chruščëv aveva ridimensionato l’ipertrofia repressiva staliniana attenuando la censura politica il che gli ingraziò momentaneamente il mondo della cultura. Puntò pure a una riforma dell’economia sovietica. Ma l’improvvisazione, rivelatasi anche nella conduzione dilettantesca della politica estera, e l’instabilità in cui precipitò tutta l’Europa orientale a partire dal 1953 concorse alla sua caduta, frutto di una congiura ordita ai suoi danni all’interno del Presidium.
Seguì un ventennio di relativa tranquillità interna, favorita dalla crisi internazionale del 1973 che aveva determinato l’aumento dei prezzi del petrolio e del gas, proprio all’indomani della scoperta di enormi giacimenti in Siberia. Se da un lato ciò portò a un discreto aumento del livello di benessere della popolazione, dall’altro favorì però – di fatto – una sorta di inerzia perché l’aumento dei proventi diminuì la percezione dell’urgenza delle riforme e scoraggiò, pertanto, nuovi investimenti che avrebbero permesso all’Unione Sovietica di mantenersi al passo col mondo occidentale.
I risultati della conferenza di Helsinki (1975) avevano rappresentato un indubbio successo per la diplomazia sovietica perché riconoscevano formalmente l’assetto dell’Europa uscito dalla Seconda guerra mondiale. La crisi istituzionale prodotta dal Watergate e la sconfitta degli Stati Uniti in Vietnam avevano tratto in inganno il leader sovietico Leonid Brežnev che, al XXV Congresso del Pcus (febbraio 1976), si sentì autorizzato a lanciarsi in imprudenti dichiarazioni sulla fine ineluttabile del capitalismo. Successo che però si trasformò presto in un boomerang poiché, in cambio del riconoscimento ufficiale del controllo sovietico sui paesi dell’Europa orientale, Mosca si era impegnata a garantire i diritti dell’uomo, obbligo che non rispettò favorendo così il coagulo d’un dissenso che trovava una sponda sicura in Occidente. E se la parità strategica negli armamenti veniva vantata a piena voce dal governo sovietico, esorbitante – come ebbe a dire più tardi Gorbačëv – fu il prezzo pagato da Mosca che aveva dovuto sottrarre investimenti importanti da altri settori.
Il declino fu accentuato anche da una onnipresente e dominante gerontocrazia – l’età media del Politbjuro nel 1980 superava i 70 anni – e dalle assai precarie condizioni di salute di Brežnev (segretario generale del Pcus dal 1964 al 1982) incapace di seguire, con la necessaria attenzione, gli affari di stato e di ostacolare gli intrecci che si venivano creando tra malavita e poteri locali, soprattutto nelle zone periferiche dell’impero sovietico. Né Jurij Andropov (1982-1984), intellettualmente vivace ma minato da un tumore, né tantomeno Konstantin Černenko (1984-1985), caricatura gerontocratica e ultima espressione della vecchia burocrazia sovietica, che gli succedettero, furono in grado di invertire una deriva generale segnata da un’endemica crisi agricola e dall’impossibilità di mantenere una politica degli armamenti divenuta sempre più dispendiosa a causa delle scelte operate dai presidenti americani.
Consapevole di ciò, appena giunto al potere, Gorbačëv intraprese un rinnovamento radicale all’interno del partito: nel Politbjuro entrarono uomini più giovani e due terzi dei segretari provinciali furono sostituiti. Lanciò anche una battaglia contro l’alcolismo – gli valse l’epiteto di “segretario minerale” – che ebbe però come conseguenze disastrose la distruzione dei vitigni in Moldavia e una consistente perdita di entrate indispensabili per le riforme economiche.
Il riformismo di Gorbačëv puntò al raggiungimento di due obiettivi che si tradussero anche in altrettante parole d’ordine: glasnost’ e perestrojka. Con la prima, il neosegretario puntò alla trasparenza nella vita del partito mediante l’abolizione di fatto della censura, guadagnandosi di colpo una popolarità fortissima presso gli intellettuali del suo paese e, complessivamente, a livello mondiale. Solo l’incidente nucleare alla centrale di Černobyl dell’aprile 1986, che aveva mostrato come permanesse l’ossessivo rispetto della segretezza da parte delle autorità sovietiche, aveva segnato una momentanea battuta d’arresto nel flirt tra Gorbačëv e l’opinione pubblica internazionale. Seguirono misure conseguenti, come la scarcerazione dei detenuti politici: clamoroso fu il richiamo di Sacharov dal confino a Gor’kij. Si aprì anche un dibattito a tutto campo per riempire – come ebbe a dichiarare il segretario generale – “le pagine bianche” della storia patria. La Rivoluzione d’Ottobre e la sua legittimità storica, l’opera di Lenin, l’essenza del socialismo, il ruolo di Stalin nei piani quinquennali e nella Seconda guerra mondiale vennero messi in discussione.
La seconda grande riforma, la perestrojka (ristrutturazione), nasceva da una lucida consapevolezza dell’inefficienza in cui versava tutta l’economia sovietica che fece pronunciare al neosegretario la fatidica frase «così non è più possibile continuare!». L’operazione, pur nel rispetto formale dell’eredità di Lenin, contemplava idee innovative che puntavano all’inserimento di sostanziali elementi di mercato e alla modernizzazione tecnologica. I prezzi sarebbero diventati fluttuanti in modo da rispecchiare i costi di produzione reali e i desideri dei consumatori. Era concessa la possibilità di dar vita a cooperative e ai contadini si offriva l’opportunità di prendere in affitto appezzamenti delle fattorie collettive. Si parlò di “socialismo di mercato” che consisteva nell’esigere competitività tra le aziende e bilanci in ordine. I risultati furono deludenti all’inizio e disastrosi più tardi. Si generò una forte inflazione e, in assenza degli obblighi che la politica di piano prevedeva, ci fu un calo nella produzione e disordini nella distribuzione. Sulle ceneri dell’economia di piano non si era venuta sviluppando un’economia di mercato ma si scatenò il caos. Il crollo dello statalismo significò il crollo dell’intera società sovietica, poiché al di fuori di esso non esisteva nulla.
