di Mouin Rabbani[2]
Ciò che forse colpisce di più di Noam Chomsky è la sua coerenza. Durante più di mezzo secolo di attivismo politico, accompagnato da un’incessante produzione di libri e articoli, nonché da innumerevoli conferenze e interviste, non ha mai –per quanto ne so- cambiato idea su nessuna questione significativa. Questo è ancora più notevole se si considera la sorprendente quantità dei suoi interessi politici, che abbracciano il mondo sia geograficamente sia dal punto di vista dei temi affrontati.
In molti casi, il rifiuto o l’incapacità di rivedere le proprie percezioni e idee nel corso di molti decenni durante i quali il mondo è diventato irriconoscibile sarebbe accantonato –o addirittura ridicolizzato- come il prodotto di una mente ristretta, di un dogmatismo anacronistico. Ma non nel caso di Chomsky. Non tanto perché è un pioniere nel suo campo, la linguistica, e all’età di 83 anni rimane il più significativo intellettuale vivente noto al grande pubblico, ma piuttosto perché ha abbondantemente rifuggito i l’indottrinamento politico come base per interpretare la realtà.
Per tutta la sua vita, Chomsky è stato motivato soprattutto da un profondo e palpabile impegno nei confronti dei diritti e della dignità degli esseri umani e delle loro comunità e da un’opposizione parallelamente viscerale contro le élites e le istituzioni che calpestano questa umanità quando la incontrano, interpretando il mondo di conseguenza. Nonostante le sue convinzioni anarchiche, sospetto che egli consideri suo principale maestro il buon senso, che spesso gli deriva dalla sua cultura enciclopedica.
Nonostante il Chomsky attivista politico sia divenuto famoso per la sua opposizione alla guerra in Vietnam (un impegno che iniziò troppo tardi, insiste nel ricordare), il suo impegno sulla questione palestinese precedeva quello sul Vietnam di diversi decenni ed era largamente dovuto all’ambiente in cui era nato e cresciuto. Nell’intervista che segue, Chomsky racconta questo impegno e il modo in cui si è sviluppato nel corso della sua vita. Egli riflette, inoltre, su come le cose siano –e non siano- cambiate e su dove potrà e dovrà condurre il conflitto israelo-palestinese.
L’intervista è stata condotta nella sua casa di Lexington (Massachusetts), il 14 maggio 2009 e il 21 novembre 2010. La domanda sull’origine del suo impegno politico gli è stata posta due volte ed egli ha risposto in maniera quasi identica in entrambe le occasioni -come uno specchio che riflette cose dette e scritte un anno, un decennio o anche diversi decenni addietro- e ancora interessante nel contesto odierno.
Tra questi due incontri, nel maggio 2010, ha visitato Amman, nel suo viaggio verso la Palestina, dove era in programma una sua conferenza alla Birzeit University. Il Ministro degli Interni israeliano gli proibì di visitare la Cisgiordania –una decisione anacronistica che fece balzare sulle prime pagine di tutto il mondo una visita altrimenti di poca importanza- perciò Chomsky trascorse qualche giorno ad Amman, tenendo molte conferenze precipitosamente fissate (inclusa quella alla Birzeit University grazie ad una connessione video), dozzine di interviste e diversi meeting, fermandosi solo per riposare quando sua figlia Avi e i suoi amici Assaf Kfoury e Irene Gendzier, che lo avevano accompagnato da Boston, non gli lasciarono scelta. Il suo livello di energia (attivismo, in senso letterale) impressiona quanto la sua coerenza, non solo per un uomo di circa 80 anni, ma per qualsiasi età.
Quando e come si interessò per la prima volta alla questione israelo-palestinese o alla questione sionista, come si diceva all’epoca?
Ci sono cresciuto. I miei genitori appartenevano a ciò che si potrebbe definire un ghetto non fisico ma culturale, la comunità ebraica di Philadelphia, che era composta da diverse branche; quella in cui loro erano più coinvolti promuoveva la rinascita dei centri culturali ebraici, con particolare attenzione all’istruzione ebraica. Divenni consapevole di tutto ciò nei primi anni Trenta. Mio padre era un ammiratore di Ahad Ha’am, la cui versione del sionismo consisteva in un centro culturale per ebrei in Palestina. Anche mia madre e la loro cerchia di amici e colleghi la pensavano allo stesso modo. Ho frequentato la scuola ebraica e l’università ebraica e, una volta cresciuto, ho iniziato ad insegnare alla scuola ebraica. Facevo parte dell’organizzazione di quelli che all’epoca venivano chiamati gruppi della gioventù sionista, che probabilmente oggi sarebbero chiamati anti-sionisti, perché per la maggior parte si opponevano all’idea di uno Stato ebraico. Il mio impegno, fin da quando ero adolescente, va nella direzione di un binazionalismo socialista.
Il mio punto di vista, in questo senso, non è cambiato molto. Quello era un periodo molto diverso, ovviamente. Ma i gruppi e le persone con cui ero in contatto si impegnavano per una cooperazione tra le classi lavoratrici arabe ed ebraiche in una Palestina socialista.
Era affiliato a qualche specifico movimento?
Erano movimenti piuttosto piccoli. Ero vicino a HaShomer HaTzair [la Giovane Guardia]. Ero abbastanza d’accordo con loro per quanto riguardava la Palestina, ciò che in seguito divenne Israelo-Palestina e più tardi ho vissuto per un periodo nel kibbutz di HaShomer HaTzair con mia moglie. Ma non mi sono mai davvero affiliato a loro, perché erano divisi in due sezioni, una stalinista e l’altra trotzkista, e io mi opponevo ad entrambe. Ero fortemente anti-leninista all’epoca: criticavo da sinistra, affermando che il leninismo [sia nella sua forma stalinista sia in quella trotzkista] costituisse una deviazione di destra. Quello era vero impegno politico. Occorre ricordare che parliamo degli anni Quaranta, non di oggi.
Dato il suo impegno politico e le prospettive di allora, si ricorda la sua reazione alla fondazione di Israele nel 1948?
Io e la maggior parte delle persone con cui ero strettamente in contatto la vedemmo come una tragedia. Prima di tutto, perché pensavo –e tuttora penso- che spaccare la Palestina in due parti separate l’una dall’altra non avesse alcun senso. E, in secondo luogo, perché mi sono sempre opposto all’idea di uno Stato ebraico.
È opportuno ricordare che l’idea di uno Stato ebraico non era la posizione sionista ufficiale nel periodo in cui vivevo. La prima posizione ufficiale verso uno Stato ebraico all’interno del movimento sionista fu presa durante la seconda guerra mondiale, con il Programma di Biltmore del dicembre 1942. Si poteva tranquillamente essere un sionista e contestualmente pensare che quella fosse una mossa completamente sbagliata ed un grande errore.
Quale alternativa vedeva?
Pensavo che l’alternativa fosse uno Stato binazionale, basato sulle istituzioni cooperative esistenti ma che mettesse insieme arabi ed ebrei, lavoratori, agricoltori, ecc.
Ha accennato prima al fatto che è andato a vivere in un kibbutz in Israele.
In realtà, fu solo per un paio di mesi, nell’estate del 1953. Mia moglie vi tornò in seguito, visse lì più a lungo e intendevamo tornare e rimanere. Devo ammettere che vivere nel kibbutz fu davvero affascinante e mi piacquero le persone.
Di quale kibbutz si trattava?
HaZorea, a circa mezz’ora da Haifa. All’epoca era il centro della solidarietà di HaShomer HaTzair verso gli arabi ed era considerato l’esperienza di kibbutz più di sinistra, o una di quelle più a sinistra. Ora è molto di destra, ma originariamente si ispirava a Martin Buber e qualcosa di quell’atmosfera permaneva negli anni Cinquanta.
Andammo lì in estate per ambientarci. Mia moglie ritornò subito dopo e rimase per sei mesi. Tornò negli Stati Uniti solo per venire a prendermi ma alla fine non tornammo per diverse ragioni non legate alla politica. Tuttavia, devo dire che già allora era chiaro che brutte cose erano accadute nel 1948.
Era risaputo all’epoca?
Alcune cose erano risapute, ma la portata e la natura di ciò che era accaduto non venivano comprese. Quando vivevo nel kibbutz, quell’estate, ricordo un giorno in cui stavo lavorando nei campi con un membro più anziano del kibbutz. Notai un cumulo di pietre e gli chiesi cosa fosse. Lui glissò e non volle dire nulla in proposito. Ma più tardi, nella sala da pranzo del kibbutz, mi prese da parte e mi spiegò che era un villaggio arabo, un villaggio arabo amichevole, e che quando la battaglia si era fatta intensa, poiché il villaggio si trovava a pochi chilometri di distanza, portarono via le persone e lo distrussero. Non so quanti ce ne siano come quello. Molti di più di quelli conteggiati, ne sono sicuro.
Dopo il 1948, però, la mia sensazione fu che, sebbene si fosse trattato di un grande errore, le regole del gioco erano cambiate. La risoluzione dell’ONU del novembre 1947 sulla spartizione fu considerata una tragedia nei circoli di cui facevo parte. Ma ora esisteva uno Stato ebraico e anche un paese. E nel momento in cui lo Stato divenne parte del sistema internazionale, non vidi alcuna alternativa se non quella di riconoscere che aveva gli stessi diritti di ogni altro Stato del sistema internazionale. Né più né meno, sebbene spesso abbia chiesto di più.
Tutti gli Stati sono orribili. Sono tutti nati con la violenza: gli Stati Uniti sono seduti su mezzo Messico. I confini europei si sono consolidati attraverso la violenza dopo secoli di barbarie ed è così in tutto il mondo. Perciò, va bene, ce n’è uno in più.
Dopo che se ne fu andato nel 1953, tornò mai?
Tornai nel 1964. Fu per una conferenza, ma poi viaggiai un po’ e incontrai alcuni vecchi amici. C’era un certo numero di miei amici di qui che viveva lì, ma all’epoca non esisteva una vera e propria passione per il sionismo. Infatti, tra le persone più istruite, il termine ebraico Tziyonut (Sionismo) era una sorta di derisione.
Si trattava di ebrei americani?
