di Raffaele Radicioni
Le prospettive dell’urbanistica
Il numero di gennaio-giugno 2001 della rivista “Urbanistica” pubblicò il piano regolatore di Roma. Campos Venuti, coordinatore del piano, con lo scritto: “Il piano per Roma e le prospettive dell’urbanistica italiana” cercò di dimostrare che il vero piano, fattibile nelle condizioni storiche italiane, fosse quello di Roma. L’esposizione, nella prosa concisa e chiara di Campos, pareva incontrovertibile; sintetizzava in primo luogo cosa fosse avvenuto in Italia negli ultimi 50 anni:
- la riforma generale, tentata da Sullo (inizio anni ’60) fallì, seguita da una modesta riforma, affidata alle leggi degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso;
- era mancata parità di trattamento per tutte le aree e quindi per tutte le proprietà immobiliari: il nodo centrale della questione ruota tuttora attorno al tema della rendita fondiaria;
- la legge del ’42, in vigore, non risolveva la sperequazione fra destinazioni pubbliche e private, sancite dal piano;
- a partire dagli anni ’80 si afferma la deregulation urbanistica: contro il piano si afferma la falsa alternativa del progetto. Negli anni ’80 l’urbanistica è emarginata, senza che si realizzi il rifiorire dell’architettura, seppure liberata, proprio in forza della deregulation, dai lacci e lacciuoli del piano;
- la svolta si ha con la formazione delle leggi regionali di ultima generazione e con i piani riformisti, facilitati da quelle leggi, che intendono superare la sperequazione fra le proprietà, che il piano, per propria natura, produce;
- questi importanti successi riformisti non hanno però ricevuto l’imprimatur di una legge quadro nazionale. Venne la proposta di legge Lupi, dico io, nello scorcio della legislatura di centro destra 2001-2006, che forse aveva quel compito e (per fortuna) non fu approvata.
Con quelle premesse, secondo Campos, l’urbanistica italiana avrebbe di fronte a sé tre strade.
La strada dei custodi delle regole del passato: piano rigido, che tutto prevede nei dettagli, che aspira all’esproprio generale delle aree di trasformazione, secondo quanto tentato senza successo nel 1962-63 da Sullo. Quella strada rifiuta la realtà di oggi, a cominciare dal radicale cambiamento del regime immobiliare.
La strada, eguale e contraria alla precedente, che si concreta nel rifiuto ideologico delle regole. Il piano è sostituito da un programma politico. Questa è la soluzione di Milano, capitale della deregulation urbanistica, anni ’80.
La via d’uscita è quella proposta per Roma, e per le città, fra le quali Torino, che hanno applicato le stesse scelte politiche e culturali. La terza via è caratterizzata dalla coraggiosa serietà del riformismo, in quanto: anticipa la legge nazionale riformista, non ancora approvata; fa derivare il piano da un quadro di riferimento urbanistico generale, quello, che le leggi regionali definiscono “piano strutturale”; rispetta la legge del ’42, ma supera anche le sue contraddizioni (la mancanza di equità fra le aree di trasformazione e l’incostituzionalità dei vincoli per servizi pubblici a tempo indeterminato); affronta la rendita urbana in concreto, utilizzando gli strumenti disponibili. In complesso si tratta del più avanzato compromesso fra la legge attuale e l’anticipazione dell’auspicabile legge futura.
Cenni sulle vicende urbanistiche di Roma a partire dal dopoguerra
A Roma, all’indomani della liberazione, vige il piano del 1931. Sono del 1946 le prime proposte dell’INU (Istituto Nazionale di Urbanistica) e di una Commissione Comunale. Nel 1948 Roma ha 1.599.000 abitanti. Nel ’54 è deliberato l’avvio del nuovo piano; l’elaborazione è diretta da un Comitato numeroso, favorevole al decentramento terziario (ministeri ecc.) verso il Sistema Direzionale Orientale (SDO). L’ipotesi presentata però è rifiutata (1958). L’elaborazione del piano è assunta dalla Giunta Cioccetti, che nel 1959 porta in Consiglio Comunale il nuovo piano, privo delle grandi scelte.
Con l’Amministrazione di centro sinistra il piano, modificato (1962) con il recupero delle linee precedenti (decentramento del terziario), è riadottato e approvato nel 1965. Permangono incertezze nei confronti del decentramento a est, mentre si attuano le previsioni abitative, senza che sia data risposta alla domanda di abitazioni a basso costo.