In realtà la perestrojka si era mossa su un piano di totale indeterminatezza. Nel tentativo di pilotare la riforma, Gorbačëv aveva seguito uno schema molto ideologico e irrealistico, con l’illusione di poter immaginare una terza via tra capitalismo ed economia pianificata. Inoltre, a guidare la riforma, non poteva essere certo la burocrazia del partito contraria ai cambiamenti. Se gli intellettuali comunisti, almeno agli inizi, erano entusiasti dei cambiamenti, altrettanto non si può certo dire dei burocrati che vedevano minacciata la loro rendita di posizione. Senza contare chi sinceramente temeva per le sorti del socialismo, identificato con l’ordine esistente nell’Unione Sovietica. E sviluppando un’acuta osservazione di Aleksandr Zinov’ev, l’Unione Sovietica, anche se con contraddizioni forti, è stata una superpotenza mondiale che ha tenuto testa agli Stati Uniti. Soltanto a posteriori, con una impostazione teleologica del giorno dopo, affermiamo che esistevano tutti i presupposti per il suo crollo. In realtà l’Urss avrebbe potuto sopravvivere a lungo.
Sul piano della politica estera, Gorbačëv mostrò i suoi lati brillanti e innovativi, ma anche ingenuità politiche.
Il quadro internazionale che il neosegretario aveva ereditato era quanto mai pesante. In un clima di euforia e di onnipotenza, Brežnev aveva fatto collocare, sui confini occidentali dell’Urss, gli SS20, una nuova generazione di missili più precisi e potenti dei precedenti. Operazione assai imprudente, perché gli Stati Uniti avevano risposto con l’installazione dei Pershing dando vita a un grandioso e oltremodo dispendioso sistema di armamenti che prese il nome di “guerre stellari”, e l’Unione Sovietica, che soffocava sotto il fardello degli armamenti, non era assolutamente in grado di sostenere uno sforzo economico altrettanto grande. Gorbačëv pertanto optò per un cambiamento radicale della politica estera del suo paese. Inaugurò nuovi rapporti con la Cina, ordinando il ritiro unilaterale di alcune divisioni dal confine cinese e chiudendo così un contrasto durato trent’anni. Propose poi al XXVII Congresso del Pcus (febbraio 1986) una graduale soppressione delle armi nucleari. Dette vita a una politica estera assai dinamica che si concretò in ripetuti incontri con Reagan, Gonzales, la Thatcher, Kohl coronati dall’accordo finale del giugno 1990 che contemplava una diminuzione degli arsenali chimici e dei missili intercontinentali. In parallelo, sviluppò una riedizione della vecchia “coesistenza pacifica” che puntava all’intesa con l’Occidente attorno a obiettivi condivisi di sicurezza globale. Il nuovo clima politico internazionale fece sì che si rappacificassero aree “calde” come l’Angola e la Cambogia, rispettivamente abbandonate dalle truppe cubane e vietnamite. Anche la guerra contro l’Iraq, capitanata dagli Stati Uniti (1991), trovò un assenso, anche se con qualche critica, da parte sovietica. L’interdipendenza politica ed economica mondiale avrebbe dovuto scoraggiare il ricorso alle armi. Si trattava di un linguaggio che si discostava dalla tradizione leninista perché i “valori umani condivisi” facevano aggio sull’impostazione classista.
Posizioni, queste, molto generose che riscossero larghi successi nell’opinione pubblica in Europa e negli Stati Uniti ma che non commossero i loro governi assai avari nel concedere quegli aiuti finanziari di cui Mosca aveva assoluta necessità, nonostante i consistenti risparmi in spese per armamenti di cui poterono beneficiare, dopo la fine della minaccia militare sovietica. D’altronde, dopo tanto parlare dell’ “impero del male”, gli Usa non potevano essere cavalieri. La “vittoria” sul grande nemico storico era un balsamo per l’amor proprio degli Stati Uniti che avevano da poco perso l’Iran.
Quanto all’Europa orientale, già in occasione dei funerali di Černenko, il neosegretario del Pcus aveva avvertito i capi di quei paesi che l’Urss non sarebbe più intervenuta nei loro affari interni. E ovunque andasse, nelle sue visite nei paesi dell’Europa orientale, calorose erano le accoglienze delle folle che, applaudendolo per le sue aperture libertarie, intendevano così contestare i rispettivi dirigenti. Gli fu da più parti rimproverato di avere abbandonato al suo destino la Germania dell’Est – per i russi segno tangibile della vittoria sulla Germania nazista e per i comunisti antemurale e baluardo per la salvezza di tutto il mondo comunista – senza contropartita alcuna da parte di Washington. Accusa che non tiene conto del fatto che l’Urss non era in grado di dettare condizioni. Come scrisse Saverio Vertone, Gorbačëv aveva voluto usare la bancarotta come strumento politico per ricevere aiuti ma l’Occidente non aveva abboccato.
