di Andrea Ciattaglia
Il mondo intero, l’Europa, l’Italia sono malati gravi. A pesare sulla loro salute, su di noi abitanti dell’intero pianeta, una doppia crisi di proporzioni immense, mai registrate prima nella storia: quella del capitalismo – sistema economico condannato ormai ad una stagnazione senza fine, mentre l’1 per cento della popolazione mondiale continua ad arricchirsi – e quella, strettamente legata ad essa, del sistema ecologico, o meglio delle condizioni che permettono la sopravvivenza dell’essere umano sulla Terra. È a partire da queste tesi che il sociologo Luciano Gallino, morto lo scorso novembre, sviluppa il suo ultimo libro (Il denaro, il debito e la doppia crisi, Einaudi). Si tratta di tesi argomentate, riproposte a più riprese da angolazioni diverse, con lo scopo di sgomberare il campo da diffusi falsi miti (che lo stato sociale e le garanzie dei servizi universalistici siano responsabili dell’indebitamento degli Stati, per esempio, o che la finanza mondiale sia il terreno degli «investitori» e non esclusivamente degli «speculatori») e dal trito e pericoloso luogo comune, secondo Gallino caratteristico dell’ideologia neoliberale, che «non esistono alternative». Non a caso prima dei capitoli sull’austerità europea (3), sulle particolarità della crisi italiana (4) e sulle alternative percorribili (5), le ottanta pagine iniziali del saggio sono dedicate a spiegare i meccanismi della finanza e del credito, con attenzione alle ricadute sociali di essi.
Le responsabilità della politica
Tuttavia, se i sintomi della poderosa crisi iniziata nel 2008 si manifestano nei settori dell’economia e dell’ambiente, con ricadute drammatiche sullo stato sociale, le cause di essa sono politiche. Alla base della crescita smisurata delle diseguaglianze tra un’esigua minoranza sempre più ricca e la stragrande maggioranza della popolazione impoverita, della crisi occupazionale, del meccanismo del debito nel quale sono avvitati gli Stati, ci sono decisioni politiche. Non solo d’intervento in questioni monetarie e bancarie, oppure di deregolamentazione a favore di grandi gruppi industriali e lobbies, ma anche scelte di omissione. È il caso della cessione di sovranità che di fatto gli Stati europei (e l’Italia in particolare, con un sostanziale azzeramento delle politiche di tutela degli interessi nazionali che è per Gallino uno dei motivi per cui la crisi italiana è più violenta che altrove) hanno approvato con la ratifica dei trattati europei di Maastricht (1992) e poi di Lisbona (2008). Accordi che hanno determinato una «forte concentrazione di poteri privi di qualsiasi controllo in poche istituzioni non elette da nessuno».
È, su scala europea, l’affermazione dell’esecutivo come potere che soffoca e annulla gli altri, per il quale si rimanda al recente Moscacieca di Gustavo Zagrebelsky, che con il saggio del sociologo torinese ha importanti e feconde risonanze. Scrive Gallino: «La Commissione europea e il Consiglio europeo – istituzioni non elette da nessuno – dispongono di poteri pressoché illimitati», in particolare nei settori delle politiche economiche e sociali. «Il culmine delle attività di sequestro della sovranità economica e politica dei nostri paesi da parte di queste due istituzioni dell’Unione europea – osserva il sociologo – è stato toccato nel 2012 con l’imposizione del trattato detto in breve fiscal compact, il quale prevede l’inserimento nella legislazione di ogni Stato membro del pareggio di bilancio, ‘preferibilmente in via costituzionale’», che ha portato in Italia, altra iniziativa politica, alla contestata modifica dell’articolo 81 della Costituzione.
Ancora un particolare, per dare conto della pervasiva azione di controllo e influenza descritta da Gallino: dei 39 punti che costituirono, il 4 novembre 2011 (12 giorni prima del giuramento del Governo Monti), le perentorie richieste della Commissione europea al Governo Berlusconi, emblematico è il 25esimo: «Potrebbe il governo fornire ulteriori informazioni per spiegare quali riforme sono considerate nel settore dell’acqua, malgrado l’esito del recente referendum?», che come si ricorderà aveva abrogato la norma che consentiva di affidare la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica a soggetti privati o a società di diritto pubblico con partecipazione azionaria di privati.
Politica nelle catacombe?
