di Francesco Scacciati
Penso che la prima cosa che si debba dire in una recensione di un libro è se è bello o brutto. Questo è bello e interessante. Ha un unico difetto, del quale dirò subito, per poi concentrarmi sui molti pregi. Per ammissione della stessa autrice, si tratta di una versione allungata di un rapporto scritto per un think tank a servizio del governo britannico nel 2011… e si vede. Alcuni argomenti sono ripetuti più e più volte (al limite dell’ossessività, tanto da far pensare che l’autrice ritenga i suoi lettori un po’ duri di comprendonio), altri, pur interessanti, c’entrano relativamente poco con la tesi del libro. Sì, perché è un libro a tesi, ma questo non è un difetto, se la tesi è valida e ben argomentata.
La tesi che Mariana Mazzucato vuole dimostrare è che lo Stato può, e deve, assumere il ruolo di guida nell’innovazione tecnica e conoscitiva, assumendo di conseguenza un analogo ruolo per la crescita economica, nel quadro della teoria distruttiva-creativa di Schumpeter. “Può” perché lo ha fatto molto spesso nel recente passato. “Deve” perché il mercato, le imprese private e i venture capitals non sono in grado per la loro stessa natura di farlo. Corollario di tale tesi è che lo Stato avrebbe tutto il diritto di appropriarsi di parte dei profitti che questo suo ruolo genera, per finanziare nuove ricerche e per coprire i costi di ricerche che non hanno portato a risultati positivi. Ma ciò non avviene, in quanto i capitali privati (soprattutto i venture capitals) si appropriano dei risultati della ricerca di base[1] i cui rischi di fallimento sono già stati socializzati tramite la spesa pubblica per ricerca e sviluppo (R&S), privatizzandone i profitti. Si tratta di un vero e proprio free-riding: da un lato l’orizzonte temporale dei venture capitals raramente supera i 5 anni (ma di solito è tra i 3 e i 5), dopodiché c’è il realizzo, tramite cessioni o fusioni; dall’altro le imprese più grosse, che hanno avuto successo grazie all’applicazione delle tecnologie frutto delle ricerche pubbliche, spesso riacquistano le proprie azioni rafforzando il valore del titolo, a tutto beneficio di manager e alti dirigenti, che godono di stock-options. E’ un meccanismo che non crea valore aggiunto ma rende più facile “spremere” il valore aggiunto creato dalla ricerca finanziata dal settore pubblico.
Inoltre, non di rado le grandi imprese eludono (tramite delocalizzazioni, sgravi, etc.) o addirittura evadono il fisco, ragion per cui allo Stato non torna neppure il beneficio indiretto (gettito fiscale) dei suoi rischiosi investimenti. «… le tasche dello Stato vengono svuotate … proprio da quelli che ad esso devono il loro successo».
A differenza di come per decenni ha fatto la scuola neo-neoclassica (o «ultraliberista» per usare il termina adoperato dall’autrice), che ha governato l’economia mondiale sulla base di assiomi indimostrati e indimostrabili, del tipo «il mercato lasciato libero di operare porta sempre a situazioni ottimali e di equilibrio» e «lo stato non è la soluzione ma è il problema», etc., da cui deriverebbe che l’impresa privata è la forza innovativa, mentre lo Stato è una forza inerziale – Mariana Mazzucato dimostra la sua tesi, punto dopo punto, basandosi su inoppugnabili dati di fatto. E per rafforzare i suoi argomenti, si permette perfino un excursus nella storia del pensiero (per quanto concerne la teoria della crescita), materia indispensabile per la comprensione dell’economia, che è però stata praticamente “estinta” dalla vis destruens della scuola ultraliberista, in stile talebano. Secondo chi scrive, l’abolizione della materia “storia del pensiero economico” dalle facoltà e dai dipartimenti è qualcosa di molto simile all’incendio della biblioteca di Alessandria, anche nelle motivazioni.