A metà anni ’70 le amministrazioni di sinistra (Sindaco Argan e poi Petroselli) instaurano una gestione operativa, per singole iniziative, fra cui: nuovamente l’ipotesi dell’asse attrezzato ad est, lo sviluppo dei quartieri organici, la sistemazione dei fori romani (Soprintendente La Regina), la reimpostazione normativa della pianificazione.
Dalla punta massima (1981, 2.831.000 ab.), la capitale registra un forte declino demografico (2001, 2.559.000 ab.) e in seguito un lieve incremento (2011, 2.614.000 ab.).
Con le amministrazioni di centro-sinistra (sindaci Rutelli e Veltroni), parallelamente a iniziative variamente mirate (parcheggi e immagine urbana per il Giubileo), riemerge l’esigenza di un nuovo piano regolatore (vigente il piano del 1965).
Si apre (1995) una fase lunga e tormentata di costruzione del piano, nel solco dell’urbanistica riformista. Si susseguono le tappe dell’iter ufficiale, a partire dall’adozione della Giunta comunale (2002), fino all’entrata in vigore nel 2008, nell’imminenza dell’amministrazione di destra, Sindaco Alemanno.
Qualche considerazione sul Prg di Roma, coordinato da Campos Venuti
Il piano riformista, proposto da Campos Venuti, modello per l’urbanistica italiana, risolve oggi i problemi delle città e di Roma in primo luogo? Provo a rispondere, per sommi capi, avvalendomi anche di informazioni e considerazioni, svolte da altri (P. Berdini[1], V. De Lucia[2], E. d’Albergo, G. Morini[3]).
A Roma la situazione è analoga a quella delle altre grandi città. Il censimento della popolazione documenta una situazione fuori controllo, frutto inevitabile dell’assenza di un governo pubblico delle città e dei territori: l’intera provincia è stata coinvolta nella crescita urbana di Roma e ne paga prezzi elevati. È in atto il decentramento della popolazione, dovuto a vari fattori, fra i quali la selezione per reddito degli strati sociali: i valori immobiliari elevati sono insostenibili per una parte della popolazione romana[4], costretta quindi a trasferirsi nell’immensa periferia, nelle borgate, nell’agro circostante, nei centri periferici, sostituita da attività di servizio (il terziario). Ma quei centri, divenuti città di 40/50 mila abitanti, continuano ad essere privi di servizi sociali di qualità: scuole superiori, parchi urbani. Gli abitanti, espulsi da Roma, vivono in condizioni sociali peggiori di quelle della capitale, aggravate dalla crisi della mobilità. Roma è paralizzata dal traffico privato. Chi abita nell’area metropolitana percorre anche più di cinquanta chilometri per raggiungere la città ed è, salvo eccezioni, costretto a farlo con il proprio mezzo, per carenza di trasporti collettivi. Due ferrovie collegano i comprensori di Bracciano e Monterotondo; il resto della popolazione dell’area raggiunge Roma con il mezzo individuale, impiegando ore ogni giorno. Si aggravano dunque le condizioni in termini di qualità della vita: nei centri urbani per l’assenza di servizi pubblici; per i costi dovuti agli spostamenti. Il “piano del ferro”, pilastro del piano regolatore, rimane negli auspici. La ragione è semplice: gli investimenti, necessari per migliorare il sistema dei trasporti non solo a Roma, non sono certo reperibili nelle singole città. Chi governa i processi di redistribuzione della popolazione e delle attività alla dimensione regionale?
Roma non è più un’isola, circondata da un’estesa campagna; è una vasta agglomerazione, che si va saldando ai comuni limitrofi e dilatando a macchia d’olio in più direzioni. All’inizio degli anni Sessanta lo spazio urbanizzato era meno di un decimo del territorio comunale, oggi è più di un terzo. Il Comune di Roma dispone di circa 129 mila ettari; lo spazio non urbanizzato è di circa 88 mila ettari; ma è ormai disarticolato, frantumato, attraversato da strade, ferrovie, elettrodotti, insediamenti di tutti i tipi, invaso da mille destinazioni, molte abusive.
Il piano prevede di realizzare 70,77 milioni di metri cubi (pag. 57 della Relazione di piano regolatore), pari al 10,1 % della cubatura complessiva della città attuale (poco più di 701,9 milioni di metri cubi); nelle previsioni sono comprese cubature per residenze, per attività varie (terziario privato e pubblico), per attività produttive. I fabbisogni di spazio, documentati nel piano da ricerche specifiche, nascono dalla realtà di Roma; ma la domanda è: devono tutti trovare posto in Roma? E qui si torna al problema del governo reale del territorio regionale.