Tra i pregi del libro c’è quello di fare nomi e cognomi dei responsabili di decisioni politiche che hanno aperto alla cosiddetta «politica dell’austerità», intesa come il contrattacco capitalistico allo stato sociale: per l’Italia le leggi «Treu del 1997, Maroni e Sacconi del 2003, Fornero del 2012, Renzi del 2014-15», senza dimenticare i provvedimenti (primo tra tutti quello a firma Ciampi e Andreatta nel 1981 per bloccare il riacquisto dei titoli di Stato invenduti da parte della Banca d’Italia) che hanno determinato tra il 1981 e il 1993 il raddoppio del debito pubblico nazionale, svincolato da qualsiasi maggiore spesa per il welfare (per una ficcante analisi di queste decisioni politiche si veda pagina a 145 un utile bignami contro la disinformazione in materia di evoluzione del nostro debito pubblico). Per i «mandanti» delle politiche di austerità, cioè di contromossa rispetto alla gestione/controllo democratico del sistema economico capitalista, occorre restringere il cerchio d’indagine: secondo Gallino è nell’ordine di alcune migliaia di persone in tutta Europa il numero di coloro che indirizzano le politiche dell’Unione europea, cioè condizionano le esistenze di oltre 500 milioni di persone del Vecchio continente.
Di fronte ad essi ed ai loro patrimoni sterminati (è un’oligarchia finanziaria che possiede la gran parte della ricchezza del continente), la politica esce dalla fotografia scattata dall’autore come costantemente sottomessa, sempre in tono minore. Tanto che, rispetto alla totale condiscendenza alle imposizioni sovranazionali di stampo neoliberale dimostrata dai politici italiani (sulla cui competenza il giudizio di Gallino è pessimo), l’alternativa dimostrata da altri Paesi dell’Ue non è molto più lusinghiera. Nelle realtà meno prone alle pressioni neoliberiste «al di sotto delle coperture ideologiche che adottano in pubblico» i politici agiscono sulla base di «un’analisi spregiudicata di ciò che meglio conviene al loro Paese». Si tratta comunque di un rifugio nella dissumulazione, per una politica che se non è cieca, deve sotterrarsi nelle catacombe e agire da clandestina.
L’alternativa: «un’impresa terribilmente difficile»
L’altra faccia della medaglia delle analisi critiche sul presente è la misura del loro possibile esito: la validità dell’alternativa proposta. Qual è quella di Gallino? Affrontare la doppia crisi che stiamo vivendo scardinando il presupposto dell’organizzazione capitalistica, che tende a indirizzare il flusso di risorse dal basso verso l’alto e dai molti a pochi. Impossibile essere esaustivi sulle ricette proposte, che per sommi capi prevedono il ridimensionamento delle banche e una sostanziale de-finanziarizzazione dell’economia speculativa mondiale, un controllo democratico sulla finanza, una distribuzione più equa del reddito attraverso politiche di gestione societaria partecipata. Ma dato che è il capitale a fare la politica, giacché di decisioni politiche controcorrente ha necessità il nuovo modello per nascere, come è possibile che esso si affermi? I segnali positivi citati da Gallino appaiono deboli al cospetto dell’«impresa terribilmente difficile» di sovvertire il sistema: non basta la nascita di movimenti sociali che hanno compreso che la politica dei governi è a favore dell’élite più ricca e non della maggioranza. Il saggio si conclude nell’attesa di un nuovo soggetto politico, ancora non organizzato ed operativo.
Viene da consigliare, una volta concluso il libro, di ritornare alle pagine iniziali e affermare una concezione nella quale a contare sia il destino umano, «incluso l’ideale di uguaglianza, e quello di evitare all’umanità, in un futuro che si avvicina rapidamente, il fosco destino che l’aspetta se non provvede quanto prima a riparare i guasti da essa apportati al sistema ecologico», in contrasto ad una ragione che «vede nell’essere umano principalmente una macchina da calcolo, che pondera senza tregua il rapporto tra mezzi e fini» (in un orizzonte strumentale limitato, nel quale l’uomo perde la coscienza della propria condizione). Non si tratta di un invito consolatorio e sterile – lo sarebbe al termine di un’altra lettura, meno militante, meno calata nell’agone politico, meno urgente – ma dell’espressione del bisogno di uscire dal gorgo della crisi. Ad altri il compito di partire da questa bussola e tracciare la rotta.