Tra i fattori che accelerarono la caduta del regime comunista, determinante, a mio avviso, fu quello dell’introduzione del sistema elettorale “libero” concepito all’interno di un costruendo stato di diritto, mai esistito in Russia. L’ipotesi iniziale di Gorbačëv contemplava una democrazia all’interno del partito unico, in ossequio alla vecchia democrazia bolscevica (anch’essa mai esistita) che evocava la formula rivoluzionaria leninista “tutto il potere ai Soviet”. Il progetto gli scoppiò tra le mani: se all’inizio poteva apparire limitato e modesto, confrontato con gli standard occidentali, ebbe poi caratteristiche così dirompenti che gli causarono la sorda opposizione di vasti settori del partito, soprattutto a livello periferico, che dettero vita anche a casi di sabotaggio nell’attuazione della riforma economica. Nel 1990 si giunse a una vera elezione democratica e alla contemporanea abolizione dell’articolo 6 della Costituzione del 1977, che prevedeva il monopolio del potere del Pcus, e a ottobre dello stesso anno fu legalizzata la formazione di nuovi partiti politici e di sindacati liberi. Al XXVIII congresso (l’ultimo, del luglio 1990) furono presentate piattaforme alternative a quella di Gorbačëv che proponeva la trasformazione del Pcus in un partito socialdemocratico. Ma ormai questi progetti erano quotidianamente scavalcati dagli avvenimenti: l’opinione pubblica era interessata a una presa di distanza definitiva e totale dal socialismo comunque inteso. La condanna investiva non solo lo stalinismo ma anche il leninismo e, in qualche misura, la stessa Rivoluzione d’Ottobre.
Il segretario generale subiva i rimbrotti dei conservatori che non volevano cedere il potere e i vantaggi che ne derivavano, e dei radicali che di socialismo non volevano più sentir parlare: se al centro egli riusciva ancora a vincere le sue battaglie piegando di volta in volta destra e sinistra ai suoi voleri, era la periferia politica e geografica che non rispondeva più, quando non passava decisamente al sabotaggio.
Per operare una riforma capace di risanare l’economia, sarebbe stata necessaria una guida ferma, sicura negli obiettivi, autorevole e autoritaria. Liquidare il monopolio di potere del Pcus significò invece eliminare l’encefalo nel governo del sistema nervoso con sostituzioni pasticciate e inventate a tavolino.
Gorbačëv, per quanto rielaborasse le sue teorie, dimostrò di essere un pensatore disorganico. La sua conoscenza della storia della Russia era quanto mai frammentaria e avrebbe dovuto capire che i sistemi democratici non solo non possono essere esportati ma neppure importati. La democrazia occidentale può esprimere le proprie qualità unicamente nell’ambiente in cui si è formata, cioè all’interno della società occidentale. In un ambiente diverso si trasforma nel suo contrario: in uno strumento tirannico. La situazione andò sempre più verso un graduale peggioramento con l’acuirsi del conflitto politico fra coloro che auspicavano riforme graduali e coloro che invece, come Boris El’cin, optavano per cambiamenti radicali e per l’instaurazione immediata d’un sistema capitalistico in Unione Sovietica. Il caos economico, una forte inflazione, la difficile reperibilità di merci di prima necessità, i consistenti ritardi nei pagamenti dei salari determinarono un’acuta instabilità sociale che favorì, a sua volta, le tendenze separatiste in alcune repubbliche dell’Urss. Di fronte all’incalzare degli avvenimenti, Gorbačëv puntò a un rafforzamento dell’esecutivo inserendovi dei conservatori, e alla salvaguardia dell’integrità dell’Unione Sovietica indicendo un referendum (marzo 1991) che confermò la volontà unitaria dei cittadini sovietici, eccezion fatta per le popolazioni dei paesi baltici, della Georgia e della Moldavia che disertarono la consultazione elettorale per proclamare poi l’indipendenza poco dopo. Il momentaneo successo di Gorbačëv – alla carica di segretario aveva aggiunto quella di presidente dell’Urss, eletto dal congresso dei deputati del popolo nel maggio 1989 – doveva però fare i conti con El’cin, che il mese successivo proclamò la sovranità della Russia determinando una forte crisi istituzionale. Le spinte secessionistiche probabilmente non sarebbero state sufficienti a provocare lo sfascio dell’Unione se non fosse montata una forte politica nazionalista proprio nella principale fra tutte le repubbliche, quella russa, e se a capo di questa non ci fosse stato un uomo di fortissima ambizione: Boris El’cin.
È questo il quadro in cui venne a maturarsi il golpe dell’agosto 1991 nel quale personaggi importanti come Krjučkov, Pavlov, Jazov, Janaev – proprio coloro che Gorbačëv aveva collocato ai posti di comando per cercare di tenere sotto controllo la situazione – tentarono di costringere Gorbačëv a firmare lo stato d’assedio. Il complotto, ordito il 19 agosto, fallì nel giro di cinque giorni, causa il secco rifiuto di Gorbačëv e la passività, se non l’ostilità, del partito comunista, dell’esercito e di ampi settori dello stesso Kgb (di cui Krjučkov era capo). Ma a determinare il fallimento del golpe fu anche la presenza, già consolidata, d’un contropotere rappresentato dalla repubblica russa di cui El’cin era presidente. Se il tentativo di restaurazione fu scongiurato, segnò tuttavia le sorti di Gorbačëv che subì, nel dicembre successivo, il colpo di grazia dalla decisione dei presidenti di Russia, Bielorussa e Ucraina riuniti a Minsk di sciogliere l’Unione Sovietica. Al suo posto fu creata la Confederazione degli Stati Indipendenti, effimera istituzione esistente solo sulla carta. Il partito comunista, considerato comunque in qualche modo oggettivamente corresponsabile del tentato colpo di stato, fu sciolto d’autorità da un editto di El’cin.
