di Federico Repetto
1.Alcune premesse
Qui non si parla dei presunti effetti della comunicazione mediale, ma delle possibilità di influenza da parte della cultura pubblicitaria sull’educazione-formazione neotelevisiva dei giovani. La questione delle sproporzionate possibilità di iniziativa e di influenza da parte di una minoranza di privati (proprietari dei media e inserzionisti) sull’educazione dei giovani, piuttosto che come una questione di sociologia della comunicazione, va trattata come una questione costituzionale e politica. Come questione costituzionale: lo Stato ha rinunciato ai suoi compiti educativi e ha accettato che una piccolissima minoranza avesse un diritto spropositatamente ampio di accesso all’educazione dei cittadini. Come questione politica: è l’egemonia culturale che rende possibile un consenso generalizzato a tutta una serie di politiche. L’egemonia non è intesa come pura capacità manipolatoria di determinare i significati della convivenza sociale, ma come capacità di controllare l’agenda, i temi, il linguaggio della comunicazione pubblica e di inserirsi in modo propositivo nel processo educativo delle nuove generazioni, in un rapporto circolare in cui non è solo l’emissione che è importante, ma anche la capacità di ascolto e di feedback dei poteri emittenti rispetto a un pubblico minorile attivo. Naturalmente non si tratta dell’egemonia di una classe, ma di un’egemonia di élite o di un gruppo di élite.
2. I dati di partenza
A) È un dato di fatto che negli anni ‘80 l’Italia, in comparazione con altri Paesi analoghi, è passata a velocità straordinaria da una cultura diffusa abbastanza scettica sulla pubblicità a una dieta pubblicitaria super-rinforzata, con un tasso sorprendente alto di «attenzione per la pubblicità» (cfr. i sondaggi di Eurisko).
B) All’inizio degli anni ‘90 la propensione al consumo (misurata, di nuovo, dall’Eurisko) era aumentata in maniera notevolissima rispetto ai periodi precedenti, e tale propensione risultava inversamente proporzionale all’età.
C) Nello stesso periodo sono venute drammaticamente diminuendo le capacità di trasmissione diretta di valori tra le generazioni. Secondo Morcellini, la discontinuità delle competenze mediali e delle abitudini mediali tra generazioni è alla base della crisi della scuola e del rapporto giovani-adulti. Le idee, più che da generazione a generazione, si trasmettono trasversalmente tra coorti o frazioni di coorte vicine, accomunate spesso dalla cultura musicale.
D) All’identità sociale come appartenenza di classe o religiosa o ideologica, si è venuta velocemente sostituendo l’identità attraverso lo “stile di vita”, o meglio “di consumo”, con l’annessa identificazione attraverso marche e griffe, e con il culto delle star dello spettacolo e dello sport.
3. Ipotesi intermedie
Prima di affrontare il tema dell’egemonia, si devono esporre rapidamente alcune ipotesi intermedie.
1) Nonostante le difficoltà di trasmissione culturale di cui si è detto, è verosimile che le nuove generazioni ereditino comunque alcuni valori che costituiscono lo sfondo di una certa cultura tradizionale italiana: una certa propensione all’individualismo privatistico e all’antipolitica pro-capitalistica, che ha le sue origini nella storia post-unitaria e forse anche prima (cfr. i sondaggi tra i giovani promossi da Carlo Tullio-Altan nei primi anni ’70).