Sì, ma la comunità ebraica statunitense in generale non guardava al sionismo con molta simpatia all’epoca. Per esempio, giornali come Commentary erano non-sionisti o addirittura anti-sionisti. Deve essere stato verso la metà degli anni Cinquanta che Mapai (il partito laburista) fondò un nuovo giornale, Midstream, per contrastare il carattere non-sionista di Commentary. Il New York Times era di proprietà di ebrei ma era non-sionista. Se si scorrono le pagine di Dissent, che fu emarginato dai socialdemocratici, si potrà notare che gli accenni ad Israele sono rari prima del 1967 e quasi sempre dispregiativi. La stessa cosa accadde agli individui. Irving Howe, l’editore di Dissent, fu sprezzante nei confronti del sionismo quasi quanto alcuni movimenti religiosi nazionalisti. I progressisti non volevano averci nulla a che fare. Semplicemente non era oggetto di interesse. Come il mio amico Norman Finkelstein ha rilevato, l’editore di Commentary, Norman Podhoretz, scrisse un’autobiografia, pubblicata all’inizio del 1967, che quasi non nominava Israele; ma dopo il 1967, Podhoretz e gran parte di queste persone divennero appassionati sciovinisti.
Sembra che durante i due decenni precedenti il 1967, fatta eccezione per il periodo che lei e sua moglie avete trascorso nel kibbutz, lei si sia piuttosto disinteressato alla questione.
La seguivo, ma non c’erano organizzazioni né discussioni. I gruppi con cui ero in contatto, i circoli intellettuali, non si curavano affatto di Israele. Perfino durante la crisi di Suez del ’56, il punto era se sostenere Eisenhower: che fare? Egli difese una posizione piuttosto forte. Ma nel 1967, c’era la convinzione diffusa che Israele fosse minacciata di genocidio. Era supposizione comune. Perfino prima dello scoppio della guerra, ricordo che i gruppi di pace organizzavano viaggi per inviare persone in Israele da impiegare nei lavori civili.
Si ricorda quali erano le sue posizioni all’epoca?
Non avevo idea dell’equilibrio militare, ma pensavo che le notizie fossero esagerate e che ci fossero modi per dirimere diplomaticamente la questione, come per gli Stretti di Tiran. Allo stesso tempo, circolavano storie orrende di enormi schieramenti ammassati lungo i confini, pronti a piombare sul paese e commettere un genocidio.
Sarebbe corretto affermare che il 1967, nel suo caso come nel caso di molte altre persone con cui era in contatto in questo paese, come per esempio Edward Said, fu un anno di svolta?
Certo. Perché a quel punto la questione non riguardava più soltanto Israele e i suoi diritti ma anche i territori occupati. È stato proprio dopo il 1967 che ho iniziato a tenere conferenze e scrivere sulla faccenda. La mia prima conferenza fu organizzata dal mio amico Assaf Kfoury, allora dottorando al MIT nel 1969. Si trattava di un intervento piuttosto moderato, “Pace nel Medioriente”, ma scatenò veri accessi di collera. Infatti, una delegazione di professori israeliani venne a trovarmi a casa più tardi per dissuadermi dalla mia eresia. E questi erano le “colombe” tra i professori sionisti, il tipo di persone che sarebbe confluito in seguito in Peace Now, perfino forse in Gush Shalom.
Qual era il suo messaggio fondamentale?
Illustravo le possibilità binazionali che esistevano prima del 1967 e la mia convinzione fondamentale era che fossero nuovamente realistiche. Non lo erano state tra il 1948 e il 1967, ma con Israele che in quel momento deteneva il controllo fisico dei territori, credevo che (e credo ancora di più oggi, con più informazioni disponibili) fosse possibile creare una sorta di struttura federale tra la parte ebraica e quella palestinese. E in seguito, se le circostanze si fossero dimostrate appropriate, come pensavo potesse accadere, sarebbe stato possibile muoversi versi un’integrazione più stretta e avvicinarsi a ciò che ho sempre considerato l’ideale binazionale per la regione.
Devo ammettere che nel mio cuore ho sempre pensato che esistesse una soluzione migliore, non un unico stato o una opzione a due Stati, ma una senza Stati. Non è un’utopia, era infatti il modo in cui la regione si presentava sotto gli Ottomani. Nessuno naturalmente vuole tornare all’Impero ottomano, con i suoi strascichi di violenza, corruzione, ecc., ma si vedeva giusto rispetto ad alcune questioni. Lasciarono le persone in pace, così i Greci governavano la loro parte di città, gli Armeni la loro, e così via; vi erano moltissimi scambi, sia commerciali sia di altro tipo. E non avevano confini o, almeno, non contavano troppo. Si poteva viaggiare da Il Cairo a Istanbul fino a Baghdad senza incontrare controlli di frontiera. C’era essenzialmente libertà di movimento.
Sembra l’Unione Europea!
L’Europa è stata per secoli il luogo più selvaggio del mondo. Il livello di barbarie era così straordinario che gli Europei svilupparono sia i mezzi sia la cultura per conquistare il mondo. E gran parte delle cause di questa barbarie risiedeva nel tentativo di imporre lo Stato-nazione, che è estremamente innaturale; separa le persone che hanno legami naturali, impone l’unità a persone che non sono unite fra loro, sia per lingua sia per cultura o altro. Ci vuole molta violenza e brutalità per imporre un perimetro rigido ad organismi complessi e fluidi come le società umane. Tutto ciò si concluse nel 1945, non perché i conflitti si estinsero, ma perché gli Europei compresero che la prossima volta che avessero giocato al loro gioco preferito di massacrarsi l’un l’altro, avrebbero distrutto il mondo.
Ovviamente, lo stesso schema si è esteso a tutto il pianeta. In ogni luogo in cui giunse il colonialismo europeo, si impose il sistema degli Stati-nazione, con la stessa ferocia e violenza; infatti, la maggior parte dei più gravi conflitti nel mondo odierno scaturisce direttamente dai tentativi europei –e includerei anche nord-americani- di imporre sistemi radicalmente innaturali come quello degli Stati-nazione. E in questo caso, anche in Medioriente. Quindi, non penso che esistano linee naturali che si possano tracciare in Medioriente e che abbiano senso dal punto di vista della vita delle persone.
Come concilia il suo sostegno al binazionalismo con la sua opposizione alla soluzione che prevede un unico Stato?
Non è vero che mi oppongo alla soluzione “unico Stato”. Ciò a cui mi oppongo è il fallimento del disegno di un percorso ragionevole che vada da qui a lì. E l’unico percorso ragionevole che è stato tratteggiato inizia con una struttura a due Stati.
Molti di coloro che sono a favore della soluzione “unico Stato” la considerano in antitesi rispetto alla soluzione che prevede due Stati, mentre sembra che lei proponga un continuum.
Non conosco nessun altro percorso ragionevole che sia stato proposto per avvicinarsi alla soluzione binazionale, o dell’unico Stato, se non accettare il mondo com’è e poi intraprendere il passo successivo, che è piuttosto chiaro da circa trent’anni. C’è un consenso internazionale travolgente dietro alla soluzione dei due Stati, ma basato essenzialmente sui confini riconosciuti a livello internazionale. Penso sia una pessima soluzione, però è una tappa verso una soluzione migliore e non ho notizia di nessun altro approccio.
In realtà, penso che quello di “unico Stato” sia un concetto sbagliato. Credo che il concetto migliore sia quello che si riferisce ad uno “Stato binazionale”, perché ci sono due culture separate, lingue differenti e differenti tradizioni, che dovranno riuscire a vivere in collaborazione e armonia. Gli Stati europei, per esempio, si stanno muovendo in questa direzione. Se si considera la Spagna, si osserva una sostanziale autonomia in Catalogna e nei paesi Baschi e presto anche in altre regioni. La stessa cosa sta accadendo nel Regno Unito. In Galles, la lingua è tornata in uso. La Scozia ha raggiunto un certo grado di autonomia. Credo che le cose si stiano muovendo in una direzione maggiormente legata ai reali interessi e bisogni delle persone e questo crea una società più ricca e soddisfatta.
Alcuni potrebbero obiettare che, tuttavia, in Europa questo processo è stato endogeno, sia nel tracciare confini sia nella loro sostituzione, mentre in Medioriente è stato imposto dall’esterno.
Vero. Ma fondamentalmente, almeno secondo me, le persone in queste regioni devono comprendere che staranno meglio senza confini. Penso che possa accadere in un modo abbastanza naturale e, in un certo senso, è già accaduto nell’area israelo-palestinese. Per esempio, gli Israeliani andavano a fare compere e a mangiare nei ristoranti della Cisgiordania e si stabilivano delle relazioni, nonostante i severi controlli e gli insediamenti. Se i confini fossero cancellati e la spirale della violenza terminasse, ciò potrebbe accadere più efficacemente.
Vorrei poi tornare sull’argomento Stato unico/due Stati, ma per il momento parliamo del periodo 1948-’67. Sto cercando di comprendere il rapporto tra il suo profondo coinvolgimento personale fino ai primi anni Cinquanta e il suo apparente disinteresse successivo, che durò fino al 1967.
La chiave di lettura sta nel fatto che dai primi anni Cinquanta fino al 1967 non vedevo speranza alcuna. Ciò che io e le persone con cui ero in contatto speravamo –ossia, una cooperazione in Palestina di stampo socialista e binazionale tra le classi lavoratrici- era esclusa da ogni programma all’epoca, ma dopo il 1967 mi sembrò –e ci credo ancora- che quegli ideali potessero rivivere. Non nella forma pre-1948 (troppe cose erano cambiate), ma Israele avrebbe potuto istituire una struttura federale con autonomia palestinese nei territori occupati, all’interno di una struttura onnicomprensiva che avrebbe potuto, col tempo, condurre ad una maggiore integrazione e, infine, all’erosione dei confini. Israele avrebbe dovuto assumerne il controllo per un certo periodo. Penso che fosse praticabile. Ero il solo a sostenerlo, ovviamente, e sostenni fortemente queste idee insieme soltanto a Israel Shahak e forse un altro paio di persone.
Il suo attivismo nella questione mediorientale dopo il 1967 fu in qualche modo legato al suo vissuto personale o fu anche connesso alle altre questioni che le stavano a cuore, come la politica estera americana?
Sì, certo. Il controllo sul Medioriente, specialmente nelle regioni che producono energia, ha costituito la forza propulsiva della politica estera americana fin dalla seconda guerra mondiale. I documenti non erano totalmente disponibili all’epoca, ma era già evidente.
La relazione molto stretta che gli Stati Uniti allacciarono con Israele iniziò parecchio dopo la vittoria militare di Israele del 1967, che fu considerata dalle élites americane come un grande contributo al potere degli Stati Uniti. Nasser si trovava al centro del movimento dei paesi non allineati, che era disprezzato e odiato. La neutralità era indistinguibile rispetto al comunismo: o con noi o contro di noi. Un altro pilastro del movimento dei paesi non allineati, l’Indonesia di Sukarno, fu abbattuto immediatamente prima, nel 1965, con il colpo di Stato di Suharto, fortemente appoggiato dagli Stati Uniti, che massacrò circa un milione di persone, aprendo la strada allo sfruttamento dell’Indonesia da parte dell’Occidente, un’altra “grande vittoria”. Nel 1967, per l’appunto, Israele assestò un duro colpo a Nasser e questo fu di grande importanza perché era strettamente collegato al controllo delle forniture energetiche del Medioriente. A quel tempo, comunque, Egitto e Arabia Saudita erano fondamentalmente in guerra, una sorta di guerra per procura. L’Arabia Saudita e il fondamentalismo islamico erano elementi privilegiati nella politica estera americana e lo sono ancora oggi in molti modi.