Punto 1. Dal 2007, anno d’inizio della crisi, i paesi occidentali che meno avevano investito in R&S sono quelli che più profondamente e più a lungo hanno risentito (e ancora stanno risentendo) della crisi stessa. La ricetta che vorrebbe che questi paesi continuassero a sottoporsi a una politica di austerità per diminuire ulteriormente una spesa pubblica già ridotta all’osso – mentre il rapporto debito/PIL peggiora perché gli interessi sono alti e il PIL non cresce (o addirittura diminuisce) – è fallimentare in quanto «nessun paese è mai cresciuto senza massicci investimenti in aree fondamentali come l’istruzione, la ricerca e la formazione del capitale umano». Inoltre, la crescita non si crea tramite una riduzione delle imposte, e l’impulso che questa può effettivamente dare alla crescita è più sul lato della domanda che non quello dell’offerta.
Punto 2. Molto di frequente in passato gli Stati hanno finanziato la ricerca di base, impiegando ingenti risorse finanziarie, ingaggiando le menti più raffinate[2] e affrontando grandi rischi di fallimenti, in campi nei quali gli investitori privati non si avventurano per l’eccessiva rischiosità e per la lontananza nel tempo degli eventuali ritorni economici e finanziari[3]. La questione del rischio e di chi se ne fa carico è uno degli aspetti chiave del ragionamento dell’autrice. «L’imprenditorialità … non è (solo) una questione di start-up, venture capitals e geni individuali che inventano prodotti rivoluzionari nel garage di casa. E’ una questione di volontà e di capacità degli operatori economici di accollarsi il peso dei rischi…» in un quadro di incertezza così come la ha definita Knight e cioè di qualcosa di effettivamente sconosciuto, ovvero di «rischio incommensurabile». E il fatto che chi si carica del rischio debba anche godere dei frutti dell’eventuale successo è un altro degli argomenti forti del libro, trattato nella parte conclusiva e che sarà oggetto di discussione nella parte finale di questo scritto.
Silicon Valley è la dimostrazione inconfutabile del fatto che lo Stato è in grado non solo di facilitare l’economia della conoscenza, ma anche di crearla: «…tutte le tecnologie che hanno reso così smart l’iPhone di Steve Jobs, che comportavano un elevatissimo livello di incertezza, non sono state create grazie a venture capitals o a inventori da garage, ma sono state finanziate dallo Stato». In quasi tutte le innovazioni più radicali e rivoluzionarie che hanno alimentato il dinamismo dell’economia capitalista, dalle ferrovie, alla rete internet, fino alle nanotecnologie, alle bio-tecnologie e alla farmaceutica più avanzata, gli investimenti più coraggiosi, precoci e costosi sono riconducibili allo Stato. Lo stesso algoritmo che è alla base del grande successo di Google è stato finanziato da un organismo pubblico (la National Science Foundation). «Innovazioni che oggi non ci sarebbero se avessimo dovuto aspettare che ci pensassero il mercato e le imprese private»[4]. Lo Stato ha “prefigurato” internet e le nano-tecnologie quando non esistevano nemmeno le parole per definirle: «chi avrebbe mai immaginato che una tecnologia creata per preservare le comunicazioni in caso di guerra nucleare sarebbe diventata la piattaforma mondiale per la conoscenza, la comunicazione e il commercio?». Tutto ciò è stato reso possibile perché lo Stato ha dimostrato «capacità di visione e volontà di tradurre la visione in realtà … disponendo di competenze specifiche reali in ordine alla tecnologia e al settore in questione… avendo attirato talenti e creato un clima di entusiasmo».