L’incremento previsto (calcolato in abitanti equivalenti) è di circa 700.000 abitanti. Dividendo l’estensione complessiva delle aree a servizi (in metri quadri, comprensivi delle superfici “ad acquisizione compensativa con doppio regime”[5] pag. 74), per il numero degli abitanti esistenti, oltre all’incremento futuro di 700.000 abitanti (pagine 74 e 77), si ottiene un indice medio di 28,82 metri quadrati per abitante, ritenuto soddisfacente (?), da confrontare con quanto richiesto dai Decreti interministeriali del 1968 (in totale 35,5 metri quadrati per abitante).
All’attenzione della cultura e dei cittadini romani campeggiavano due grandi progetti: lo SDO (Sistema Direzionale Orientale) ereditato dal piano del 1965 e il progetto Fori, conseguente e alla denuncia del Soprintendente ai Beni Archeologici Adriano La Regina, esposta nel 1978, e all’accoglimento dei Sindaci Argan (“o i monumenti o le automobili”) e poi Petroselli, morto il quale, si estinse il progetto Fori. Anche lo Sdo è stato sepolto dal nuovo piano, approvato nel 2008. È vero che il piano del ’65 prevedeva i collegamenti viari fra SDO e Roma, oggi criticati da Campos. Ma cosa è successo di diverso a Bologna (come in altre città), con la realizzazione del Centro Direzionale? Questo è collegato alla città, con impianti viari. La realizzazione di impianti di trasporto su ferro (auspicabile e indispensabile per il bene di Roma e delle altre città italiane) è credibile solo se consegue a una politica nazionale; altrimenti non avviene né a Bologna, né a Roma, né in altre città. La proposta dello SDO mirava ad una politica di equilibrio delle destinazioni, attive nel territorio regionale. Politica che a Roma, come in altre città, è stata smentita.[6] Per la direzionalità il piano prevede una ventina di “centralità” (una per municipio), dove concentrare attività commerciali o poco più. La loro disposizione a corona rischia di rafforzare il carattere centripeto di Roma, centro delle funzioni insediate di livello regionale e nazionale.
Termino queste considerazioni, dedicate al governo di Roma (compreso il periodo delle amministrazioni Rutelli e Veltroni) con la citazione di un breve estratto[7], che tuttavia aiuta a capire il comportamento, tenuto negli ultimi 25–30 anni, dal governo romano:
“Sfruttamento del suolo per nuove costruzioni, ulteriore privatizzazione dei servizi pubblici e iniziativa di candidatura olimpionica (sia pure fallita), che prevedeva costruzioni e infrastrutture, evidenziano un concreto repertorio di policy, tipico del neoliberismo radicale. L’insieme di queste politiche evidenzia inoltre che in questa fase le relazioni fra politica ed economia nel regime urbano di Roma, privilegiano il ruolo di una componente del capitale, fortemente legata al luogo”.
Cenni sulle vicende urbanistiche di Milano
Nel 1860 Milano contava 150.000 abitanti e all’indomani della Prima Guerra Mondiale 800.000. Nel 1945, con la legge del ’42, attraverso un concorso di idee, è deliberato l’avvio del nuovo piano, approvato nel 1953. La prorompente attuazione del piano, mediante numerosi piani particolareggiati, contribuisce alla distruzione, pressoché totale, della città storica: apertura di larghi corsi per sostenere l’edificazione ad alte densità e sostituzione integrale degli edifici preesistenti. Nel 1948 La popolazione raggiunge 1.267.000 abitanti e nel 1961 1.582.000. Si impone la pianificazione territoriale: originariamente per 35 Comuni, nasce il Piano Intercomunale Milanese (Pim), la cui formazione si avvale dell’apporto di elevati livelli culturali. Il primo schema è del 1963, una seconda elaborazione del 1965. Il progetto di piano è adottato dall’assemblea dei sindaci nel 1967 e lì rimane. Nel 1976 si ha l’allestimento e nel 1980 l’approvazione della Variante Generale del piano regolatore (Sindaco Tognoli): ultimo tentativo di pianificazione urbana nelle forme tradizionali.