In realtà -all’epoca non lo sapevo- gli sforzi che gli Stati Uniti facevano per controllare il Medioriente costituirono il filo rosso della politica estera americana fin dalla seconda guerra mondiale. Uno dei più importanti consiglieri di Roosevelt, A.A. Berle, dichiarò, verso la fine degli anni Quaranta, che se fossimo riusciti a controllare il Medioriente avremmo controllato il mondo. Il Dipartimento di Stato descrisse il Medioriente come una “stupenda fonte di potere strategico”, il “più grande premio materiale della storia”. Queste concezioni erano comuni verso la fine degli anni Quaranta. Infatti, lo si iniziò a capire già perfino durante la guerra, combattendo una mini-guerra tra Stati Uniti e Gran Bretagna per il controllo dell’Arabia Saudita.
Fu dopo il 1967 che molti dei suoi colleghi, secondo me, svilupparono un punto cieco quando guardavano alle questioni mediorientali.
Sì, intendo dire che la vittoria di Israele del 1967 toccava un nervo scoperto di molti intellettuali progressisti negli Stati Uniti e fu salutata con grande favore. Non nei circoli più vicini a me, che erano impegnati nella resistenza contro la guerra in Vietnam, ma all’interno della comunità intellettuale di stampo genericamente progressista. Dal loro punto di vista, la vittoria di Israele era un dono del cielo, perché finalmente qualcuno dimostrava al mondo come si dovevano trattare gli arrivisti del terzo mondo.
Si riferisce nuovamente a Nasser?
Sì, agli arabi in generale. Una sorta di fenomeno generalizzato di cui Nasser era il simbolo.
Questo per quanto riguardava l’intelligencija liberal-progressista. Ma che mi dice della Sinistra vera e propria?
La Sinistra abbracciava una sorta di sionismo pacifista. Se intende la vera Sinistra, invece, si opponeva all’occupazione.
Ma comunque non si esponeva sulla questione?
Ha ragione, l’occupazione non era una preoccupazione fondamentale. Per un verso, non era chiaro che l’occupazione sarebbe stata permanente. Se si fosse potuto accedere ai documenti governativi israeliani, sarebbe stato chiaro, ma all’epoca pareva che Israele si sarebbe ritirata. Occorre ricordare che fino al 1971 la posizione americana ufficiale sosteneva che Israele avrebbe dovuto ritirarsi dai territori occupati con “minime e reciproche modifiche” dei confini dopo il cessate il fuoco. Questa era la posizione ufficiale dal 1967 –Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU n. 242- al 1971. Fu molto facile, quindi, per gli intellettuali progressisti dichiarare: “Bene, siamo d’accordo col governo americano” e per le parti di mondo toccate dalla vicenda dichiarare: “Bene, non ci piace, ma si ritireranno, perciò la questione è ricomposta”.
Il 1967 cambiò tutto qui; fu quasi istantaneo. All’improvviso la comunità degli intellettuali sviluppò una passione per Israele, fu una storia d’amore. Il sostegno alle azioni di Israele ne costituì un riflesso: come accennavo prima, persone come Irving Howe e Norman Podhoretz, che erano fino ad allora indifferenti al sionismo, divennero sionisti quasi fanatici dopo il 1967. Questo era dovuto in parte al fatto che in quel momento l’alleanza Stati Uniti-Israele si era solidamente stabilita, rendendo possibile sostenere il governo americano e sembrare preoccupati per questioni umanitarie allo stesso tempo. Si potevano sostenere la violenza e il terrore ed essere nobili e altruisti, difendendo gli ebrei dall’antisemitismo e dal genocidio. Questa ha sempre costituito una combinazione irresistibile per gli intellettuali progressisti. Si può osservare lo stesso fenomeno in altri luoghi, come per esempio in Bosnia.
Tuttavia, la storia d’amore non era nuova. Era già esistita nella società americana prima di allora. Se si legge la stampa degli anni Venti e Trenta, emerge un quadro simile. All’epoca non si capiva, ma questo paese era già immerso nel sionismo, in questa concezione di promesse bibliche realizzate. Non riguardava solo i cristiani evangelici; una larga fetta della popolazione era immersa nella Bibbia; Woodrow Wilson leggeva la Bibbia ogni giorno; per Truman, essa era reale. Lawrence Davison ha scritto una bella storia del primo periodo con molte citazioni dalla stampa. Harold Ickes, uno dei più importanti consiglieri di Roosevelt, descrisse il ritorno degli ebrei in Palestina, per usare le sue parole esatte, come “il più straordinario evento storico nella storia”. Intendo dire che questa è una componente profonda del pensiero britannico e americano e sarebbe un errore ignorarla.
Infine l’elemento della crociata. Quando il generale Allenby conquistò Gerusalemme nel 1917, fu paragonato a Riccardo Cuor di Leone, descritto come colui che finalmente era riuscito laddove i crociati avevano fallito: espellere gli infedeli dalla Terra Santa. Il suo necrologio ripeteva le stesse cose vent’anni dopo. È simile al modo in cui la Cina parla dei suoi secoli di umiliazione. Per l’Occidente, ci furono 1300 anni di umiliazione quando i pagani si impossessarono della nostra Terra Santa. Ora è di nuovo nelle nostre mani, nel mondo civile e gli ebrei vi stanno facendo ritorno. Essi sono moderni, Europei e sviluppati e i Palestinesi trarranno enorme vantaggio dalla presenza di questi elementi di progresso in mezzo a loro. È la mentalità americana.
Credo anch’io che questa fosse la mentalità americana di questi primi periodi, ma costituì davvero un fattore rilevante anche fra il 1948 e il 1967?
Non fu mai un fattore davvero rilevante tra gli intellettuali progressisti. Non era incarnato da Irving Howe, per esempio, ma esisteva, era parte del sostrato culturale generale. E il 1948 lo scatenò. Innescò la Rinascita della Fine dei Giorni, che più tardi divenne importante. Gli ebrei erano tornati in Palestina, a Gerusalemme, perciò il Secondo Avvento era imminente. Cristo sarebbe tornato e si sarebbero avuti mille anni di pace. Questo riguarda una larga parte della società americana. Non riguarda gli intellettuali, ma all’incirca un terzo del paese crede che ogni parola della Bibbia sia vera in senso letterale. E all’incirca lo stesso numero di persone crede che il Secondo Avvento avverrà durante il corso della loro vita. Questo era il clima del 1967, quando dei “fanatici arabi tentarono di distruggere Israele”. Ci fu una sorta di reviviscenza di questo primo spirito, sebbene ovviamente il 1967 fosse molto diverso dal 1920.
Lei ha spiegato come le élite politiche americane e gli intellettuali progressisti reagirono al 1967, ma ha detto poco sugli intellettuali propriamente di sinistra.
Tipo chi? Sto cercando di pensare… Dunque, ho scritto, in effetti, per un buon giornale pacifista, Liberation. Erano sionisti moderati e sostenevano che Israele avrebbe dovuto ritirarsi dai territori occupati. I movimenti pacifisti organizzati, come SDS [Students for a Democratic Society – Studenti per una Società Democratica] e altri, si opponevano all’occupazione e sposarono una linea sionista moderata, che non era molto diversa da quella di gruppi o persone in Israele che in seguito diedero vita a Peace Now e che chiedevano il ritiro dai territori. Non si parlava praticamente mai dei Palestinesi. Il nazionalismo palestinese non entrò nell’agenda pubblica fino alla metà degli anni Settanta. Ma non c’erano prese di posizione su questo problema.
Come lo spiega? È perché si trattava di persone che non avevano bisogno di ingraziarsi le strutture di potere?
Prenda una persona come Howard Zinn. Non abbiamo mai parlato molto del conflitto. Infatti, se si guarda a ciò che ha scritto, non penso che si possa trovare nulla su Israele e i Palestinesi fino probabilmente a questo ultimo decennio. Occorre ricordare che Oslo avvenne subito dopo la prima intifada e fu percepito –non da me, ma da molti- come un passo avanti verso la pace.
Quindi fu solo un enorme punto cieco?
Dunque, prima di tutto, un’altra cosa molto importante accadde dopo il 1967: l’emergere della Shoah come tema di grande rilevanza. A partire dal 1967, e specialmente dopo il 1973, nacquero musei della Shoah in ogni città e gli studi sulla Shoah iniziarono ad essere parte dei piani di studi. Ovviamente, la gente sapeva già da tempo, ma se si guarda al periodo 1945-metà anni Sessanta, semplicemente la questione non nera rilevante. L’opera di ricerca fondamentale sulla Shoah, il libro di Raul Hilberg, fu scritta nel 1958 o ’59 e fu quasi ignorata; Hilberg fu addirittura criticato. Il clima assomigliava a ciò che il Partito comunista chiamava “antifascismo prematuro”, cioè prima che Stalin si opponesse al fascismo. Hilberg ricorda tutto ciò con amarezza nelle sue memorie.
Per tutti quegli anni, la tendenza era: “Non vogliamo occuparci di questo problema, gli ebrei stanno cercando di integrarsi nella società americana, stiamo cercando di migliorare le relazioni con la Germania, Israele non ci interessa troppo, dimentichiamoci di queste vecchie cose”.
Infatti, ancora oggi, quasi nessuno sa come gli ebrei americani reagirono alla Shoah. Durante la guerra e nei primi anni Quaranta, vi furono molte pressioni affinché la Gran Bretagna smettesse di impedire ai migranti di spostarsi in Palestina dall’Europa. Il libro di Leon Uris, Exodus, per esempio: tutti lo conoscono. Ma perché non si spostavano verso gli Stati Uniti? Dopo la guerra, i sopravvissuti vivevano in campi non molto diversi dai campi di concentramento, fatta eccezione per le camere a gas. Vivevano in condizioni miserabili. Emissari sionisti assunsero il controllo di questi campi e ora sappiamo –ma non sapevamo all’epoca- che essi organizzavano l’emigrazione di donne e uomini in salute verso la Palestina, facendone essenzialmente carne da cannone. Forse alcuni davvero volevano andarci, ma dubito che fosse la loro prima scelta. Le organizzazioni ebraiche negli Stati Uniti non li volevano. Non c’era praticamente pressione qui per accogliere immigrati ebrei negli Stati Uniti.