Assai pertinente, per spiegare la sconfitta di Gorbačëv, è una bella pagina del Principe di Machiavelli che così recita: «come non è cosa più difficile a trattare, né più dubbia a riuscire né più pericolosa a maneggiare, che farsi capo a introdurre nuovi ordini. Chi lo fa – aggiunge il segretario fiorentino – ha per nemici tutti quelli che delli ordini vecchi fanno bene e ha tepidi difensori tutti quelli che delli ordini nuovi farebbero bene». Mentre i nemici si muovono decisamente contro le innovazioni, gli altri le difendono debolmente, «in modo che insieme con loro si periclita». E tre secoli dopo il Tocqueville, riflettendo sulla rivoluzione francese, scriveva: «Non è sempre con l’andare di male in peggio che si precipita nella rivoluzione. Per lo più, un popolo che ha sopportato senza lagnarsi, e quasi senza avvertirle, le leggi più opprimenti, le respinge violentemente non appena il loro peso si allevia» (Tocqueville, L’antico Regime e la Rivoluzione). Pertanto l’allentamento dell’oppressione da parte di Gorbačëv avrebbe dato spazio, se non alla rivoluzione in senso stretto, all’anarchia di comportamenti collettivi provocando il crollo del sistema comunista e ponendo fine alla sua carriera politica.
Proprio su questo tema, quello della caduta dell’impero esterno e di quello interno, l’opinione pubblica russa, con considerazioni tra loro talvolta poco coerenti, ha attaccato il segretario generale. Soprattutto la perdita della Germania orientale, considerata quasi un trofeo della vittoria dell’Armata Rossa nella “grande guerra patriottica” (1941-1945) contro il mortale nemico nazista. I primi a soffrirne, ovviamente, furono gli ufficiali dell’Armata Rossa, precipitati in una forte crisi di identità.
2. La Russia di El’cin: un paese allo sfascio
El’cin, personaggio che sapeva unire cipiglio autoritario e atteggiamento plebeo – aveva riscosso un notevole successo popolare: celeberrime le sue incursioni nei Grandi Magazzini (Gum) di Mosca per stigmatizzare la sciatteria organizzativa responsabile dell’endemica carenza di merci –, era riuscito a mettere insieme una coalizione oltremodo eterogenea. Guidava la lotta contro i privilegi della nomenklatura e galvanizzava le correnti radicali: sia politiche, contro ogni residuo di censura, sia economiche, a favore di un liberismo totale capace di smantellare definitivamente tutti i residui socialisti del paese. Il suo autoritarismo all’inizio trovava consenso vuoi tra i funzionari sgomenti per la confusione crescente, vuoi tra gli intellettuali che invocavano un nuovo dirigismo per riformare l’economia. La carta vincente fu però il suo forte spirito nazionalista che utilizzò per distruggere l’Urss e mettere fuori gioco Gorbačëv, l’unica autorità ancora capace di bloccargli l’ascesa politica.
L’avvento al potere di El’cin coincise con l’apice della crisi economica e sociale del paese. Nella primavera del 1991 ci fu una terribile penuria di merci. Cominciavano a circolare i dollari come mezzo di pagamento e l’autorità dello stato si andava dissolvendo, così come andava deperendo l’industria russa. La produzione industriale nel lustro successivo alla caduta dell’Urss diminuì di più della metà. Ciò creava una sorta di effetto-domino su tante comunità locali perché le strutture sociali erano finanziate dall’apparato industriale: la chiusura di numerose fabbriche, oltre a produrre disoccupazione, significò pertanto, in molti casi, l’indebolimento sia dell’apparato educativo con l’aumento dell’analfabetismo, sia delle strutture ospedaliere con l’innalzamento della mortalità infantile e diminuzione della durata media della vita. Per la prima volta nella storia della Russia moderna si è assistito a una contrazione demografica preoccupante che persiste ancor oggi, nonostante il massiccio afflusso di russi da altre repubbliche un tempo parte dell’Unione. La ricerca scientifica, orgoglio della società sovietica, prese a languireper mancanza di fondi, tanto che numerosi furono gli scienziati che sono emigrati in Occidente. Le numerose riviste politico-letterarie che avevano infiammato gli animi giungendo, come il “Novyi mir”, a vendere sino a tre milioni di copie, stentavano a sopravvivere. Da allora fino ai giorni nostri s’è aperta una forbice tra il livello di estrema ricchezza di alcuni sottili strati della società e la grande maggioranza della popolazione che vive nel disagio economico.
Il tutto accadeva nel clima convulso in cui dominava la parola d’ordine che auspicava l’accesso rapido della Russia al capitalismo per recuperare il tempo perduto e permettere il riallineamento nei confronti del mondo occidentale.
Il passaggio dall’economia di piano a quella di mercato, che con Gorbačëv aveva conosciuto un andamento lento e tortuoso,sì da suscitare l’insofferenza di chi voleva procedere senza indugi, avveniva ora in modo burrascoso e senza regole con El’cin, suscitando sconquassi economici e sociali di enorme portata.