Di fronte alla crisi di sviluppo milanese, si manifesta un’ipotetica esigenza di “riurbanizzazione” con ruolo ridimensionato dell’Amministrazione pubblica. Milano, capitale d’Italia e del terziario avanzato, anticipa l’intera Nazione. Accantonata la ricerca di una Variante, la gestione avviene attraverso i “progetti di sistema”, il “documento direttore progetto passante”, il “piano case”, con sbocco infine al “documento direttore” del 1988 per le aree dismesse, in connessione con i grandi interventi sulle aree Bicocca-Pirelli, Portello-Alfa Romeo, Fiera-Pero Rho, oggetto di negoziazioni, coinvolgenti l’ente pubblico, principale investitore. L’Amministrazione, retta dalla Lega Nord, ripropone il piano regolatore, sostituito da una sorta di piano tecnico, strategico e programmatico; si ha di lì in poi l’avvio dei PRU (Programmi di Riqualificazione Urbana) e figliazioni successive, promossi dal Ministero dei Lavori Pubblici, su innesco dei “Programmi Integrati”, previsti dalla legge Botta-Ferrarini del 1992. Parallelamente sono formati 10 Programmi di trasformazione urbana (PRU), prodotti dal “Laboratorio di progettazione urbana” del Comune, nell’ambito di un “Nuovo Quadro per Milano” (delibera comunale 1995). La nuova linea è composta nel Documento d’inquadramento delle politiche urbanistiche comunali, adottato dal Consiglio Comunale nel 2001, nuovo modello di gestione urbanistica, caratterizzato da estesa consensualità e flessibilità: all’Amministrazione pubblica il ruolo di arbitro nell’arena degli interessi reali.
Dai primi anni 2000 nascono i Programmi Integrati di Intervento, con ampia applicazione su aree piccole e medie, sempre su iniziativa del “mercato”, i quali, dopo fasi di concertazione, partecipazione e valutazione, sono approvati dal Consiglio Comunale. Parallelamente si manifesta la radicale trasformazione della città da parte delle grandi operazioni, quali lo spostamento della Fiera (i grattacieli di City life: “il Dritto”, “Lo Storto”, “Il Gobbo”) ed Expo 2015. Tutto avviene in assenza dell’orientamento, fornito dall’istituto del piano regolatore o da un suo surrogato.
Cenni sulle vicende urbanistiche di Torino a partire dal 1980
La nuova amministrazione di sinistra, eletta nel 1975, formula il progetto preliminare di piano regolatore, conforme alla legge regionale Astengo 56/1977; quel piano tenta di rispondere alle esigenze e ai fini, espressi dalle rivendicazioni politiche e civili degli anni precedenti. Il progetto, coerente con le politiche della Regione Piemonte, è adottato prima dello scadere dell’Amministrazione (1980). Sopraggiunti i “terribili anni ‘80”, destrutturate le politiche della sinistra, si afferma la cultura neoliberista e quindi (fra altre sconfitte) il tramonto del piano, le incertezze delle amministrazioni, succedutesi dopo l’85, l’incarico alla Gregotti Associati (1986), l’adozione del nuovo piano (1992), la formazione dell’amministrazione Castellani (1993), l’approvazione del piano (1995), i cui contenuti erano e sono:
- la negazione di ogni interesse verso la dimensione regionale, in conformità alla linea vincente a livello nazionale, che persegue l’inserimento della città nella competizione nazionale e internazionale, alla ricerca di un nuovo status, non più fondato sulla produzione industriale, ma su l’incremento dei servizi terziari dentro la città, la loro qualificazione verso nuovi settori della scienza e dalla tecnologia, il potenziamento del turismo, della cultura, dell’intrattenimento[8];
- ai fini della trasformazione economica e sociale della città, l’utilizzo ingente di risorse pubbliche (dell’Europa, dello Stato, della Regione), nonché l’estrazione piena e incondizionata della rendita urbana, attraverso operazioni di valorizzazione delle aree centrali della città. In questa direzione si colloca l’operazione immobiliare più rilevante, anche a fini reclamistici (estesa complessivamente su tre milioni di metri quadrati), denominata, fin dalla sua nascita, la Spina centrale, coincidente con le aree affiancate al tracciato ferroviario, già impegnate da insediamenti industriali storici, oggetto di radicale demolizione, sostituiti, contro le trionfalistiche aspettative iniziali (il terziario), da insediamenti prevalentemente residenziali;
- malgrado la trasformazione pressoché totale delle aree già industriali (oltre 9 milioni di metri quadrati), site in località centrali e semicentrali, la scelta di confinare improbabili servizi sociali nei luoghi marginali (sulle sponde della Stura, sulle pendici della collina), anche quelli che avrebbero dovuto e potuto finalmente coprire fabbisogni secolari, espressi dagli insediamenti a basso reddito, realizzati storicamente nel nocciolo centrale della città, in prossimità delle fabbriche, un tempo motore economico della città. A Torino, a differenza di Roma sarebbe stato possibile soddisfare il fabbisogno di servizi, utilizzando le aree di trasformazione. Certo con l’esborso di risorse pubbliche.