Erano visti come un fardello che poteva gravare sul processo di integrazione?
Certo. Infatti, per quanto ne so, l’unico gruppo ebraico che fece pressione affinché gli ebrei potessero emigrare verso gli Stati Uniti era il Council of Judaism (Consiglio ebraico), un gruppo antisionista. Esisteva l’antisemitismo nel paese, non era violento ma c’era. Ad Harvard, per esempio, dove facevo ricerca negli anni Cinquanta, l’antisemitismo si poteva tagliare col coltello: un antisemitismo di origine Wasp [White Anglo-Saxon Protestant – Bianco, Anglosassone, Protestante] e classista. C’erano forse due o tre ebrei in facoltà e questa è una delle ragioni per le quali il MIT divenne una grande università: persone come Norbert Weiner e altri non poterono entrare ad Harvard e quindi si rivolsero a quella scuola di ingegneria lì vicina. Tutto ciò poi cambiò, ma verso la fine degli anni Quaranta la situazione era questa.
Perlatro, tutto ciò ha radici lontane. Louis Brandeis era già coinvolto nel movimento sionista negli anni Venti. Dopo la Dichiarazione Balfour, scrisse al suo assistente, Felix Frankfurter, sostenendo che mandare gli ebrei in Palestina fosse un’ottima idea, perché ciò avrebbe impedito agli ebrei russi, come i miei genitori, di venire qui. Non volevano persone del genere attorno, preferivano mandare quella gentaglia in Palestina. Ma negli anni Quaranta quella gentaglia moriva nei campi di concentramento e non arrivò qui. Truman, per esempio, si considerava un nobile filantropo perché cercò di mandare queste persone in Palestina. Ma la possibilità di accoglierli qui non fu nemmeno presa in considerazione. L’idea era di lasciarli andare in Palestina. È altruista, loro costruiranno il loro paese, faranno sbocciare il deserto, bonificheranno le paludi e soprattutto non verranno qui.
In che modo l’antisemitismo e la nuova attenzione alla Shoah hanno influenzato il periodo post-1967?
Il fatto che l’attenzione sul tema della Shoah divenne così ampia all’interno dell’intero sistema culturale significò che, da quel momento in avanti, ogni cosa che facevamo era giudicata alla luce del genocidio. Questo represse automaticamente una seria opposizione a ciò che Israele stava facendo. E gli Israeliani lo sfruttarono. Intorno al 1970, per esempio, Abba Eban scrisse nel Congress Weekly, il giornale dell’ American Jewish Congress, che lo scopo degli ebrei americani era dimostrare che l’antisionismo –che poi significa opposizione alle politiche del governo israeliano- è antisemitismo oppure un qualche tipo di patologico odio di sé degli ebrei, che esclude ogni altra spiegazione. Egli portò due esempi di odio di sé: Izzy Stone ed io. Stone era un sionista convinto. Fu inviato in Palestina nel 1948 come corrispondente ed era addirittura a favore dell’Irgun. Non abbandonò mai il suo impegno, ma era critico nei confronti delle politiche di Israele e quindi fu etichettato come un nevrotico ebreo che odiava se stesso. E anch’io, a causa di ciò che scrivevo, perché secondo loro ogni critica di Israele poteva essere scritta solo da questo tipo di persone. Fu facile per la comunità ebraica americana poiché non c’era praticamente alcun sostegno ai commenti critici verso Israele. La sinistra militante era moderatamente sionista. La sinistra socialdemocratica era fortemente sionista. Infatti, nel mio libro Peace in the Middle East? (Pace in Medioriente?), c’è un capitolo che ripercorre le loro denunce a persone come Dan Berrigan, per esempio, perché sollevava proteste rispetto ai diritti dei Palestinesi, il che dimostrava che fosse una sorta di estremista, pro-terrorista che, nonostante fosse un prete, era stato incarcerato per aver rovesciato del sangue su documenti di leva quando faceva parte del movimento contro la guerra in Vietnam.
Tuttavia, anche prendendo in considerazione i fattori cui ha accennato, è comunque impressionante la quasi totale mancanza di opposizione alla questione israelo-palestinese in un’epoca in cui le persone sembravano molto più inclini ad opporsi alla politica estera statunitense di quanto non fecero in seguito.
La questione israelo-palestinese non era realmente percepita come politica estera. L’alleanza Stati Uniti-Israele era lampante, ma sembrava che, su questa questione, gli Stati Uniti si schierassero dalla parte degli angeli. Stavano salvando le vittime del genocidio hitleriano dalla distruzione araba. Ecco perché la rivisitazione della Shoah fu così significativa: fornì il contesto all’interno del quale pensavamo ciò che accadeva in Israele-Palestina. Se non condividevi le politiche su questo tema, eri allontanato perché era una questione spinosa. Non appena ne parlavi, eri accusato di antisemitismo e negazionismo della Shoah. In generale, esisteva un tacito accordo tra colleghi e amici che pretendeva non si parlasse della questione.
Negli anni Settanta, intratteneva stretti rapporti con Edward Said e Eqbal Ahmad.
Sì, eravamo molto amici. Con Edward, il rapporto era soprattutto personale, ma anche legato al Medioriente. Con Eqbal condividevo molte cose, poiché anche lui era molto attivo su diversi fronti: il Vietnam, l’America centrale, il problema dell’oppressione e del dominio imperialista. Fu attraverso di loro, specialmente grazie ad Edward, che venni in contatto con l’OLP[3].
Mi è parso di capire che lei abbia cercato di spiegare ai vertici dell’OLP quali potessero essere i modi più efficaci di trasmettere il loro messaggio negli Stati Uniti.
Sì, beh, non ne ho mai parlato né scritto, eccetto privatamente…
Penso che questi incontri possano essere rivelatori del modo in cui il movimento operò.
Sì, penso infatti che siano piuttosto significativi. Ma il movimento ha così tanti problemi che non voglio metterlo ulteriormente in imbarazzo. Edward [Said] organizzava degli incontri a New York quando i vertici dell’OLP venivano in città per gli incontri ONU.
Qusto accadeva all’incirca alla fine degli anni Settanta/inizio anni Ottanta. L’idea di Edward era di indurli ad ascoltare le persone che erano solidali nei confronti dei Palestinesi ma critiche nei confronti delle politiche dell’OLP. Mi recavo lì con Edward e Alex Erlich, un amico che insegnava storia russa alla Columbia, un vecchio bundista[4], marxista e antisionista, un uomo davvero onesto. Gli incontri non portavano a nulla. Andavamo nella loro suite al Plaza, uno degli hotel più lussuosi di New York, e fondamentalmente stavamo lì ad ascoltare i loro discorsi sul modo in cui essi stavano guidando il movimento rivoluzionario mondiale e così via.
Le racconto un aneddoto che fa capire molte cose. Durante la guerra in Libano del 1982, un Israeliano, persona onesta, di nome Dov Yermiya, scrisse un eccezionale diario di guerra in ebraico. Era un civile, uno dei fondatori dell’Haganah, con un ottimo stato di servizio ed era considerato un eroe di guerra in Israele. Era stato inviato in Libano per gestire la questione dei prigionieri. Il diario era davvero eloquente e feroce. Pensai che sarebbe stato utile averne disponibilità in inglese e mi recai alla South End Press per la traduzione e la pubblicazione. Tuttavia, essi non avevano soldi: non sarebbe mai stato recensito e nessuno lo avrebbe letto. Così chiesi a Edward, che all’epoca era vicino alla leadership dell’OLP, di provare a convincere l’OLP a finanziarne l’acquisto e piazzarlo nelle biblioteche, così almeno qualcuno lo avrebbe letto. Tornò indietro piuttosto arrabbiato. Disse che l’OLP lo avrebbe acquistato solo se in copertina ci fosse stato scritto “Sponsorizzato dall’OLP!”.
Era davvero sconcertante che queste persone non avessero idea del fatto che in una società più o meno democratica sia possibile raggiungere la gente. Perfino i Nord-Coreani, in un loro modo strano, hanno cercato di aiutare i gruppi di solidarietà. Perciò era davvero sorpreso dall’incapacità dei leader dell’OLP di capire ciò che ogni movimento nazionalista rivoluzionario comprende, ossia la necessità di guadagnarsi il sostegno della popolazione americana. Si era creato un equivoco fondamentale rispetto al funzionamento di una società democratica. Gli Stati Uniti sono ben lungi dall’essere una democrazia eccellente, ma sono più o meno democratici. L’opinione pubblica conta. Il movimento contro la guerra e i movimenti di solidarietà con l’America centrale hanno fatto la differenza, limitando nettamente l’intervento militare statunitense, ad esempio. Ma la leadership palestinese non è riuscita a capirlo. Se fossero stati onesti e avessero dichiarato: “Noi siamo fondamentalmente nazionalisti, vogliamo occuparci dei nostri affari, eleggere i nostri sindaci, liberarci dall’occupazione”, sarebbe stato facile organizzarsi e avrebbero potuto ottenere un enorme sostengo. Ma se vengono negli Stati Uniti, brandendo i loro kalashnikov e dichiarando che stanno organizzando un movimento rivoluzionario mondiale, allora quello non è il modo di ottenere la simpatia dell’opinione pubblica; ciò fu poi ovviamente sfruttato ed esagerato.
In diverse occasioni specifiche si sarebbe potuto fare molto per organizzare un sostegno pubblico per i Palestinesi, ma le loro azioni e maniere minarono questi sforzi. Ciò che la leadership davvero agognava era un invito alla Casa Bianca. Una concezione diversa della politica, una visione antidemocratica, che non capisce che un patto in una stanza piena di fumo non è fare politica. Se ci sarà un cambiamento nella politica degli Stati Uniti, sarà attraverso l’opinione pubblica e la pressione pubblica sarà conseguenza dell’essersi guadagnati il sostegno della gente.
Qual è la sua spiegazione per tutto questo?
Forse lei lo saprà meglio di me. La mia sensazione è che loro provenissero da un contesto quasi feudale, nel quale questo non è il modo in cui le cose accadono. Le cose accadono a causa di patti tra leader. Il che è per molti versi vero, ma il pubblico non può essere ignorato.