Lo sviluppo febbrile e selvaggio che si scatenò a partire dal 1992 prese le mosse dalla cosiddetta “economia-ombra” che si era sviluppata sotterraneamente già nell’era brežneviana. Ma, invece di agire sulla sfera produttiva, si manifestò nel campo dei servizi e dell’intermediazione commerciale e finanziaria assumendo caratteristiche meramente speculative. Scarso l’afflusso del capitale straniero perché altrettanto scarse erano le garanzie in questa giungla senza regole. Anziché assistere alla nascita di nuove fabbriche, il cittadino di Mosca verificava la proliferazione di un nugolo di chioschi nelle strade della capitale. La fuga di capitali all’estero non faceva che completare il quadro desolante. A farla da padrone, come attestavano senza infingimenti le rare inchieste parlamentari, erano i racket criminali che esigevano il “pizzo” tanto dai proprietari dei piccoli chioschi quanto dalle direzioni delle grandi imprese industriali. La privatizzazione dei mezzi di produzione un tempo statali avveniva in modo caotico, scollegata da ogni logica di crescita produttiva o di risanamento finanziario. L’apparente paradosso fu che proprio i dirigenti del partito, un tempo contrari alle riforme, si convertirono alla privatizzazione ricavandone vantaggi immensi. Erano loro a utilizzare le giuste conoscenze per mettere insieme i capitali necessari per acquistare, a prezzi stracciati, pezzi dell’industria di stato. Lo sperpero della proprietà statale fu denunciato dalla grande stampa occidentale («Le Nouvel Observateur» e «The Economist») che ridicolizzava anche i luoghi comuni ideologici che accompagnavano la grande rapina: il capitalismo alle origini ha sempre caratteristiche criminali, il capitalismo si può sviluppare solo in mancanza di regole…
Il malcontento sociale era forte perché le aspettative che il ritorno al capitalismo aveva alimentato erano state deluse. L’opinione pubblica era disorientata: non immaginava certo che la distruzione dell’ordine sociale esistente avrebbe condotto il paese a un primitivo stato precomunista, anziché al livello dei paesi occidentali. El’cin riuscì a incanalare il grande malcontento verso i suoi primi ministri, opportunamente sacrificati per dare soddisfazione alla popolazione esasperata. Fu in grado di sopravvivere perché, a differenza di Gorbačëv che voleva conciliare democrazia e socialismo, economia di piano e libera iniziativa, non aveva modelli da difendere. Lasciò che tutto si movesse a briglia sciolta senza obiettivi prestabiliti, se non quello di un generico sviluppo del capitalismo. Rischiò forte nel 1993, ma più per l’opposizione parlamentare che per quella popolare. La contrapposizione tra potere esecutivo e potere legislativo si risolse con il bombardamento del Parlamento e con la morte di un numero imprecisato di oppositori, che comunque assommò a qualche centinaio. Un referendum opportunamente indetto mise fine allo scontro inaugurando una repubblica presidenziale con forti caratteristiche autoritarie. D’altronde, la privatizzazione aveva generato sconquassi economici e una parcellizzazione sociale nella quale era difficile per le masse individuare un responsabile.
Nel 1999 El’cin giunse al capolinea. Inseguito da vicende giudiziarie e minato nella salute, si dimise il 31 dicembre. Fu una mossa a sorpresa per non dar tempo agli oppositori. Aveva già preparato la successione. Gli subentrò ad interim, come stabilisce la Costituzione, il primo ministro. Era Vladimir Putin, che sarebbe stato confermato nelle elezioni del 25 marzo 2000. Uno “zar” stanco e malato individuava un successore poco identificabile col passato e capace di salvaguardarlo da probabili inchieste giudiziarie sugli ultimi dieci anni.
3. Putin e il ritorno della potenza russa
Sotto il governo di Putin tutto il quadro politico e sociale è andato via via normalizzandosi. Nel corso dei suoi due mandati, tra il 2000 e il 2008, ha avviato un piano ambizioso di trasformazione del paese. È stata realizzata la revisione del catasto e sono stati varati un sistema di sicurezza sociale e i codici del lavoro (2001) e agrario (2002). Abbassate le imposte, ci fu anche un discreto rientro di capitali. Una legge sull’insolvenza e sulla bancarotta era stata già promulgata da El’cin nel marzo 1998. Furono anche portate a termine le trattative per l’entrata della Russia nell’Organizzazione internazionale del commercio (Wto). Migliorò pure la produzione dei beni di consumo, diminuendone pertanto le importazioni dall’estero.
Al di là dei dati economici non sempre veritieri – la Russia non ha perduto il “vizietto” dei tempi sovietici di alterare le statistiche – si può dire che dal 1999 a oggi l’aumento annuo della produzione industriale oscilla tra il 5 e il 10%: dati invidiabili per qualsiasi governante dei paesi industriali avanzati. Quanto ai redditi reali della popolazione, hanno conosciuto incrementi annui addirittura superiori, intorno al 15-17%. La povertà, che negli anni Novanta riguardava fino i due terzi dei russi, è rimasta circoscritta a pochi gruppi sociali e territoriali. Inoltre, i conti pubblici sonostati messiin ordine. Putin ha saldato in anticipo tutti i debiti, compresi quelli ereditati dall’Unione Sovietica. Forte di questi risultati conseguiti, il premier si è posto l’ambiziosissimo obiettivo di raddoppiare il Pil entro la fine del 2010. Il raggiungimento dell’obiettivo resta subordinato alla diversificazione dell’economia, eccessivamente legata agli andamenti del settore energetico. In effetti, la Russia è stata baciata dalla dea bendata. Il petrolio, venduto al prezzo di 35 dollari al barile nel 2000, ha preso a salire sino a 150 dollari per poi muoversi su valori altalenanti, ma sempre superiori a quelli della fine del secolo scorso. La Russia è assai ricca di oro, platino, diamanti, nichel, titanio, minerali ferrosi e non ferrosi, ma il tentativo di creare industrie manifatturiere di piccole e medie dimensioni ha ottenuto successi modesti.
Appena giunto al potere, Putin si rese conto che per sollevare la Russia dall’abisso in cui era sprofondata era necessario stabilire regole di comportamento collettivo. Soprattutto intuì la necessità di piegare la casta di oligarchi riottosi che avevano fatto fortuna alla corte di El’cin danneggiando però l’economia nel suo complesso e creando enormi sacche di povertà. In gran parte ex dirigenti di organismi pubblici e di fabbriche, che gestivano consistenti flussi finanziari, si erano trasformati in padroni, in oligarchi, appunto. Ciascuno aveva privatizzato ciò che in qualche modo era in suo possesso. Černomyrdin, ministro del gas, assurse alla carica di amministratore delegato del Gazprom, la più grande impresa del gas russa divenuta centro di potere oltre che fonte di enormi ricchezze. Già nel 1991, quando era ancora un’industria di stato, estraeva più di 800 miliardi di metri cubi di gas; la sua rete di gasdotti toccava 160.000 chilometri, con 350 stazioni di compressione.