In conclusione
Dai casi trattati (Roma, Milano e Torino) emergono alcuni punti nodali, quali:
- per tutti i tre casi è palese la mancanza del governo pubblico dei processi territoriali-regionali;
- il caso di Milano rivela l’applicazione più coerente del principio dell’intervento del potere privato nel governo del territorio. Il primato dell’interesse collettivo direi sia tranquillamente ridimensionato. Non è un caso che il disegno di legge nazionale, che nel 2006 inseriva nel sistema delle decisioni, in materia di governo del territorio, il potere privato a pari dignità, a fronte del potere pubblico, portasse il nome di Lupi, già Assessore all’urbanistica di quella città;
- l’assenza di controllo dell’occupazione del suolo o comunque l’applicazione della perequazione, è fatto direi acquisito a Roma, a Milano e a Torino.
- Dalla lettura sinteticamente esposta, penso ci si trovi ad un bivio (imito Campos, anche se egli parla di un trivio):
- Prima strada: continuare per quella imboccata da tempo, coerente con l’egemonia culturale della controrivoluzione neoliberista, fatta propria da anni da gran parte della cultura e dalla politica europee[9]: vale a dire continuare con la linea, che persegue il primato dei grandi centri, in competizione fra loro a livello europeo, i cui governi locali privilegiano lo sviluppo (pro-growth anziché pro-welfare[10]). In questa direzione non occorre modificare alcunché: già ora dominano i grandi centri urbani; l’eventuale governo metropolitano non farà che accentuare il potere delle attuali centralità, a scapito delle periferie non più comunali, ma provinciali e regionali. In quella direzione, più o meno a breve, si dovrà risolvere anche il problema degli standard, della dotazione del livello civile delle città. Le strade inventate, quella miserrima di Torino o quella più ambiziosa di Roma (Milano non si lascia attardare da simili ubbie), hanno il fiato corto; dalla loro hanno né logica né buon senso: Torino confina la aree a servizi nei luoghi dove la rendita è minima (per ora), dove l’uso del suolo non interessa ad alcuno, ad esempio sui bordi della Stura; Roma invade un ambiente esterno, la campagna romana, che ha valore storico, irripetibile: se ne erano accorti Montaigne, Goethe, Pasolini, Quaroni, Flaiano e mille altri, ma noi no. In questa direzione si troverà presto il modo di infrangere il vincolo, che oggi ancora vige, a garanzia dei cosiddetti standard, ambizione, che faceva parte della spinta, viva in Italia, e non solo, a favore dello stato sociale (il welfare appunto). Quel lusso l’abbiamo perso nella speranza, prima che nella realtà. Verrà quindi il momento e la forza culturale e politica, che si farà carico di adeguare la legge alle attese, soprattutto di chi governa e di chi ha interesse e potere di decidere. Siamo sulla buona strada, visto che ormai abbiamo elaborato il grimaldello della qualità versus quantità. Chi non apprezza la qualità? Tenendo conto però che non c’è qualità senza misura quantitativa. Qualità vuol dire in primo luogo struttura della città, cioè progetto degli spazi per servizi, in rapporto a ben determinati ambiti urbani. Quale è il progetto del piano di Roma? Gran parte dei servizi, che occorrono alla città sono in qualche posto, nell’agro. E a Torino? In qualche parte: sulle sponde della Stura o in collina.