Come il lettore può notare, buona parte degli esempi che l’autrice porta a sostegno della sua tesi dello stato innovatore si riferiscono agli Stati Uniti[5]; purtuttavia, anche altri paesi a sviluppo consolidato come la Germania e la Danimarca ed emergenti come il Brasile e la Cina sono oggi all’avanguardia nell’indirizzare il credito verso settori nuovi e “incerti”, dove le banche private e i venture capitals esitano ad avventurarsi, soprattutto nei confronti delle tecnologie verdi e le bio-tecnologie, ottenendo risultati e rendimenti eccezionali, «indicando la strada da seguire con audacia e avendo una visione coraggiosa: l’esatto contrario dell’immagine dello Stato che ci viene propinata solitamente». Lo Stato dunque inteso non come qualcosa “che si intromette” o anche che si “limita a facilitare” la crescita, ma come il fattore potenzialmente più innovativo, in grado di modellare o addirittura “creare” mercati che altrimenti non esisterebbero, spendendo molto, ma senza favorire preventivamente un’impresa piuttosto di un’altra[6]. Lo Stato che assume questo ruolo è definito «development state» («Stato sviluppista»): tale ruolo avuto dal governo degli Stati Uniti negli ultimi ottant’anni è sotto gli occhi di tutti, ma è stato occultato dal successo del fondamentalismo liberista che ha dominato (e in buona parte ancora domina, salvo che per gli interventi di politica monetaria) il dibattito politico-economico. A questo proposito, l’autrice cita un’illuminante frase tratta da Erik Reinert[7]: «Fin dai tempi dei padri fondatori, gli Stati Uniti sono stati lacerati tra due tradizioni, le politiche interventiste di Alexander Hamilton (1755 – 1804) e la massima di Thomas Jefferson (1743 – 1826) secondo la quale il governo che governa meglio è quello che governa meno. Con il passare del tempo e con il consueto pragmatismo americano, questa rivalità è stato risolta lasciando ai jeffersoniani il controllo della retorica e agli hamiltoniani il controllo della politica economica».
In conclusione, lo Stato ha avuto e dovrà avere in futuro questo ruolo di protagonista nell’innovazione e nella crescita, in quanto a) non è legato all’esigenza di realizzare profitti nel breve termine, ma è disposto a fornire «capitali pazienti» (questo è un ulteriore concetto chiave del ragionamento della Mazzucato) e b) dispone di più mezzi per correre il rischio di un fallimento che il finanziamento della ricerca innovativa di base implica (in questo campo lo Stato è il risk-taker per eccellenza)[8]. Insomma, il tutto ben al di là del ruolo attribuito tradizionalmente all’intervento dello Stato dalla teoria dei fallimenti del mercato[9]. Ma il ragionamento della Mazzucato non termina qui. In molti casi è necessario che lo Stato sostenga il processo innovativo fino a comprendere il livello della commercializzazione: gli Stati Uniti d’America, tutt’ora al primo posto nel mondo per quanto concerne i risultati della ricerca nel campo dell’innovazione, fanno registrare un declino relativo della produttività nel settore manufatturiero in quanto lo sviluppo delle innovazioni si blocca frequentemente prima della commercializzazione, trasferendosi piuttosto all’estero, in presenza di condizioni fiscali e retributive più convenienti.
Punto 3. Lo Stato deve dunque finanziare la R&S, ma non solo: non deve esternalizzare tutte quelle aree che richiedono competenze avanzate, bensì svilupparle internamente, aumentando la capacità sia tecnica che manageriale della Pubblica Amministrazione, sia a livello centrale, sia locale. Cito, quasi testualmente, un passo importante del libro: sul versante sinistro dello schieramento politico, gli investimenti pubblici finalizzati a incrementare la produttività sono visti con meno favore delle spese per i capisaldi dello Stato sociale come la scuola e la sanità. Ma lo Stato sociale non può sopravvivere se non ha alle sue spalle un’economia produttiva che generi valore aggiunto e gettito fiscale in grado di finanziarlo. Le politiche redistributive sono fondamentali per garantire che la crescita economica produca risultati equi, ma di per sé non creano crescita. L’accentuata disuguaglianza è un ostacolo alla crescita, ma non basta l’uguaglianza per creare crescita. Quello che manca nella gran parte delle proposte della sinistra keynesiana è un’agenda per la crescita che crei e simultaneamente redistribuisca la ricchezza: per Keynes infatti l’intervento del governo è principalmente basato su una spesa di carattere temporaneo, che può concretizzarsi in qualsiasi tipo di spesa, seppure preferibilmente le opere pubbliche, proprio per la loro temporaneità. Secondo la Mazzucato, tale abbinamento tra redistribuzione e crescita si può realizzare abbinando i modelli di Keynes[10] con quello di Schumpeter. Viceversa, l’ideologia ancora dominante fa deliberatamente arretrare le frontiere della politica economica.