Putin decise di radunare i maggiori industriali per mettere le carte in tavola. S’impegnava a sorvolare sui numerosi intrallazzi che avevano accompagnato le privatizzazioni degli anni ’90, ma a due condizioni: gli industriali avrebbero dovuto astenersi da qualsiasi attività politica e, facendo rientrare i capitali depositati all’estero, effettuare consistenti investimenti produttivi in Russia. Quasi tutti capirono l’antifona. Michail Chodorkovskij che, per la grande ricchezza – era proprietario del gigante petrolifero Yukos – e per i ramificati e forti rapporti internazionali, si sentiva intoccabile, credette di poter far la fronda al presidente. Capì, troppo tardi, che la musica era cambiata. In un’intervista al «Times» pochi mesi prima dell’arresto, così descrisse la Russia di Putin: «Teoricamente esiste una stampa libera, ma in pratica esiste l’autocensura. Teoricamente esistono i tribunali, ma in pratica i tribunali adottano decisioni imposte dall’alto». Fu arrestato poco dopo, nell’ottobre 2003, per un’evasione fiscale quantificata in 28 miliardi di dollari. Processato due anni più tardi, fu condannato a una lunga pena detentiva, per giunta in una lontana località nel cuore della Siberia. La durezza esemplare della condanna doveva fungere da monito preciso e chiaro a tutti coloro che nutrivano la velleità di contrastare il “nuovo zar”. Alla vigilia della scarcerazione, nel 2009, sono scattate nuove accuse per far partire nuovi processi e ulteriori condanne. La sua compagnia fu fatta a pezzi e in parte riacquistata dalla azienda petrolifera statale Rosneft, controllata da Igor Sechin, uomo del Cremlino. L’operazione godette del plauso di larghi settori dell’opinione pubblica che la interpretarono come giusta riparazione alla politica di rapina condotta dai neocapitalisti postcomunisti a danno della popolazione.
La campagna contro gli oligarchi portò come conseguenza la “conquista”, da parte del potere, di televisioni e giornali che a essi facevano capo. Alcuni giornalisti furono arrestati con l’accusa di violazione del segreto di stato. Altri subirono una sorte ben peggiore, andando a ingrossare le fila delle vittime di omicidi politici. Sono più di un centinaio i giornalisti ammazzati, e ben raramente i responsabili sono stati individuati. I nomi più celebri sono quelli della Politkovskaja e della Baburova, uccisa insieme all’avvocato Marchelov, difensore di molti di coloro che avevano patito violenze da parte delle truppe russe in Cecenia.
Subito dopo l’inizio del suo secondo mandato, Putin chiarì ulteriormente i suoi obiettivi: togliere ogni spazio politico agli industriali detentori di enormi ricchezze o legati all’Occidente; ridare spazio allo stato in economia, a partire dai settori strategici.
C’è da dire che sia le elezioni del 2000, sia quelle del 2004, per Putin furono una passeggiata. Il neocomunista Zjuganov, che con scarsa sfortuna aveva già sfidato più volte El’cin, non raccolse che un 30% di voti. Da quel momento Zjuganov e Žirinovskij furono confinati a elemento folkloristico del parlamento russo. Putin era consapevole che per ridare forza e autorevolezza allo stato russo era necessario agire anche sulla stessa struttura istituzionale. Già nell’ottobre 1999, quando rivestiva ancora la carica di premier, prese ad annullare i trattati bilaterali che le varie unità federali avevano strappato al potere centrale. Dopo di che, raggruppò tutte le repubbliche e le regioni della federazione russa in sette grandi “distretti federali” (Estremo-Orientale, Siberiano, Urali, Volga, Nord-Occidentale, Centrale, Meridionale), nominandone egli stesso i governatori sopraordinati alle varie autorità delle entità locali. Come ai tempi di Ivan il Terribile, i boiari locali erano stati ricondotti all’obbedienza. Il successo di Putin consiste nell’aver ridato tranquillità a una popolazione scioccata e logorata da vent’anni di cambiamenti continui e di grande portata, anche psicologica. Il suo ruolo è stato quello di personificare la ritrovata grandezza della Russia ricostruendo un ponte verso i tempi sovietici e restituendo prestigio al paese, anche se ciò significò punire con metodi spesso illegali gli oligarchi, limitare la libertà dei mezzi di comunicazione, piegare le pratiche elettorali al proprio tornaconto. È stato un elemento costante, nella storia russa, questa oscillazione continua tra un’esigenza di democrazia, spesso degenerata in anarchia, e un’insopprimibile volontà di ordine destinato anch’esso a degenerare in autocrazia o dispotismo. D’altronde, un paese in cui non esistono ancora un tessuto industriale cospicuo e diffuso, né una classe stabilizzata di imprenditori e mercanti, ma che possiede enormi risorse naturali, ha favorito l’affermarsi di un potere centrale autorevole e capace di gestire queste risorse.
Non poteva mancare, in questo gioco di restaurazione, un forte avvicinamento alla chiesa ortodossa. Già una legge del ’97 definì “tradizionali” per la Russia soltanto le confessioni cristiano-ortodossa, islamica, ebraica e buddista. Se ne deduce che la discriminazione era mirata verso la religione cattolica e le confessioni protestanti. La chiesa ortodossa si è sentita da sempre padrona di casa e ha visto con ostilità i tentativi di proselitismo del clero cattolico. S’è opposta con decisione alla visita del papa Giovanni Paolo II in terra russa, visita da lungo tempo desiderata.
Putin ha voluto curare l’immagine di fedele devoto facendosi riprendere dalla televisione in feste e cerimonie religiose. L’alleanza fra trono e altare ha favorito entrambi. D’altronde, Putin e l’allora patriarca Aleksej condividevano nazionalismo e ostilità nei confronti dell’Occidente. Questa “comunione” si è manifestata esplicitamente nel febbraio 2008 alla vigilia delle elezioni presidenziali che hanno incoronato Medvedev, quando il patriarca ha ringraziato alla televisione il presidente uscente per «aver servito disinteressatamente il paese». Grazie a Putin, si è moltiplicato il numero delle chiese e delle pubblicazioni religiose.