- Seconda strada, contraria alla prima: governare i processi complessi e potenti di redistribuzione delle attività e della popolazione, di consumo del suolo ecc., quali sopra accennati per i comuni dei dintorni di Roma. Identiche situazioni e quindi identiche esigenze riguardano Venezia, Firenze, Napoli, Bologna, Torino ecc. Se si persegue la riorganizzazione degli assetti regionali, significa mettere in crisi il principio della competizione fra città. Come si può risolvere la questione della pianificazione regionale e quindi delle risorse, ad esempio, necessarie per costruire veramente il sistema dei trasporti collettivi, senza mobilitare le competenze e le risorse dello Stato[11]? Com’è possibile intervenire sul sistema dei trasporti nelle grandi aree urbane, senza affrontare il sistema dei trasporti nella sua organizzazione complessiva, all’interno, o accanto alla quale, si colloca l’insieme delle reti di trasporto delle grandi città? La stessa logica vale per tutte le grandi questioni: la stabilità delle terre, le grandi dorsali dei trasporti nazionali-europei, l’ammodernamento dei porti, connesso al potenziamento del trasporto via terra, via acqua, ecc. Affrontare nell’insieme, questi temi, scegliendo priorità e obiettivi, non conduce forse alla già negletta disciplina della programmazione? Forse non negli stessi termini del passato. Che siano queste le riforme necessarie e non il presidenzialismo o simili? Gli standard: non si vede come si possa risolvere il fabbisogno di aree, senza mettere mano alla questione nodale della rendita fondiaria. Come si fa a garantire alle varie città estensioni consistenti di aree per le diverse esigenze, se gli spazi, soprattutto dove mancano, cioè nei luoghi centrali, richiedono risorse impossibili da reperire, ai valori imposti dalla rendita? Sembra chiaro che quell’obiettivo si possa perseguire solo se il valore del suolo (si badi il valore del suolo, non degli edifici) sia trasferito alla collettività. Senza risolvere quel nodo, la questione degli standard si traduce in trucchi: a Torino, a Roma, a Napoli, a Milano.
La seconda delle due strade sintetizzate, non è oggi all’ordine del giorno? Certo che non lo è. Ma non lo sarà mai se non si costruisce una linea culturale e politica, che possa diventare, come diceva Gramsci, “senso comune”.
[1] Si veda: P. Berdini. “Esplosione metropolitana”, testo pubblicato da www.eddiburg.it in data 22/05/2012.
[2] Si veda: V. De Lucia “Il nuovo piano regolatore di Roma e la dissipazione del paesaggio romano”, pubblicato su “Meridiana”, nn. 47-48/2003, riportato da www.Eddiburg.it
[3] Ernesto d’Albergo e Giulio Moini, docenti alla Sapienza – Università di Roma – Dipartimento di Scienze Sociali “Politica, economia e potere a Roma, fra neo-liberalizzazione e grandi eventi”.
[4] Elemento significativo della dinamica demografica della popolazione è rappresentato dall’incremento costante della “popolazione straniera”, rispetto alla “popolazione italiana”, come documentato dal rapporto: “Piano Regolatore sociale” di Roma, a cura di D. Terrazza e B. Menghi “La popolazione di Roma” – gennaio 2010.
[5] Estratto dalla Relazione del Prg, pag. 74: “…le Norme Tecniche di Attuazione (Art. 82) prevedono un “doppio regime” normativo per tutte le aree a destinazione pubblica, generale e locale, ancora da attuare, consistente, in sostanza, nella possibilità offerta al proprietario privato della cessione del 80 % dell’area vincolata e della contemporanea utilizzazione del restante 20 % per destinazioni d’uso non residenziali, concentrando su questa parte minoritaria l’edificabilità prevista (0,05 mq/mq); garantendo però al Comune la possibilità espropriativa, qualora si verifichi l’impossibilità di attuazione con la modalità compensativa.”
[6] “La politica accentratrice del Comune di Roma, finalizzata a favorire le grandi attività terziarie, pubbliche e private con asse di sviluppo preferenziale verso il mare, è stata agevolata dalla rinuncia dello Stato, della Regione e della Provincia a promuovere iniziative di elevato livello nelle altre città del Lazio.” da Vezio De Lucia, documento citato.
[7] Ernesto d’Albergo e Giulio Moini, documento citato.
[8] Si veda il libro di S. Belligni e S. Ravazzi, “La politica e la città. Regime urbano e classe dirigente a Torino”, Il Mulino, 2012, con riferimento particolare al Capitolo 3, “La nuova Torino”, pagg. 43 e seguenti.
[9] Coerente cioè con la “Lotta di classe dopo la lotta di classe”, come illustrato da L. Gallino nell’omonimo libro, Edito da Laterza nel 2012.
[10] Distinzione, riportata da S.Belligni e S. Ravazzi nel libro citato.
[11] Questa è la conclusione cui giunge la Commissione di lavoro del Consiglio italiano per le Scienze Sociali (CSS), coordinata da Giuseppe De Matteis, che si è espressa nel 2011 con un rapporto dal titolo: “Società e territori da ricomporre. Libro bianco sul governo delle città italiane”