2) Questa eredità si somma a una rielaborazione-appropriazione della cultura neotelevisiva da parte delle generazioni in formazione. Tale cultura è creata apposta per piacere loro, ma deve servire, e perfino piacere, anche agli inserzionisti. Sul lungo periodo, in condizioni di mercato più o meno concorrenziale dovrebbero prevalere quelle aziende televisive che sono capaci di mediare tra gli interessi del pubblico e quelli degli inserzionisti, “producendo” il pubblico consumista che gli inserzionisti preferiscono comprare. Se agli inserzionisti non interessa una tv che non sappia raggiungere i gusti del pubblico, non interessa nemmeno una tv che non serva alle vendite e che non promuova i consumi Non si può negare che le grandi tv commerciali (Fininvest, Rai e pochi altri) abbiano cercato di educare il pubblico al consumo, come il loro apologeta Pilati – e lo stesso Berlusconi – hanno vantato. Diversi studiosi (Pitteri, Pozzato, D’Amato) ritengono che la pubblicità abbia significativamente influenzato i palinsesti in generale, e specificamente quelli della programmazione rivolta ai minori.
3) La rielaborazione-appropriazione della cultura neotelevisiva da parte delle generazioni in formazione avviene nella forma della discussione tra pari coetanei o nel confronto con le coorti più prossime (non con la generazione precedente). A ciò concorrono molti fattori: la diminuzione della considerazione verso gli adulti (originata dal ’68, ma comunque diffusa nel mondo moderno), il gap mediale tra generazioni, la sconfitta della cultura di sinistra e sindacale. La generazione cresciuta negli anni ‘80 è partita quasi da zero in quest’opera di appropriazione, avendo come patrimonio critico essenzialmente la cultura giovanile alternativa.
4. Il controllo dell’ “agenda formativa” da parte degli inserzionisti e delle tv commerciali configura un vero progetto egemonico o è un fenomeno spontaneamente derivante dal gioco degli interessi?
Si deve sicuramente escludere un progetto egemonico in senso pieno. Nei suoi studi sulle élite italiane, Carlo Carboni ha messo in dubbio che esse siano veramente capaci di progetti egemonici (cfr. anche Carlo Galli sulle «élite riluttanti»). Egualmente gli studi di storia dell’industria italiana di Luciano Gallino mostrano, oltre a élite politiche incapaci di una vera politica industriale, élite manageriali e padronali capaci soprattutto di sollecitare aiuti di Stato sulla base di appoggi politici e di deviare i propri capitali dall’investimento industriale a quello finanziario. Non esiste in Italia nulla di simile a quel progetto egemonico verticale che sembra aver caratterizzato il neoliberismo neoconservatore americano, in cui la proposta culturale discende dalle grandi fondazioni, ai giornali, e infine alla tv. In Italia sembra di trovarsi di fronte a una “egemonia di default” della cultura pubblicitaria: a causa della sconfitta operaia e della crisi della cultura del lavoro, nonché, sul lungo periodo, della crisi di tutte le altre culture sociali, politiche e religiose, il messaggio pubblicitario è tendenzialmente accettato di default, non essendoci (quasi) nessuna cultura popolare forte da contrapporgli. L’utente dei media è sempre libero di ricodificare i loro messaggi secondo un punto di vista critico e oppositivo – come ha sostenuto il mediologo postmarxista Stuart Hall – ma, in questo caso, in mancanza di proposte alternative dotate di sufficiente visibilità, finirà spesso per accettare/subire “di default” il significato codificato dall’emittente.
Un’eccezione è forse la “cultura” leghista, che in effetti ha subìto questa egemonia solo parzialmente: se condivide molti valori di base sull’impresa e sull’individuo come soggetto del mercato, conserva, almeno in certi ambienti, un’identità propria e una capacità di negare il consenso alle élite, che potrebbe forse garantirle un nocciolo duro di suffragi contro Monti.
D’altra parte, nella cultura pubblicitaria retrostante la massa dei piccoli e medi inserzionisti, certo lusingati e valorizzati da Berlusconi, emerge il profilo oligopolistico della nostra industria nazionale. Alla logica concorrenziale dei soggetti più piccoli si sovrappongono gli scontri e i compromessi dei colossi dell’economia nazionale, che si muovono di fatto non solo sul piano economico, ma anche su quello politico. Le scelte culturali dei grandi media si possono interpretare anche come il risultato di una “tacita intesa”, resa possibile da una convergenza oggettiva di interessi tra vari poteri oligopolistici (inclusa la Rai e le altre imprese pubbliche), capaci per loro natura di agire intelligentemente di conserva in modo non appariscente.