In effetti, poi entrarono alla Casa Bianca…
Sì, entrarono nel 1988, quando Ronald Reagan e George Shultz, il Segretario di Stato, infine riconobbero l’OLP, ma non è questo che conta. Ricorda cosa accadde? L’intifada andava avanti da quasi un anno, il Consiglio Nazionale Palestinese [PNC] aveva formalmente riconosciuto la soluzione dei due Stati e Arafat stava per tenere un discorso molto importante alle Nazioni Unite. Shultz e Reagan finsero che Arafat rifiutasse di intraprendere iniziative per un accordo politico e perciò non gli permisero di entrare negli Stati Uniti per tenere il suo discorso all’ONU, sebbene tale divieto fosse illegale e gli Stati Uniti si stessero rendendo ridicoli agli occhi del mondo. Arafat stava apertamente invitando alla pace, il PNC aveva fatto questo enorme sforzo, ma Shultz e Reagan dichiararono: “Non vediamo nulla, se non il fatto che tu vuoi la guerra”.
Infatti, si ricorderà che la risposta formale di Israele alla dichiarazione formale del PNC consisté nella dichiarazione del maggio 1989, da parte della coalizione di governo di Shimon Peres e Yitzhak Shamir, secondo cui, in primis, non ci sarebbe mai stato un altro Stato palestinese tra Israele e la Giordania (intendendo che la Giordania era già, per quanto li riguardava, uno Stato palestinese e che non ce ne poteva essere un altro) e che, in secondo luogo, il futuro dei territori occupati sarebbe stato deciso sulla base delle linee guida dettate dal governo israeliano. Ciò fu immediatamente avallato da James Baker, il Segretario di Stato di George H. W. Bush, e venne definito Piano Baker. Molto di tutto ciò non è scritto nei libri di storia, poiché sarebbe troppo imbarazzante, ma a quel punto, per salvare un po’ di credibilità, le amministrazioni Bush e Reagan fecero alcuni gesti formali, invitando alcuni Palestinesi per negoziare. Era però un gioco perverso. Forse alcuni Palestinesi lo presero sul serio, ma Americani e Israeliani non lo fecero. Infatti, in un suo articolo, Nahum Barnea, un famoso editorialista israeliano, descrisse come Yitzhak Rabin incontrò i membri di Peace Now e assicurò loro che non avrebbero avuto nulla da temere da queste negoziazioni: esse erano semplicemente un piano degli amici americani per permettere agli Israeliani di contare su un altro anno per assicurarsi che i Palestinesi sarebbero stati schiacciati con la forza. E saranno schiacciati, dichiarò. E questa fu solamente un’opportunità di andare avanti un altro anno, mentre il mondo pensava che i negoziati di pace stessero avanzando.
Quando successe tutto ciò?
Fu nel 1989, all’inizio della prima amministrazione Bush senior. Ma se i Palestinesi pensavano di essere entrati nella stanza dei bottoni, si sbagliavano. L’ambasciatore americano [in Tunisia], Robert Pelletreau, chiarì subito che non si sarebbe discusso nulla. E Rabin aveva ragione: i Palestinesi ebbero ancora un anno e poi furono schiacciati. Poi arrivò Arafat che scavalcò i negoziati israelo-palestinesi con Oslo, eccetera.
Mi permetta di approfondire la faccenda. Mettendo da parte il modo in cui l’OLP ebbe a che fare con gli Stati Uniti, come lo valuterebbe come movimento di liberazione nazionale in termini di leadership e capacità di mobilitazione?
Non mi piace Abba Eban, ma disse qualcosa che sfortunatamente era accurata: “La leadership palestinese non ha mai mancato l’opportunità di mancare un’opportunità”. In un certo senso, stavano facendo cose giuste ma le fecero in un modo che permise ai loro nemici, Israele e gli Stati Uniti, di indebolirle ogni volta. Credo che esistessero alternative. Questa fu una delle ragioni per cui Edward Said si chiamò fuori e divenne amaramente critico nei confronti dell’OLP. Anche Eqbal Ahmad, devo dire.
Ma, d’altra parte, fecero anche molte cose buone. Riuscirono a mantenere vivo un patriottismo palestinese anche in condizioni molto dure, il che è un buon risultato. Mantennero vivo lo spirito. C’erano periodi, specialmente nel 1988, in cui questo spirito prosperò, anche senza troppo aiuto da parte dell’OLP. Soprattutto a livello locale, per come l’ho capito io. Mentre viaggiavo per tutta la Cisgiordania nella primavera del 1988 (soprattutto con Azmi Bishara, a volte con amici israeliani antisionisti), rimasi sorpreso di sentire attivisti, per esempio a Nablus, che facevano davvero buone cose, rispondere, quando chiedevo loro quali fossero i loro obiettivi politici: “Devi chiedere all’OLP”. Contestualmente, però, il disprezzo per l’OLP era inequivocabile. Dichiaravano: “Vogliamo badare ai nostri affari. Quelle persone a Tunisi stanno giocando ai loro giochi. Ma siamo impantanati: sono i nostri portavoce nazionali, perciò rivolgetevi a loro per dichiarazioni formali”.
A me sembrò che Arafat fosse stato spinto ai margini dai movimenti locali: c’erano proteste nei campi profughi e molti dissidenti nei territori occupati. Qualche anno più tardi, quando erano in corso i negoziati dopo la guerra del Golfo del 1990-91, la figura di spicco parve essere Haydar ‘Abd al-Shafi, che guidava il comitato palestinese per i negoziati. Fu molto fermo nel dichiarare che non ci poteva essere accordo senza lo stop agli insediamenti. Nel frattempo, gli outsider, coloro che si erano rifugiati a Tunisi[5], aggirarono i negoziati palestinesi attraverso la Norvegia. Fecero un patto con gli Israeliani; il patto li riportò al vertice della leadership scavalcando le condizioni poste da Abd al-Shafi. Non c’è nulla della Dichiarazione dei Principi [DoP], la famosa stretta di mano sul prato della Casa Bianca, che dica qualcosa rispetto all’espansione degli insediamenti. Peggio ancora, non c’è nulla sui diritti dei Palestinesi. Tutto ciò che contiene è la risoluzione n. 242 dell’ONU, che non nomina nemmeno i Palestinesi. La 242 divenne la parte finale degli accordi di Oslo.
Ma quando la Dichiarazione dei Principi fu firmata, la sensazione in Palestina fu che Oslo costituisse una grande speranza per il futuro e che qualcosa di meraviglioso era accaduto. Edward Said e io eravamo tra le pochissime persone fortemente in disaccordo con il sentimento dominante tra i Palestinesi all’epoca. Entrambi pensammo immediatamente che fosse una catastrofe che avrebbe minato i diritti nazionali palestinesi. Ne scrissi abbondantemente. Non sapevo abbastanza delle dinamiche interne per capire quali fossero le ragioni, ma si potevano dedurre dai documenti e da ciò che stava accadendo.
Rispetto all’odierna politica estera degli Stati Uniti, si è dimostrato piuttosto critico sulle tesi di Mearsheimer e Walt sulle politiche in Medioriente.
Vorrei che avessero ragione, perché in quel caso ci sarebbero ovvie implicazioni strategiche e io potrei smetterla con tutto questo infinito lavoro: scrivere, parlare, cercare di organizzare, sarebbe tutta una perdita di tempo. In quel caso, invece, si potrebbe semplicemente indossare una giacca e una cravatta, recarsi nei quartier generali aziendali di General Electric, di JP Morgan Chase, della Camera di Commercio americana, del Wall Street Journal e spiegar loro educatamente che la politica statunitense in Medioriente rispetto a Israele sta danneggiando i loro interessi. Non è un segreto che il capitale privato concentrato eserciti un’influenza immensa sulla linea politica del governo in ogni direzione. Se la “Lobby” sta costringendo gli Stati Uniti a politiche che vanno contro gli interessi di queste persone –quelle che effettivamente guidano il paese- allora dovremmo riuscire a convincerli. E loro scaccerebbero la Lobby israeliana dagli affari in cinque secondi. La Lobby non è nulla al loro confronto. La lobby dell’industria militare spende abbondantemente di più e ha molta più influenza della Lobby israeliana. È così improbabile che non vale la pena nemmeno parlarne, se non come di uno scherzo.
Il problema fondamentale è il fallimento nell’affrontare il fatto che le linee politiche del governo non sbucano dal nulla. Mearsheimer e Walt sono realisti nella teoria delle relazioni internazionali, che essenzialmente sostiene che la struttura del potere interno non è un fattore rilevante per la formazione della linea politica di uno Stato. La linea politica dello Stato pare avere a che fare con qualcosa chiamato “interesse nazionale”, una sorta di astrazione creata nell’interesse della popolazione, sebbene non lo sia affatto. Per secoli, si è creduto che esistano molti fattori all’interno di una società, diverse distribuzioni di potere, alcune più potenti di altre… Dovrebbe essere una tautologia, ma è stata quasi denegata dalla teoria delle relazioni internazionali. D’altra parte, se la accettiamo come tautologia –ed esiste un’evidenza schiacciante che lo sia, ancor oggi- ci dobbiamo chiedere perché coloro che sono nella posizione di forgiare e determinare la linea politica del governo degli Stati Uniti in maniera sostanziale dovrebbero accettare qualcosa che danneggi i propri interessi. Dovremmo spiegare questa strana contraddizione, poiché essi possono facilmente cambiare la linea politica se volessero. Penso che la ragione sia molto semplice: i maggiori settori del potere privato negli Stati Uniti pensano che le politiche americane nei confronti di Israele siano alquanto accettabili.
Perché?
Perché Israele è una società ricca e avanzata. È dotata di un forte settore high-tech, strettamente integrato con l’economia high-tech statunitense. È molto potente a livello militare, strettamente connessa all’industria militare e alla linea politica militare statunitense. Quando Obama dice: “Vi daremo gli F35”, sta sostenendo la Lockheed Martin[6] in due modi: quando i contribuenti americani pagano la Lockheed Martin, inviano jet avanzati a Israele, mentre l’Arabia Saudita non si lamenta per l’invio di equipaggiamento di seconda qualità.
Sta accadendo anche ora. È stato appena concluso il più grande affare militare di sempre con l’Arabia Saudita per 60 miliardi di dollari, per inviare equipaggiamento militare. Per Israele va bene: l’equipaggiamento è di seconda scelta e, in ogni caso, non potrebbero farci molto. Ma, al di là di questo, i rapporti tra l’intelligence e le forze armate americane e Israele sono molto stretti da anni. Le aziende americane costruiscono impianti in Israele (per esempio, Intel, il maggior produttore di chip) e le nostre forze armate vanno lì a studiare le tecniche di guerra urbana. Israele è un ramo del potere statunitense in un’area strategicamente critica del mondo. Questo ovviamente fa infuriare l’opinione pubblica araba, ma gli Stati Uniti non se ne sono mai preoccupati.
Sta dicendo che la Lobby non è un fattore determinante?