La debolezza dell’attuale politica estera russa è anche la conseguenza della condizione dell’esercito nel suo complesso. A partire dagli ultimi anni di Gorbačëv, la quota di bilancio statale destinata alla difesa è andata via via diminuendo. Nel 1988, l’allora ministro degli esteri sovietico Eduard Ševardnadze dichiarò che il bilancio della difesa ammontava addirittura al 19% del Pil mentre attualmente, dopo gli incrementi dell’ultimo biennio, gli investimenti nel settore si sono attestati all’1%, ben al di sotto degli Stati Uniti che impegnano il 6,4%. Ciò significa che le spese militari russe nel 2006 erano di 23 miliardi di dollari, al di sotto quindi degli Stati Uniti che stanziarono 670 miliardi di dollari (compresi i costi della guerra in Iraq) (Osvaldo Sanguigni). Sergej Ivanov, presidente della commissione governativa per il complesso militar-industriale, ha parlato di una spesa equivalente a 300 miliardi di dollari nel periodo 2007-2015, meno della metà della somma impegnata dagli Stati Uniti nel solo 2006. Dopo un periodo di sbandamento, durante il quale si potevano incontrare per la strada militari questuanti per via di stipendi arretrati non percepiti, Putin ha finalmente proposto una strategia di riassesto del complesso militare. Il programma prevede diciassette missili balistici intercontinentali, quattro apparati spaziali a uso militare e altrettanti vettori per metterli in orbita. Per l’aeronautica militare è prevista una squadriglia di bombardieri a lungo raggio, sei squadriglie di aerei e sei di elicotteri da guerra, sette battaglioni di carri armati e tredici battaglioni motorizzati. Inoltre, nuovi pozzi di lancio di missili e rampe per missili mobili. Inizierà pure la produzione di sommergibili atomici dotati di dodici-sedici missili strategici (“Bulava-30”). La marina militare riceverà 31 nuove navi da guerra e saranno ammodernati 47 battaglioni carristi, 97 motorizzati e 50 da sbarco. Come si vede, un impegno militare e finanziario notevole ma assolutamente inadeguato a colmare il divario con gli Stati Uniti.
Sul piano della politica estera, Putin, sin dall’inizio, ha tentato di riproporre una Russia che, anche se non su un piano di parità come l’Urss, fosse l’interlocutore privilegiato degli Stati Uniti. Il primo incontro l’ebbe con Clinton. Poi i rapporti tra i due stati si deteriorarono a causa dell’intenzione di G. W. Bush di installare in Polonia e nella repubblica ceca lo scudo antimissilistico. Inaccettabili le giustificazioni del governo americano secondo il quale le proprie scelte militari punterebbero al contenimento della politica iraniana, ritenuta aggressiva nei confronti dell’Occidente.
La Russia ha risposto accennando al rinnovo dei propri armamenti che potrebbero minacciare l’Europa occidentale. Ma se Putin appare talvolta aggressivo nella forma dei suoi interventi, è tuttavia moderato e realista nelle sue scelte politiche, consapevole dei grossi limiti in cui si dibatte ancora la federazione russa.
Le critiche della stampa occidentale nei confronti di Mosca si muovono soprattutto sul tema del mancato rispetto dei diritti umani sia nei confronti degli oppositori interni, sia verso la popolazione cecena, vittima di interventi brutali da parte dell’esercito russo. Più prudenti degli organi di stampa sono i governi europei che temono di compromettere i rapporti commerciali, soprattutto per quel che concerne l’approvvigionamento di gas, dal momento che un’alternativa alla Russia, qualora possibile, si rivelerebbe più costosa e rischiosa. (Ma anche per la Russia, le cui riserve di gas superano il 25% del totale mondiale, non sarebbe conveniente cambiare i suoi clienti). C’è inoltre difficoltà a mostrare un atteggiamento univoco, dal momento che dal 2004 sono entrati nell’Unione alcuni paesi dell’Europa orientale e le tre repubbliche baltiche ex sovietiche che manifestano uno spirito di rivalsa antirusso molto forte per l’oppressione patita per mezzo secolo.
La Russia obietta che l’Occidente non ha le carte in regola per muovere critiche: l’esistenza di Guantanamo, dove vengono ristretti combattenti islamici senza processo, ne sarebbe la prova. Quanto all’intervento militare occidentale in Iraq, il governo russo contesta la possibilità di esportare la democrazia.
Nei confronti dei paesi già facenti parte dell’Urss, Putin coltiva la speranza di poterli riavvicinare. Con la Bielorussia si sono avviate trattative di unione che tuttavia non hanno ancora sortito effetti per via della permanenza di qualche contrasto. Con l’Ucraina si è aperto un contenzioso legato alla volontà moscovita di esigere da Kiev il pagamento del gas ai normali prezzi di mercato internazionale. Con il ricatto economico la Russia conta, se non di trattenere questo stato nella propria sfera di influenza politica, almeno di evitarne l’ingresso nell’Alleanza Atlantica. Mosca gioca sull’esistenza di una forte presenza in questa repubblica di russi e di ucraini russofoni, contrari alla “rivoluzione arancione” dalle caratteristiche fortemente antirusse e filooccidentali. Nei confronti delle cinque repubbliche asiatiche, un tempo facenti parte dell’Unione Sovietica, i rapporti segnano un miglioramento. Dopo un loro avvicinamento agli Stati Uniti – Uzbekistan e Kirghizistan hanno concesso basi aeree agli Stati Uniti per la guerra in Afghanistan anche col beneplacito di Mosca che voleva in cambio mano libera in Cecenia – ora una sorta di forza centripeta sta calamitando questi stati verso una nuova “grande alleanza” con la Russia.