I già citati Carboni e Galli pensano che le élite italiane non abbiano un vero progetto egemonico di lungo periodo, ma tutelino costantemente i loro interessi corporativi. Anche a questo non serve un vero progetto, ma basta un’intesa più o meno tacita.
5. Si può parlare di un’egemonia personale di Berlusconi?
Nella storia recente delle élite italiane è presente anche una certa tendenza alla politica “patrimonialistica”, nonché alla ricerca della popolarità da parte di membri delle élite attraverso il possesso di una squadra di calcio. Gli esempi di Achille Lauro, di Dino Viola, delle famiglie Moratti e Agnelli avevano già mostrato le possibilità di intreccio tra ricchezza patrimoniale, potere oligopolistico, possesso di media, accumulazione di un “capitale comunicativo personale” (notorietà), partecipazione diretta alla politica. Cecchi Gori lo farà dopo Berlusconi; Montezemolo ha preferito la Formula 1. Anche De Benedetti è abbastanza incline alla sinergia di patrimonio, media, cultura e politica. Berlusconi iniziò a perseguire – ed effettivamente a conseguire, secondo le misurazioni condotte allora da Publitalia – la popolarità e il primato della sua immagine rispetto a quella degli altri grandi capitalisti già alcuni anni prima della sua “discesa in campo”. Se l’immediato detonatore fu il declino di Craxi, non si può escludere che anche in altre circostanze la sua considerevole notorietà avrebbe potuto essere utilizzata politicamente. Tuttavia, nel 1994 la leadership propriamente politica di Berlusconi sulle élite capitalistiche «riluttanti» era residuale, ancora una volta “di default”, nel senso che queste lo lasciarono fare (Galli). La sua egemonia non si configura come “verticale”, piuttosto come “orizzontale”. E infatti Berlusconi non si presenta come un membro dell’élite, ma come “uno di noi”, “uno che si è fatto da sé”. Massimo Panarari, riferendosi al periodo successivo alla “discesa in campo”, ha parlato di una «egemonia sottoculturale» di Berlusconi. Panarari sostiene che Maria De Filippi, Alfonso Signorini e tutta una schiera di conduttori e giornalisti specializzati nel culto estetizzante del corpo, nel mito del successo attraverso lo spettacolo, nel culto/gossip delle star, ecc. hanno stabilito un filo diretto con una parte del pubblico giovanile. E già nel 1985 Paolo Martini (sulla base della testimonianza di Freccero), analizzando la strategia commerciale di Berlusconi, ideata inizialmente da Freccero stesso, aveva mostrato come questa consistesse nel differenziare il target “subculturale” non solo secondo diverse fasce orarie, ma anche secondo le reti (più tardi, come è noto, secondo i tg). Considerando che il palinsesto è integrato con la pubblicità, ne consegue che la Fininvest ha puntato al successo commerciale realizzando insieme l’egemonia su “subculture” diverse. Più tardi questa strategia diventerà una risorsa per l’egemonia politica.
Efficace sul piano dell’audience e della vendita di vari settimanali popolari, l’egemonia berlusconiana non era e non è, però, sostenuta da un progetto generale credibile, e questo comporta una certa debolezza strategica. In effetti, l’adesione da parte delle élite economiche è motivata dalla tutela dei loro interessi e privilegi (inclusa l’evasione), e quella dei giornalisti e degli intellettuali è fondamentalmente opportunistica, non esistendo un progetto universalistico serio a cui aderire – se non il familismo o individualismo antipolitico privatistico tipico della tradizione italiana. Inoltre, proprio il carattere “subculturale” dell’egemonia di Berlusconi, insieme all’evidenza del fatto che difende privilegi e incarna i miti del mondo dello spettacolo e delle star, gli ha alienato costantemente gli ambienti “subculturali” legati al sindacato, alle iniziative civiche, al volontariato, alla cultura scritta tradizionale, ecc.