No, la Lobby è reale e significativa. Su questo non si può dubitare, né io né nessun altro l’ha mai messo in dubbio. È molto ben organizzata e ha ottenuto le sue vittorie. Ma se si scontra contro gli interessi strategici dello Stato o del settore industriale, deve indietreggiare. Ci sono moltissimi casi a cui posso accennare. Tuttavia, quando la Lobby si conforma agli interessi dei potenti settori nazionali, allora diventa influente. Questo è vero per le lobby in generale. Per esempio, la lobby indiana nel Congresso pare abbia rivestito un ruolo fondamentale nel fare pressioni sul Congresso stesso affinché accettasse il trattato USA-India, che autorizzò gli Stati Uniti a sostenere indirettamente il programma nucleare indiano.
Se torniamo ad alcune delle questioni discusse in precedenza, molte persone direbbero che queste lobby sono più efficaci nel plasmare l’opinione pubblica, piuttosto che in faccende specifiche.
Sì, ma sfondano una porta aperta. Ci sono ragioni indipendenti per le quali gli Americani sono orientati verso Israele. Si tratta di una relazione di lungo corso che nacque ben prima del sionismo. Consiste in un’istintiva identificazione, con un carattere unico. C’è il paragone con Americani e Indiani d’America, i barbari pellirossa che cercarono di impedire il progresso e lo sviluppo attaccando bianchi innocenti: è ciò che accade in Israele-Palestina. Ciò è presente nella Dichiarazione di Indipendenza, scritta da Thomas Jefferson, il più libertario tra i padri fondatori. Una delle accuse a carico di re Giorgio III contenute nella Dichiarazione fu quella di aver scatenato senza pietà contro di noi i selvaggi Indiani, il cui modo di fare la guerra consisteva in torture e massacri. Ciò potrebbe arrivare direttamente dalla propaganda sionista. C’è una tensione molto profonda nella cultura e nella storia americana. Dopotutto, il paese fu fondato da estremisti religiosi che brandivano il libro sacro e descrivevano se stessi come figli di Israele che facevano ritorno alla Terra Promessa. Il sionismo trovò il suo habitat naturale qui da noi.
Quindi collocherebbe la Lobby soprattutto all’interno di un più ampio contesto culturale, in cui gli Americani guardano ad Israele e vi si riconoscono?
Per molti Americani è istintivo: gli ebrei in Israele stanno rivivendo la nostra storia. Vi si riconoscono e, inoltre, vi riconoscono i crociati che riuscirono ad espellere i pagani. Sussiste un’analogia con la conquista americana del territorio nazionale e anche i sionisti usano questa analogia, ma da un’angolazione positiva: “Portiamo la civiltà ai barbari”, che costituisce il cuore dell’ideologia imperialista occidentale. È ben radicata.
Ma tutto ciò riguarda il grande pubblico americano, “l’America media”, se vuole. Ma che mi dice della comunità intellettuale americana? Perché guarderebbe ad Israele?
Non fu perché la Lobby divenne improvvisamente più influente nel 1967. Diciamo che alcuni intellettuali di sinistra che prima avevano manifestato un interesse pressoché nullo per Israele, o addirittura vi si opponevano, ne divennero improvvisamente ferventi sostenitori. La propaganda della Lobby era sempre esistita. Infatti, prima del 1967, aveva fallito nei suoi sforzi di controllare giornali come Commentary o pubblicazioni come il New York Times, per far sì che adottassero una linea più favorevole al sionismo.
Parlare della Lobby è però difficile: cos’è la Lobby? Gli intellettuali americani sono Lobby? Il Wall Street Journal, il più influente quotidiano economico del sistema politico, è Lobby? La Camera di Commercio? Lo è il Partito repubblicano, molto più estremista dei Democratici, sebbene la maggior parte degli ebrei voti e finanzi i Democratici?
Quali sono le implicazioni di queste questioni per le persone che vorrebbero vedere un cambiamento nella politica americana in Medioriente?
Penso che dobbiamo diventare consapevoli che se le linee politiche del governo cambieranno, sarà grazie ai movimenti popolari di massa, abbastanza influenti da diventare un elemento fondamentale nella programmazione politica, come il movimento contro la guerra degli anni Sessanta.
Ha fatto menzione più volte della natura esplosiva della questione, della difficoltà di discuterla negli Stati Uniti. Ha percepito cambiamenti?
Per molto tempo è stato difficile discutere e le conferenze in proposito scatenavano grandi ire e, a volte, violenze. Ho centinaia di esempi, ma ne racconterò uno risalente alla fine degli anni Ottanta, quando fui invitato a tenere una settimana di seminari di filosofia alla UCLA[7]. A margine, ovviamente, si facevano anche discussioni politiche. Il nodo fondamentale era l’America Centrale e la gran parte degli interventi verteva su di essa. Ma un professore, una sorta di sionista moderato, mi chiese se potevo fare un intervento sul Medioriente e risposi di sì. Un paio di giorni dopo, mi telefonò la polizia del campus, che voleva mettermi sotto protezione di agenti in uniforme per l’intero periodo e mi chiedeva se fossi d’accordo. Risposi che non lo ero. Tuttavia, poliziotti in borghese mi seguivano dappertutto: si sedevano nelle aule dei seminari quando parlavo, mi seguivano nel club della facoltà, ecc., con le loro fondine sui fianchi. Il mio intervento sul Medioriente, che fu tenuto nell’auditorium centrale del campus, provocò molto subbuglio e fervore crescente: la sicurezza era pensata sul modello di quella degli aeroporti, si entrava da una sola porta, tutto veniva ispezionato, ecc. L’intervento ebbe luogo, non fu interrotto, ma quando me ne andai fu sferrato un attacco personale sulla stampa del college, non solo nei miei confronti ma anche nei confronti del professore che mi aveva invitato. Ci fu perfino un movimento che chiese la revoca del suo incarico e che fallì, ovviamente, perché lui era una figura di spicco. Ma era indicativo dello spirito del tempo.
Cose simili accadevano anche qui al MIT. Ogniqualvolta tenevo un discorso, la polizia era lì e insisteva per accompagnare me e mia moglie alla macchina subito dopo. Quando Israel Shahak parlò qui nel 1995, il suo discorso fu interrotto fisicamente da alcuni studenti del MIT. Fu grottesco. Ricordo un ragazzetto di 20 anni che indossava una kippah e che si alzò in piedi dicendo: “Come può dire questo quando sei milioni di noi sono morti?”. Lui era Israel Shahak, sopravvissuto al ghetto di Varsavia e a Bergen-Belsen!! E questo bambino gli stava ricordando che sei milioni di “noi” erano morti, ottenendo acclamazioni dal pubblico. Un paio di miei amici sedeva in fondo: erano rifugiati europei, scappati intorno al 1939. Dissero che non avevano mai visto nulla di simile dai tempi della Gioventù hitleriana. Ed eravamo nel 1995. Da allora le cose sono cambiate. Iniziavano a cambiare già allora, ma nei successivi dieci o quindici anni sono cambiate molto.
Quali furono le ragioni del cambiamento?
Vi furono molte ragioni. Per un verso, i giovani studenti palestinesi qui negli Stati Uniti iniziarono ad organizzarsi e non nel modo in cui lo faceva l’OLP. Le questioni che sollevavano –oppressione, occupazione, aggressione- erano basate sui classici principi liberali. Si organizzarono nel modo in cui erano organizzati i movimenti per la solidarietà all’America centrale e quelli contro la guerra in Vietnam e ciò iniziò a produrre un impatto che diventò straordinario dopo l’invasione di Gaza. L’invasione di Gaza, in realtà, fece infuriare molte persone, perché era evidente che da una parte ci fosse una forza militare enorme che attaccava prigionieri indifesi, annientandoli.
Si potrebbe pensare che i fatti di Gaza, controllata da questo movimento islamico, andassero a compensare l’oltraggio dell’11 settembre.
Fu l’aspetto umano a influenzare le persone. Piuttosto diverso dalla copertura mediatica, ovviamente.. Perfino il rapporto Goldstone e i vari rapporti sui diritti umani erano unanimemente d’accordo sul fatto che l’invasione fosse giustificata ma sproporzionata. Non esisteva, in realtà, nemmeno una piccolissima giustificazione, ma ciò non venne mai fuori e se ne poteva a stento discutere.
Tuttavia, l’intera vicenda di Gaza dimostra che le persone hanno accesso a diversi mezzi di informazione oggi.
Le persone hanno sempre avuto accesso all’informazione. Prenda ad esempio il 1982, forse il peggior crimine di Israele. C’erano moltissime informazioni disponibili. Ho accennato prima al diario di guerra di Dov Yermiya, che non ebbe eco. Ma i massacri di Sabra e Shatila la ebbero. Sabra e Shatila furono una sorta di Gaza. Fu così mostruoso che perfino persone come Elie Wiesel e Irving Howe si sentirono in dovere di dire qualcosa. Il New York Times dedicò una pagina alle critiche su Sabra e Shatila da parte di tutti gli esponenti di spicco del sionismo. Ricordo che Wiesel commentò: “Per la prima volta sono triste, triste per Israele”. Non triste per i Palestinesi, ovviamente; doveva dire almeno qualcosa. Gaza ne fu una versione estremizzata. Penso che ciò che Norman Finkelstein va scrivendo da un paio di anni sia accurato: ciò che Israele sta facendo è incompatibile con i comuni valori liberali e ciò fa sì che i giovani non siano più disposti a tollerare.
In termini di immagine di se stessi?
Molti di loro non si interessano alla questione, ma coloro che se ne interessano diventano critici. C’è un allontanamento crescente. Alcune critiche tendono all’antisemitismo, altre all’allontanamento: “Non voglio avere niente a che fare con tutto questo; questo non ha niente a che fare con me”.
Vede cambiamenti simili nella popolazione in generale?
Simili, ma probabilmente più rilevanti tra gli intellettuali ebrei che hanno relazioni con Israele. Per molto tempo, Israele è stata la sola cosa a tenere insieme la comunità ebraica.
Quando guarda al conflitto dal punto di vista privilegiato di oggi rispetto, diciamo, al 1950, qual è stato il cambiamento più significativo?
Nel 1950, l’occupazione non esisteva. Israele era accettata come Stato. Non si era capito molto di ciò che era successo, ma l’idea condivisa era che l’ONU avesse garantito uno Stato agli ebrei, gli arabi lo avessero attaccato cercando di distruggerlo e gli ebrei fossero riusciti a difendersi eroicamente. Questa era pressappoco l’immagine diffusa e piuttosto condivisa.