Anche con la Cina e l’India, i due paesi emergenti nell’economia mondiale, Mosca sta intrattenendo rapporti politici e relazioni economiche per controbilanciare la presenza statunitense nel Sud-est asiatico. La Cina si sta dotando di armamenti moderni ed è la Russia a fornirglieli. Anche in occasione dell’intervento bellico americano in Iraq, Russia e Cina, che fanno parte entrambe del Consiglio di sicurezza dell’Onu, hanno impedito che questo organismo ne legittimasse l’aggressione, in ciò confortate anche dal voto francese. Quanto alle prospettive per il futuro, permangono gravi squilibri demografici ai confini tra una Cina superpopolata e la Siberia russa che ha un densità demografica assai scarsa. Già oggi esiste il problema di una massiccia immigrazione clandestina di cinesi nell’Estremo Oriente russo. Sempre per potere segnare una propria presenza a livello mondiale, la Russia si è proposta, insieme alla Cina, come intermediaria tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti, seriamente preoccupati per le minacce atomiche della piccola repubblica asiatica. Analogo discorso si può fare per l’Iran. Mosca mantiene una politica di forti investimenti in questo paese, ma soprattutto collabora alla costruzione della centrale nucleare di Busher, mettendo in forte allarme Stati Uniti e Israele che paventano un uso militare dell’impianto. A coronare i rapporti con Teheran ha pensato Putin con una visita ufficiale nell’ottobre 2007.
È trascorso troppo poco tempo per capire se il passaggio della presidenza della repubblica da Putin a Medvedev (maggio 2008) possa comportare cambiamenti significativi nella politica interna ed estera della Russia. Putin, costretto da una norma costituzionale a non ripresentarsi per un terzo mandato, è stato lo sponsor ufficiale del nuovo presidente e mantiene comunque la presidenza del consiglio dei ministri; molti dei commentatori politici sono pronti a scommettere sul suo proposito di riproporsi alla carica suprema nel 2012. Un fatto nuovo che ha messo alla prova la tenuta della diarchia è stata la guerra-lampo dell’agosto 2008 contro la Georgia. Oggetto del contendere, lo status dell’Ossezia del Sud e quello dell’Abchazija, resesi autonome da Tbilisi ma rivendicate dalla Georgia che ne ha tentato la riconquista contando sull’appoggio di Washington. Probabilmente Saakashvili, il presidente georgiano, è caduto in una trappola perché la Russia non aspettava che l’occasione per affermare il suo ruolo di grande potenza regionale e per riscattarsi dall’era elciniana in cui Mosca sembrava asservita alla politica americana. Da rilevare che è la prima volta, nell’epoca postsovietica, che le truppe russe hanno violato frontiere internazionalmente riconosciute e hanno ingaggiato uno scontro armato in territorio straniero.
L’evento bellico è da collocare all’interno di un’operazione che tende a ricostituire il quadro unitario della Russia dopo la caduta dell’Unione Sovietica con uno stato che controlla l’economia, il potere che si concentra in poche mani, il dissenso posto sotto controllo con il varo di leggi straordinarie, la stampa tenuta sotto scacco da una legislazione che contempla il reato di alto tradimento per le notizie sgradite al regime. Non è il ritorno all’era comunista, come qualcuno, orfano di vecchi ed errati schemi interpretativi, vorrebbe farci credere. È la Russia che rientra nell’alveo della sua storia millenaria, la Russia nata come stato patrimoniale in cui il principe non solo comanda ma è proprietario di cose e persone.
A partire dall’autunno 2008 la situazione economica ha cominciato a cambiare. Gli sconvolgimenti che hanno investito il mondo intero non potevano certo risparmiare la Russia. Dopo un momento iniziale in cui il Cremlino affermava che la Russia non era toccata dagli avvenimenti internazionali, e addirittura minacciava chi voleva “seminare il panico”, quando la crisi da finanziaria si era trasformata in economica il potere politico si è sentito minacciato. Erik Berglof, capo economista della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, prevede per la Russia, che dipende molto dai prezzi delle materie prime e ha un sistema bancario debole, un crollo del Pil dell’8,5 % per il 2009 e una crescita del 3,1% nel 2010 («Il Sole 24 Ore», 16 ottobre 2009).
Il “patto” che ha tenuto legata a Putin la popolazione russa era basato sul vecchio assunto, ormai consolidato in epoca sovietica, che il governo ha il dovere di garantire le condizioni minime della quotidianità, cioè il sistema sanitario, l’educazione scolastica, il lavoro. Se sono rispettate, i diritti dell’uomo, lo stato di diritto, la libertà di stampa possono passare in secondo piano. Questo perché lo stato russo è uno stato padrone, sin dai tempi di Ivan il Terribile, e i russi hanno introiettato questo principio subendolo passivamente, salvo poi reagire violentemente in certi frangenti particolari. Ma se la crisi dovesse mordere l’economia russa in maniera consistente, Putin potrebbe andare incontro a qualche sorpresa.
Per saperne di più
Benvenuti, F. (2007), La Russia dopo l’Urss. Dal 1985 a oggi, Roma, Carocci.
Boffa, G. (1995), Dall’Urss alla Russia. Storia di una crisi non finita, 1964-1994, Roma-Bari, Laterza.
Graziosi, A. (2008), L’Urss dal trionfo al degrado. Storia dell’Unione Sovietica, 1945-1991, Bologna, il Mulino.
Guerra, A. (2001), Urss, perché è crollata? Ipotesi sulla fine di un impero,Roma, Editori Riuniti.
Massari, M. (2009), Russia. Democrazia europea o potenza globale? A vent’anni dalla fine della guerra fredda, Milano, Guerini e associati.
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Werth, N. (2000), Storia della Russia nel Novecento: dall’impero russo alla comunità degli stati russi indipendenti, 1900-1999, Bologna, il Mulino.
Roberto Sinigaglia insegna Storia della Russia e dell’Europa Orientale all’Università di Genova.