6. Quali sono le ragioni di debolezza e di crisi dell’egemonia berlusconiana?
Carlo Carboni distingue al di sotto dei vari strati delle élite sociali, due grandi categorie di cittadini: (a) la «cittadinanza competente», uno strato del ceto medio di una quindicina di milioni di persone dotati di livelli superiori di istruzione, che si occupano di politica anche quando non ci sono le elezioni; (b) la «maggioranza dei cittadini», poco istruiti, legati alla cultura dei consumi, poco o nulla interessati alla politica (solo un terzo se ne occupa e soltanto in periodo elettorale), sostanzialmente conservatori, tanto a destra quanto sinistra, che sono «lo specchio della maggioranza delle nostre classi dirigenti». La “cultura” berlusconiana è abile nel rivolgersi a quest’ultimo strato ai fini di audience e compie la stessa operazione ai fini elettorali. L’operazione smaccatamente propagandistica, che fa appello a valori tradizionali antipolitici e che tende a usare uno stile populista sottoculturale, aliena a Berlusconi la simpatia (anche se non necessariamente il voto) dello strato della cittadinanza competente. Questo è particolarmente vero per quella parte della cittadinanza competente (come gli insegnanti) per la quale è motivo di frustrazione la perdita del prestigio sociale della competenza, eclissata dal “sapere diretto” televisivo. È da questo strato (oltre che dal mondo sindacale) che sono venuti gli attacchi più forti contro Berlusconi. Gli appartenenti a esso che non si riconoscono politicamente in Berlusconi tendono a un rifiuto radicale e di principio della sua politica, anche se poi spesso finiscono per votare le élite politiche di centrosinistra inclini al compromesso (mentre i cittadini competenti di destra possono scegliere tra il votarlo turandosi il naso e l’astenersi).
In definitiva, quella di Berlusconi non è una piena egemonia, perché piena egemonia è quella che sa creare consenso generalizzato, mentre la sua semplice presenza al governo è da sempre, per un numero non irrilevante di persone, ragione di conflitto. I “valori” dell’illegalità, dell’economia sommersa, del lavoro nero, ecc., da lui difesi pubblicamente, sono per definizione non universalizzabili e creano un margine permanente di dissenso.
La crisi di consenso del 2011 del governo Berlusconi si può collegare con le contraddizioni interne alle sue diverse egemonie “subculturali”: il fatto che i suoi media abbiano stimolato determinate “subculture”, come quella dell’esibizione narcisistica, del gossip, dell’ostentazione del sesso, ecc. e il fatto che alcuni dei suoi stessi media abbiano esaltato le avventure amorose del leader-padre di famiglia a un certo punto hanno urtato anche una parte del pubblico della “tv per le famiglie”. Questo ha messo in crisi la credibilità di Berlusconi nel suo rapporto diretto mediatico con la ggente, e forse ha permesso alla maggioranza dei cittadini di dar peso alle perplessità provenienti dalla cittadinanza competente, tra cui anche la parte di destra che aveva maturato dubbi sulla linea di politica economica.
Altra ragione di indebolimento è stato il calo dell’audience della tv generalista e l’ulteriore frammentazione del pubblico. Se la tv commerciale si era imposta all’opinione maggioritaria italiana come un mezzo moderno, più potente del mondo della cultura scritta, la parte meno giovane del suo pubblico oggi vive male il digital divide rispetto alla generazione di Internet, che è un mezzo ancor più moderno. L’immagine di Berlusconi è fatalmente legata alla tv generalista. Il prolungamento della sua egemonia culturale sul lungo periodo sembra impossibile nella misura in cui egli dispone sempre meno della carta dell’educazione via tv e le giovani generazioni si “trasferiscono” su Internet.