Il governo degli Stati Uniti teneva una condotta piuttosto ambivalente. Così per esempio, nel 1956, non ci furono proteste quando Eisenhower ordinò ad Israele di ritirarsi dal Sinai; non fu una questione di grande interesse. Nel 1967, ebbe luogo, ovviamente, un cambiamento immenso, nelle direzioni di cui parlavamo prima. Nel corso degli anni successivi, iniziò a svilupparsi un’opposizione all’occupazione e ai metodi repressivi di Israele, dapprima in maniera lenta, poi in crescendo, anche internamente. Per certi aspetti, Israele è diventata più democratica. Per esempio, la forma più estrema di discriminazione interna fu costituita dall’intero sistema legislativo terriero, ideato per garantire che circa il 90% della terra rimanesse sotto il controllo del Fondo Nazionale ebraico [Jewish National Fund], impegnato per contratto a servire le persone di razza, religione ed origine ebraiche. Però, nel 2000, La Corte suprema ribaltò questa linea, almeno formalmente. Questo rovesciamento non è ancora stato implementato, se non marginalmente, ma c’è e ciò non è insignificante, sebbene ad oggi una legge della Knesset[8] cerchi di restaurare la situazione precedente in molti modi. Sono questioni vive in Israele. Ma nei territori è in atto solo un consolidamento dei piani che iniziarono ad essere implementati nel 1967 e che si sono intensificati da allora.
Ciò mi porta alla prossima domanda: dove condurrà il conflitto israelo-palestinese, o il più ampio conflitto arabo-israeliano, nei prossimi anni?
Penso che la risposta sia legata a ciò che non è cambiato. La cosa fondamentale che è rimasta uguale, e anzi è cresciuta, è la dedizione di Israele a ciò che Moshe Dayan già nel 1967 chiamava “legge permanente” sui territori occupati. Ora, è vero che, ad un certo punto, i falchi israeliani guidati da Ariel Sharon capirono di aver talmente rovinato Gaza che non aveva senso mantenere lì poche migliaia di coloni ebrei, protetti da una grossa fetta dell’IDF-Forze di Difesa israeliane [Israel Defense Forces], che occupavano un terzo della terra e consumavano la maggior parte dell’acqua. Perciò decisero di portarli via da Gaza e farli insediare in Cisgiordania e sulle alture del Golan. Tutto ciò fu descritto come una sorta di ritiro, una mossa molto generosa. In realtà, Israele affermò quasi apertamente che si trattava di un passo verso l’intensificazione della colonizzazione, ma l’aspetto legato alle pubbliche relazioni giocò bene la sua parte.
L’espansione degli insediamenti è sistematicamente aumentata, anche se lentamente, fin dalle origini degli insediamenti sionisti agli inizi degli anni Venti, quando il loro tipico simbolo era la torre di guardia. Non in maniera vistosa: si fonda un insediamento, lo si protegge con una recinzione. Nessuno ne parla. Prima o poi, arriva l’allacciamento all’acqua e al sistema elettrico. Vi si collocano un paio di famiglie. E presto si ha una città. Ma in modo tranquillo, ritardando ogni sanzione politica: “Costruiamo, ma in modo sommesso”. O, come si dice in ebraico, “Non lo diciamo ai goyim[9], lo facciamo e basta”. Ciò che conta, come David Ben-Gurion affermò una volta, è “ciò che gli ebrei fanno, non ciò che i goyim pensano”.
È ciò che accade proprio davanti ai nostri occhi. Israele, spalleggiata dagli Stati Uniti, sta continuando a fare esattamente ciò che vuole in termini di insediamenti: non sta mantenendo, ma espandendo lo status quo. E non vedo come possa cambiare, se la linea politica degli Stati Uniti non cambierà.
Sospetto che non ci scommetterebbe troppo.
Nel 1998, non vedevo alcuna prospettiva di cambiamento della politica statunitense nei confronti dell’Indonesia e di Timor Est, ma un anno dopo cambiò. Il Sudafrica è il paragone più calzante. Secondo me, la maggior parte dei paragoni col Sudafrica ha poco fondamento, ma uno è reale e riguarda la politica degli Stati Uniti. Il regime dei nazionalisti bianchi sapeva bene che gli Stati Uniti possedevano la chiave di tutto. Infatti, già nel 1960, quando lo status di paria internazionale del paese stava diventando evidente, il Ministro degli Esteri sudafricano convocò l’ambasciatore americano e gli disse: “Tutti ci stanno votando contro all’ONU. Ci stanno isolando. Ma non importa, perché entrambi sappiamo che c’è solo un voto che conta nelle Nazioni Unite, ed è il vostro. Non ci importa molto, fino a quando ci sosterrete”. Per tutti gli anni Sessanta, l’opposizione all’apartheid aumentò, ma nulla di importante avvenne fino al 1977, dopo che l’ONU impose l’embargo alle armi.
All’inizio degli anni Ottanta, l’opposizione all’apartheid negli Stati Uniti era diventata piuttosto forte. Le industrie americane iniziavano a ritirarsi, il Congresso approvava sanzioni. Ma il governo, l’amministrazione Reagan, continuò e addirittura aumentò il suo appoggio al regime e riuscì ad aggirare le sanzioni attraverso vari mezzi: ad esempio, Israele fu usata come canale per questo, uno dei servizi secondari che ci offre. Quindi, se si guarda indietro alla fine degli anni Ottanta, i nazionalisti bianchi sudafricani sembravano trionfare. Avevano virtualmente distrutto l’ANC – African National Congress (il Congresso Nazionale africano) come forza combattente; stavano conquistando tutto ciò che desideravano. Sì, erano isolati a livello internazionale, ma era il sostegno americano ciò che contava e, nel 1988, l’amministrazione Reagan definì l’ANC “uno dei gruppi terroristi più famosi al mondo”. Fu la loro definizione.
Gli Stati Uniti dovettero sostenere il nazionalismo bianco come parte della guerra al terrore. Infatti, Mandela non è più incluso nella lista dei terroristi da soli due anni. Solo nel 2008 poté venire negli Stati Uniti senza una deroga particolare. Tuttavia, poco dopo, gli Stati Uniti cambiarono rotta. L’apartheid collassò, Mandela fu liberato dalla sua prigione a Robben Island. Non disponiamo di documenti internazionali, ma sembra che le economie americana e sudafricana riconobbero che sarebbe stato meglio se l’apartheid fosse terminato e il sistema socio-economico fosse stato conservato senza grossi cambiamenti, che è ciò che avvenne.
Lei pensa che un simile scenario sia plausibile in Medioriente?
Non è identico, ovviamente, ma è in qualche modo simile e se gli Stati Uniti decideranno di far mancare la terra sotto i piedi ad Israele, penso che allora Israele potrà essere obbligata a seguire le regole. Si può immaginare uno scenario non molto piacevole. Si prendano ad esempio i commenti che il generale Petraeus fece all’inizio del 2010 su Israele e che vennero velocemente insabbiati. Ho dimenticato le parole esatte, ma si riferiva al fatto che ciò che Israele sta facendo mette in pericolo le nostre truppe sul campo. Questo è un tasto molto sensibile in America: i nostri ragazzi coraggiosi, uomini e donne, ci stanno difendendo in Iraq e Afghanistan e gli ebrei li stanno danneggiando. Non possiamo accettarlo. La stessa idea fu ripetuta, in maniera più moderata, da altre figure di spicco, incluso Bruce Riedel, un ex alto grado dell’intelligence, ancora ai vertici del sistema e che guidò la commissione di verifica sull’Afghanistan voluta da Obama. Dichiarò cose simili, in maniera molto diretta, riflettendo evidentemente la posizione delle forze armate e dell’intelligence, che tuttavia viene tenuta a bada. Ma supponiamo che esploda: si avrebbe un’ondata di sentimenti anti-israeliani che potrebbero diventare travolgenti e potrebbero trasformarsi immediatamente in clamoroso antisemitismo, abbastanza importante da determinare uno spostamento nella linea politica del governo. Non è lo scenario che preferirei, ma ci sono molti esempi di spostamenti di linee politiche inaspettati.
Una delle sue ipotesi principali sembra quella che vede la chiave per la risoluzione del conflitto in Washington e non nella regione.
In Washington e nella popolazione americana, se riuscirà ad organizzarsi ed essere attiva. Per anni, quando lavoravo sulla guerra del Vietnam, non mi aspettavo che il Vietnam sopravvivesse. Il paese era devastato, ma sopravvisse. Ma il punto è che semplicemente non ci sono alternative, nessun metodo può, in ultima istanza, apportare cambiamenti, eccetto la pressione dell’opinione pubblica: organizzata, impegnata, prolungata. Un sacco di lavoro duro.
Discutere degli esiti del conflitto ci riporta al discorso precedente sulla soluzione “Stato unico” versus soluzione “due Stati”.
Il dibattito esistente contempla due alternative: la soluzione “Stato unico” e la soluzione “due Stati”. Un argomento comune afferma che se Israele non accetterà la soluzione dei due Stati, diventerà uno Stato di apartheid. Non molto tempo fa qualcuno, credo fosse Sari Nusseibeh, disse che avremmo dovuto dare la chiave a Israele. Israele annetterebbe l’intera Cisgiordania e noi ci impegneremmo in una battaglia per i diritti civili. Israele diverrebbe il Sudafrica e noi porteremmo avanti una battaglia anti-apartheid. Molti simpatizzanti dei diritti dei Palestinesi sostengono questo.
Ma non andrà in questa maniera. Gli Israeliani non vogliono impossessarsi di tutto; vogliono uno Stato ebraico. Non vogliono il cosiddetto “problema demografico”, non vogliono doversi preoccupare per i Palestinesi e gli Stati Uniti li appoggiano. Il modo per realizzare tutto questo è continuare con l’attuale politica di Stati Uniti e Israele, che lascerà Israele etnicamente quasi “pura”, senza responsabilità nei confronti dei Palestinesi. Israele già detiene circa il 40% della Cisgiordania. Continuando con la linea attuale, estenderà il muro di annessione, includendo la valle del Giordano, continuando a costruire insediamenti e spaccando la Cisgiordania in cantoni. Poi lasceranno semplicemente i Palestinesi a marcire nei loro Bantustan[10], mentre i visitatori israeliani e americani potranno sfrecciare sulle autostrade, non sapendo nemmeno che gli arabi esistono, eccetto magari per qualcuno con un capra sul cucuzzolo di una collina, una bella e pittoresca scena biblica. Ma Israele non ha intenzione di assumersi alcuna responsabilità per loro e questo è chiaro fin dal 1967.
Quindi dove sta la differenza rispetto al Sudafrica?