Poiché la crescita è fortemente correlata con gli investimenti su ricerca e innovazione e sull’applicazione di queste, e poiché il ruolo dello Stato in tutto ciò è cruciale, per quanto concerne l’Unione Europea «trovare sostegno a politiche del genere è praticamente impossibile con il nuovo fiscal compact, che limita la spesa degli Stati dell’UE al 3% del PIL». Gli accordi europei dovrebbero trattare la spesa pubblica destinata alla R&S, e più generalmente destina alla crescita e all’innovazione, come investimenti in conto capitale. Inoltre, seguendo il ragionamento dell’autrice, l’UE dovrebbe cercare di prevenire i problemi degli Stati membri più deboli, invece di ricorrere a costosi e incerti salvataggi, mentre la BCE dovrebbe comunque fungere da prestatore di ultima istanza, così come fanno la FED e la Banca d’Inghilterra, per scoraggiare la speculazione ai danni dei Paesi in maggiore difficoltà (difficoltà che dovrebbero poter essere superate con politiche adeguate, di breve e soprattutto di lungo periodo).
Ovviamente ci sono i Paesi che crescono poco e hanno un alto debito pubblico, ma quale dei due fattori sia la causa e quale l’effetto è tutto da stabilire. La recente polemica sul saggio di Reinhart e Rogoff (2010) – che, basandosi su dati (volutamente?) sbagliati “dimostra” che un debito superiore al 90% del PIL frena la crescita – sta a indicare quanto la scuola ultraliberista abbia colonizzato l’accademia, l’opinione pubblica e i “consiglieri del principe”. Insomma, per Portogallo, Italia, Spagna e Grecia – definiti «Stati spendaccioni» – il problema non è quanto lo Stato spende, ma come spende[11].
Punto 4. Secondo l’autrice, la prossima grande rivoluzione tecnologica riguarderà la green economy, e anche in questo caso il ruolo pubblico sarà indispensabile, in quanto la green economy non si potrà sviluppare “naturalmente” tramite le forze di mercato, sia a causa di un’infrastruttura di produzione energetica già esistente a basso costo, sia perché il mercato non dà valore alla sostenibilità ambientale, né sanziona sprechi e inquinamento.
Alcuni Stati già rivestono un ruolo attivo in questo campo, seppure con impostazioni (anche ideologiche) e modalità diverse rispetto a quelle adottate per internet, in quanto si tratta di uno sforzo che punta a trasformare un’infrastruttura già esistente, e di fondamentale importanza: quella dell’energia. Lo sforzo va compiuto per quanto concerne sia la domanda, sia l’offerta: soluzioni a emissioni basse o zero, energie rinnovabili, nuove normative per l’edilizia, introduzione di tasse sulle emissioni, crediti d’imposta, sussidi, prestiti, sovvenzioni, ecc. Fino a quando le turbine eoliche o i pannelli fotovoltaici non riusciranno a produrre energia a un costo comparabile con quello dei combustibili fossili, continueranno a essere tecnologie marginali. Nel settore delle tecnologie pulite, la Cina e la Germania (e la Danimarca, per quanto concerne l’eolica, sostenuta fin oltre il livello della commercializzazione) sono all’avanguardia in quanto a finanziamento della ricerca. La Cina, grazie a finanziamenti pubblici e a tariffe di riacquisto dell’energia prodotta a livello regionale, ha fatto diminuire a tal punto i prezzi dei prodotti cinesi nel settore della tecnologia solare da provocare grandissime difficoltà (fino al fallimento) delle società del settore in America e in Europa. In particolare, gli Stati Uniti sono un mercato di primo piano per il consumo di energia solare, ma non riescono ad avere un’impresa di primo piano nel settore, mentre per la Cina è vero il contrario (anche se da qualche tempo la domanda interna di energia pulita sta aumentando). La differenza non sta né in un vantaggio comparato né in una maggior disponibilità di sole: sta solo nel diverso volume di finanziamento pubblico, ingente nei primi tempi anche negli USA, ma poi ridotto per via dei tempi “troppo lunghi” per i ritorni economici[12]. La Germania è invece all’avanguardia per quanto concerne la domanda e la produzione di energia solare: in 10 anni ha portato la produzione interna da 62 a 24.000 MW (l’equivalente di 24 centrali nucleari medio-grandi).