7. Qual è la situazione odierna dell’egemonia in Italia?
Grazie alla cultura privatistica e antipolitica neotelevisiva – che capta senza dubbio tendenze storiche della cultura popolare italiana – all’inizio un governo tecnico fruisce di un consenso aprioristico proprio in quanto tale, in quanto governo non-politico (come si è visto dai sondaggi immediatamente successivi alla sua nomina). Apparentemente il governo tecnico sembrerebbe rimandare a una nuova edizione dell’egemonia “verticale”. La Bocconi è legata alla Confindustria e questo governo è in parte un governo confindustriale. Ma, nonostante l’abilità comunicativa di Monti, che gioca abilmente (in modo spettacolare) il ruolo dell’esperto serio e anti-spettacolare, nonostante l’effetto positivo delle sue apparizioni tv sui “padri di famiglia”, che ormai non gradivano il presidente-star, non è possibile riproporre un’egemonia “verticale” completa (dal vertice alla base per passaggi graduali): osta il fatto che la cultura neoliberista bocconiana espressa dal governo può essere compresa solo dalla «cittadinanza competente», la quale non sarebbe comunque più in grado di mediarla alla «maggioranza dei cittadini». Il declino della tv generalista non garantisce affatto la ripresa del prestigio dei cittadini competenti: il Paese resta scisso e poco comunicante al suo interno; l’egemonia neoliberista “di default” è fondata sulla base troppo fragile del consumismo pubblicitario.
In prospettiva l’educazione pubblicitaria non sembra destinata a scomparire, anche se cambierà radicalmente di forma. In primo luogo va considerato che una parte dei ragazzi che accedono a Internet provengono da famiglie di cultura neotelevisiva e sono passati attraverso una scuola disastrata. Inoltre, il “palinsesto” di molti siti gratuiti e macchine di ricerca è dominato dalla pubblicità. Non vanno, perciò, sottovalutate le influenze dell’Internet-spettacolo, dell’Internet-shopping e dell’Internet-video game. Anche sull’Internet-social network non manca una dimensione pubblicitaria e di shopping, tendenzialmente in crescita.
8. La crisi non deve far dimenticare né l’inquinamento ambientale né quello pubblicitario. Occorre istituire una “Tobin Tax sulla pubblicità”
Nonostante le sue grandi potenzialità positive, la Rete non deve essere lasciata a se stessa, come è stato fatto a suo tempo con le tv locali. La scuola pubblica dovrebbe garantire ai cittadini non solo una media education, ma anche una reale alfabetizzazione ed educazione ad Internet (Internet literacy). La tradizione educazione “gutenberghiana” ha bisogno di essere integrata da questi insegnamenti, ma anche viceversa. Questo discorso, che implica nuovi costi, può apparire fuor di luogo in un paese in recessione e sotto la sorveglianza dei poteri finanziari internazionali. Si tratta in effetti di un discorso a lungo termine, ma che è essenziale per la democrazia. Le risorse per una distribuzione ampia del sapere e della capacità di comunicazione dovrebbero venire da quei soggetti economici che, in nome della libertà dei media e di Internet, pretendono un accesso sproporzionato all’educazione dei cittadini: dunque la scuola pubblica in generale, e la media education e la Internet literacy in particolare, dovrebbero essere finanziate con la tassazione progressiva della pubblicità sulla base del fatturato degli inserzionisti. Ciò servirebbe anche a combattere la concentrazione oligopolistica, favorita dallo strapotere pubblicitario delle grandi aziende, nonché il dominio delle grandi marche. La crisi economica ha determinato oggi una depressione della pubblicità. L’urgenza di superare le dolorose conseguenze sociali della crisi non deve farci però dimenticare l’importanza della difesa e della promozione di un’educazione libera dai condizionamenti dei grandi poteri oligopolistici.