Oh, il Sudafrica era totalmente differente. In Sudafrica, l’economia era completamente basata sul lavoro della popolazione nera; non poteva sopravvivere altrimenti e i neri costituivano la stragrande maggioranza della popolazione. Il Sudafrica, infatti, non tentò di distruggere i Bantustan, anzi cercò di renderli più vivibili, perché aveva bisogno di quelle persone e doveva amministrarle. Ma Israele non vuole i Palestinesi. Per un certo periodo, Israele contò sulla forza lavoro palestinese, ma fu molto tempo fa. Da allora, hanno costruito sulle rovine del neo-liberalismo e persone da tutto il mondo emigrano verso Israele per lavorare come una sorta di forza lavoro ridotta in schiavitù.
Di nuovo, non vedo vie di uscita, se non un cambiamento nella linea politica degli Stati Uniti. Dati il consenso internazionale sulla soluzione a due Stati e la mancanza di un sostegno rilevante a qualsiasi soluzione che aggiri questa fase, se ci sarà un cambiamento da parte americana, potrà solo andare in quella direzione.
Ritengo interessante che una persona come lei, che è famosa per essere anarchica e che ha lungamente sostenuto il binazionalismo, sia considerata fiera critica di coloro che promuovono una soluzione a Stato unico.
Non mi oppongo a nessuno che promuova questo. Mi oppongo a quelle persone che lo propongono ma non lo promuovono. C’è una differenza cruciale. Puoi proporre ciò che vuoi, per esempio che tutti vivano in pace e che si amino, come in un luogo di meditazione da qualche parte. Tutto questo è molto bello, ma non significa niente fino a che non dai conto di come intraprendere quella strada. Promuovere significa: “Questo è il modo in cui lo faremo”. E conosco solo una forma di promozione oggi: arrivare al fine per tappe. Nei primi anni Settanta, esisteva un altro percorso per la promozione: fare pressione su Israele affinché realizzasse una soluzione federale.
È interessante notare che all’epoca la sola idea di un unico Stato, o binazionalismo, era un’assoluta eresia. Non se ne poteva fare accenno senza essere tacciati di antisemitismo o negazionismo della Shoah, ecc. Oggi, sorprendentemente, si può proporre lo Stato unico in pubblico, sul New York Times o sulla New York Review of Books. Va bene discuterne. La domanda interessante è: perché non è un’eresia oggi mentre lo era negli anni Settanta? Penso ad una sola ragione: all’epoca, era una soluzione percorribile. Infatti, come ho accennato, non era così lontana da ciò che veniva proposto dall’intelligence militare e quindi doveva essere affossata. Ma oggi, parlare dello Stato unico è come proclamare: “Viviamo in pace”. Se vuoi dirlo, dillo pure. Ma secondo me, ad oggi, la sola funzione di questa discussione consiste nell’erodere i passi che possono essere intrapresi per raggiungere la soluzione dei due Stati per tappe intermedie. In altre parole, bruciare quella soluzione. Sempre che qualcuno non abbia un’altra idea –e devo ancora vederla- su come arrivare ad un unico Stato binazionale (chiamiamolo unico Stato, se vogliamo) senza percorrere diverse tappe intermedie, penso che ci troviamo al livello del semplice invito a “trasformare le spade in aratri”.
Il Sudafrica e il movimento BDS – Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni [Boycott, Divestment, and Sanctions] sono spesso proposti come modelli.
Abbiamo già discusso del Sudafrica. Per quanto riguarda il BDS, esso ha costituito una strategia raffinata. Vi ero coinvolto prima ancora che il movimento nascesse. Perciò, va bene aver propriamente formulato una tattica come quella del BDS; e sottolineo “propriamente formulato”. È necessario inoltre comprendere come nel caso del Sudafrica, già nei primi anni Ottanta, quando iniziarono ad essere messe in atto sanzioni, il sostegno nei confronti dell’apartheid era virtualmente già venuto a mancare. Le imprese americane vi si opponevano, così come l’Europa e il mondo intero e solo l’amministrazione Reagan riuscì ad aggirare le sanzioni. Ma tutto questo avvenne dopo un lungo periodo di educazione politica, durante il quale l’apartheid perse il suo sostegno. Nulla di simile sta avvenendo nel caso di Israele, niente che potrà creare le condizioni per le sanzioni come politica percorribile.
Intende dire che non esiste una campagna seria di educazione politica?
Sì. Occorre far capire alla gente cosa sta succedendo lì. Penso sia una buona strategia, ma bisogna essere cauti. BDS è una strategia, non un principio, quindi bisogna sempre chiedersi: in questo caso particolare, è una buona o una cattiva strategia? Alcune forme di BDS sono appropriate: per esempio, quelle che riguardano il sostegno americano all’occupazione, in primis per il suo potenziale impatto a livello di linea politica, in secondo luogo per l’educazione. Attira l’attenzione della gente sul fatto che stiamo partecipando all’occupazione e che è nostro compito porvi fine. È facile dichiarare: “Israele è un posto terribile, guardate come sono cattivi”, ma ciò non ha conseguenze politiche e indirizza male le persone. Se vogliamo cambiare la politica, dobbiamo capire che vi prendiamo parte. Opporsi allo sviluppo di Motorola nei territori occupati o boicottare i prodotti che arrivano dai territori occupati ha perfettamente senso.
Ma sarebbe ancora meglio adottare il programma di Amnesty International, che fa pressioni per la cancellazione delle consegne di armi ad Israele perché illegali per legge; possiamo allargare il discorso a questo paese, perché sono illegali anche per la legge degli Stati Uniti. L’Arm Export Act -Atto di Esportazione delle Armi- è molto chiaro e afferma che le armi possono essere usate solo per difesa o sicurezza interna. Non sono i fini per i quali le stanno usando. Quindi, facciamo pressione sul governo americano affinché fermi le consegne di armi e cessi ogni sostengo alle IDF-Forze di Difesa Israeliane nei territori occupati. Questi programmi sono fattibili. Sono posizioni da abbracciare, attraverso le quali potremmo raggiungere molta gente.
Pensa che si tratti di obiettivi raggiungibili?
È qualcosa su cui ci dobbiamo organizzare. È come organizzarsi contro l’apartheid negli anni Sessanta. Ci volle molto tempo, ma funzionò perché la gente vi si ribellò. Sono strategie molto buone: hanno implicazioni politiche e formative. Esistono altre strategie, che si sono rivelate controproducenti, perché erano ipocrite, come ad esempio il boicottaggio dell’Università di Tel Aviv. Il problema di quella strategia è che alcune istituzioni americane, come Harvard o il MIT, sono implicate in attività ben peggiori.
Lei ha sostenuto che la soluzione a due Stati è raggiungibile e che ha senso solo come tappa verso un esito binazionale.
Sto solo esprimendo ciò che secondo me dovrebbe accadere. Credo che se la soluzione a due Stati prendesse forma in maniera sensata, i confini verrebbero presto a cadere: le relazioni commerciali, le interazioni culturali e personali aumenterebbero. Sport, corpi di ballo, orchestre, ecc. aumenterebbero e, prima o poi, si capirebbe che questi confini non possono funzionare.
Ma si pone uno scenario alternativo: questa soluzione, attestandosi nel contesto dell’attuale politica di separazione, potrebbe condurre ad un’integrazione ancora minore.
Sarebbe una disgrazia, ma penso che sia comunque meglio della situazione attuale, che è chiaro dove stia portando. E non abbiamo nemmeno menzionato Gaza. La politica di Stati Uniti e Israele, dopo Oslo, è stata diretta a separare Gaza dalla Cisgiordania.
E ha avuto successo.
Sfortunatamente sì, ma penso che una soluzione a due Stati potrebbe superare tutto ciò. Non sarà facile, anche all’interno della comunità palestinese -lo sa meglio di me- ma dovrebbe essere il fine di questa soluzione transitoria. E questo è consenso internazionale. Dopotutto, gli stessi accordi di Oslo affermano che questa è un’unità territoriale che non può essere spezzata.
Ma date le attuali circostanze, non esiste una reale minaccia che la soluzione a due Stati, se e quando sarà raggiunta, non simboleggerà più la fine dell’occupazione, come originariamente supposto, ma diverrà in realtà un meccanismo per perpetuare il controllo israeliano?
Senza dubbio se si trattasse di una soluzione a due Stati essenzialmente in accordo col consenso internazionale, Israele diventerebbe molto più potente. Ma un’appropriata soluzione a due Stati andrebbe, secondo me, nella direzione del quasi-accordo di Taba e delle proposte di Ginevra. In altre parole, lo scambio di “una terra per una terra”. Le proposte di Ginevra, indipendentemente dal fatto che le accettiamo oppure no, prevedono il trasferimento alla Palestina di importanti appezzamenti di terra di valore israeliana: terra arabile e parti rilevanti confinanti con Gaza. Non penso sia meraviglioso, ma penso sia meglio di com’è adesso e potrebbe essere un passo avanti. Non ne conosco altri, questo è il punto fondamentale.
Rimanendo di questa idea, dovrà continuare a sopportare critiche feroci che arrivano dalla parte opposta.
Non dalla parte opposta. Arrivano dalla stessa parte, perché le persone che propongono un unico Stato senza davvero impegnarsi nel promuoverlo stanno facendo il gioco dell’occupazione, in realtà. Ecco perché è accettabile oggi scrivere “Facciamo un unico Stato” sulla New York Review of Books, mentre era intollerabile nei primi anni Settanta dire “Andiamo verso una federazione”. Penso sia riconosciuto oggi che sostenere la soluzione a Stato unico significhi minare ciò che sarebbe il primo passo nel raggiungimento di quell’obiettivo: una soluzione a due Stati. Se c’è un’alternativa, sono disponibile, ma devo prima vederla.
[1] Journal of Palestine Studies, Vol. 41, N. 3 (Primavera 2012), pp. 92-120. Pubblicato da: University of California Press per conto di Institute for Palestine Studies.
[2] Senior Fellow all’Institute for Palestine Studies, è un ricercatore indipendente e un analista specializzato sul Medioriente. Vive attualmente ad Amman, Giordania.
[3] PLO – Palestine Liberation Organization.
[4] Membro dell’Unione Generale dei Lavoratori Ebrei di Russia, Polonia e Lituania.
[5] L’OLP si rifugiò a Tunisi nel 1982, dopo la guerra del Libano.
[6] Azienda americana che produce, tra gli altri, anche gli F35.
[7] University of California, Los Angeles.
[8] Parlamento israeliano.
[9] Termine ebraico utilizzato per indicare i non-ebrei.
[10] Territori del Sudafrica e della Namibia assegnati alle etnie nere dal governo sudafricano nell’epoca dell’apartheid.