Per quanto riguarda la produzione di turbine per l’energia eolica la situazione per gli USA è migliore in quanto i finanziamenti pubblici alla ricerca e alle sue applicazioni sono rimaste elevate, così che la General Electric domina il mercato americano in questo settore: nonostante ciò, la Cina è il primo produttore mondiale di energia eolica dal 2010. E, anche in questo caso, non una questione di quantità di vento: la banca cinese per lo sviluppo ha stanziato 3 miliardi di dollari per finanziare la più grande centrale eolica dell’Argentina, con turbine di produzione cinese.
Punto 5. I profitti creati dalla commercializzazione dei prodotti derivati dalla ricerca e dall’innovazione sono interamente incassati dalle imprese private. Questo non corrisponde neppure ai principi più integralisti del neo-liberismo, in quanto rischio e rendimento dovrebbero essere strettamente correlati. Come abbiamo visto, così non è per quanto concerne l’innovazione: i rischi sono affrontati da soggetti diversi da quelli che ne introitano i profitti. Secondo la Mazzucato «per favorire l’innovazione abbiamo bisogno di istituzioni sociali che consentano agli operatori che si accollano il rischio di raccogliere i benefici del processo di innovazione, se e quando questo va in porto … La sfida principale è creare istituzioni che governino il nesso rischi-ricavi in modo tale da sostenere una crescita economica equa e stabile. Per riuscirci è essenziale guardare all’innovazione come a un processo collettivo, che include un’ampia divisione del lavoro con molte parti in causa». Il termine “istituzioni” è ripetuto, e lo è più volte anche in altre parti del testo.
L’autrice si domanda poi perché innovazione e disuguaglianza sono sempre andate di pari passo, e risponde che ciò si verifica perché alcuni operatori riescono ad accaparrarsi una quota dei proventi spropositata rispetto al contributo che hanno offerto al processo. Se invece la distribuzione dei proventi riflettesse la distribuzione dei contributi forniti al processo innovativo, l’innovazione stessa creerebbe minore, e non maggiore, disuguaglianza. Se lo Stato è effettivamente indispensabile per finanziare gli investimenti in innovazione ad alto rischio, dovrebbe riceverne un profitto diretto, da utilizzare per finanziare la tornata di ricerca successiva e per coprire le inevitabili perdite che insorgono quando si investe in aree ad alto rischio. Invece, in molti casi gli investimenti pubblici si trasformano in veri e propri regali alle imprese private.
Punto 6. Le ultime pagine del libro affrontano l’aspetto più delicato della questione introdotta nel punto precedente: come fare perché lo Stato (e dunque la collettività) riceva il giusto compenso per la realizzazione di successo delle ricerche che ha finanziato?
- Prestiti di denaro pubblico vincolati al reddito, come quelli per gli studi universitari.
- La creazione di banche per investimenti innovativi, controllate dallo Stato.
- Una golden share sui diritti di proprietà intellettuale da versare su un «fondo nazionale per l’innovazione». Condizione necessaria è «accrescere la trasparenza degli investimenti pubblici, rendendo più tracciabili le spese dello Stato a sostegno dell’industria privata».
- Una quota azionaria delle società che applicano le ricerche che lo Stato sostiene e poi ne commercializzano i prodotti.
Si tratta di spunti molto interessanti, ma rimangono molte questioni aperte.
In realtà solo la quarta delle suddette proposte sembra essere in grado di far sì che «la distribuzione dei proventi rifletta la distribuzione dei contributi forniti al processo innovativo» e cioè che lo Stato riceva una quota dei profitti realizzati dalle imprese private grazie alla ricerca finanziata con denaro pubblico. Nei primi due casi, infatti, le banche introiterebbero gli interessi sul denaro prestato (purché l’impresa non fallisca), ma non una quota proporzionale ai profitti. Il caso sub 3 a sua volta sembra prefigurare più un’attività di controllo pubblico che non una partecipazione agli utili. Il caso sub 4, invece, presenta problemi di tipo “istituzionale” (per usare un termine caro all’autrice). In parole semplici, chi incasserebbe tali proventi a nome dello Stato, in quanto titolare dei pacchetti azionari? Un solo mega-ente: una specie di nuova IRI (o magari IRS, Istituto per la Ricerca e lo Sviluppo)? O invece tanti enti quanti i settori di ricerca? E che denominazione sociale avrebbero? Società per azioni, a loro volta con una golden share del tesoro?
Ma forse questa è materia per un altro libro.
[1] Negli USA, lo Stato pesa per il 26% della spesa complessiva per R&S, ma la “sua parte” sale al 57% se si considera solo la ricerca di base, molto più rischiosa e meno remunerativa.
[2] Il Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti è diretto da un premio Nobel per la fisica.
[3] Non di rado c’è pure la prova a contrario, rilevabile in casi di privatizzazione. Telecom, per fare un esempio, non appena privatizzata, ha drasticamente ridotto le spese per R&S. Ma non è che un esempio: nel mondo gli investimenti nei centri di R&S sono sempre meno mirati alla ricerca e sempre più allo sviluppo.
[4] «Quanto sarebbe stata più facile la battaglia di Obama per la riforma sanitaria se la popolazione statunitense fosse stata consapevole del ruolo che ha avuto il governo centrale nel finanziamento dei nuovi farmaci». «Eppure la storia che viene raccontata, e purtroppo creduta, è quella di un comparto farmaceutico innovativo e di uno Stato che si intromette».
[5] Che, pur essendo «spesso portati a esempio dei benefici del sistema di libero mercato, hanno uno dei governi più interventisti del mondo quando si tratta di innovazione».
[6] A posteriori, ovviamente, non è così: Apple ha tratto vantaggi enormi dalla ricerca pubblica negli Stati Uniti. E, grazie a operazioni di delocalizzazione ha sottratto buona parte dei suoi colossali profitti al gettito fiscale dello Stato a cui deve il suo successo.
[7] E. Reinert, How Rich Countries Got Rich and Why Poor Countries Stay Poor, Constable, London 2007.
[8] Inevitabilmente spesso accade che le ricerche non portino a nulla. Solo le ricerche condotte dagli economisti vanno miracolosamente tutte a buon fine, con un trionfale «come volevasi dimostrare» conclusivo.
[9] «La teoria economica corrente giustifica l’intervento pubblico nella produzione quando i benefici di un investimento per la società sono maggiori degli investimenti privati (e dunque è improbabile che i privati siano disposti a investire): dalla protezione dell’ambiente alla ricerca di base. Eppure meno di un quarto degli investimenti in R&S realizzati negli USA appartiene a questa tipologia».
[10] L’autrice non nega l’efficacia degli interventi di politica economica di matrice «tradizionalmente keynesiana», anzi, ne è fautrice, ma vorrebbe che l’intervento pubblico andasse oltre.
[11] Negli anni ’70 il Giappone spendeva il 2,5% del PIL per la R&S, mentre l’Unione Sovietica spendeva oltre il 4%. Eppure il Giappone realizzò una crescita molto più rapida perché tali finanziamenti erano distribuiti su tutta l’economia, mentre nell’URSS si concentravano nei settori militare e spaziale. Soprattutto, l’URSS non aveva imprese (né private ma neppure pubbliche) che commercializzassero le tecnologie realizzate dallo Stato. Il Giappone all’epoca fu uno dei casi più eclatanti di development state.
[12] Gli USA sono stati al primo posto nella ricerca e nelle applicazioni dell’energia eolica quando questa era indispensabile per alimentare i satelliti artificiali, nell’ambito della “corsa allo spazio” in concorrenza con l’Unione Sovietica.