di Guido Ortona
1. Introduzione: il consueto attacco alla democrazia
E’ normale che nei periodi di crisi economica (e quindi sociale) prolungata la democrazia sia in pericolo. Lobbies tradizionalmente potenti vedono pencolare le basi del loro potere (è il caso, qui e ora, delle banche toscane, tanto per fare un esempio); e altre meno potenti sgomitano per avere più spazio. Nasce allora facilmente una coalizione fra gruppi di potere e politici ambiziosi che propone la riduzione della democrazia a favore di un’oligarchia. Questo schema è stato molto variabile nei dettagli nei diversi casi storici, ma una sostanza comune è evidentemente individuabile. E anche alcune caratteristiche specifiche lo sono: la richiesta di un leader forte che faccia uscire dalla palude, la presentazione del potere oligarchico come potere dei migliori, la denigrazione della politica tradizionale e della cultura che sostiene la democrazia. Che tutto ciò stia nuovamente avvenendo oggi in Europa e in modo particolare in Italia dovrebbe essere ovvio. Come dovrebbe essere ovvio che le probabilità di successo di questa mutazione sono tanto più alte quanto più coloro che intendono propiziarla possono contare sul malcontento dell’opinione pubblica: e quindi quanto più la crisi è grave, quanto più la democrazia in vigore è inefficiente e/o corrotta, e quanto più i futuri oligarchi possono contare sul controllo dei media. Queste caratteristiche fanno ovviamente sì che in Italia la crisi della democrazia sia particolarmente grave, come si è detto, e la sua fine una possibilità realistica.
Il combinato disposto legge elettorale – riforma della Costituzione vuole evidentemente essere il punto di non ritorno di questo processo. Basterebbe questo per indurre coloro che tengono alla democrazia a fare di tutto per opporsi; e anche se questo non è il tema di quest’articolo non si può fare a meno di ricordare come i parlamentari del PD, indipendentemente dalla loro collocazione in esso, abbiano un’enorme responsabilità per non averla difesa. La storia li giudicherà. Mi auguro che qualcuno di essi avrà il tempo e il coraggio per ammetterlo.
Tuttavia è utile (e per chi si occupa professionalmente di tali materie, che è il caso di chi scrive, anche doveroso) entrare nel merito delle proposte che implementano l’attacco alla democrazia. A questo è dedicato l’articolo che state leggendo, che però riguarda solo l’Italicum; altri, più competenti di me, potranno scrivere sulla riforma della Costituzione. Coerentemente con questo approccio procederò discutendo gli argomenti che studiosi attendibili (uno solo, in realtà) hanno avanzato a favore della nuova legge elettorale. Prima però ne riassumerò brevemente i suoi contenuti, ad uso del lettore; chi li conosca già può saltare il prossimo paragrafo.
2. Cosa prevede l’Italicum
Il cosiddetto Italicum funziona così. Il partito che abbia almeno il 40% dei voti ottiene 340 seggi; gli altri si ripartiscono 277 dei rimanenti. Ne rimangono 13: 12 sono assegnati dai collegi esteri (che sono 4) con metodo proporzionale (in realtà molto limitatamente tale, data la scarsa numerosità dei collegi) e 1 in Val d’Aosta con sistema maggioritario uninominale (sistema che vale anche per i 9 deputati della regione Trentino – Alto Adige). La ripartizione dei 277 seggi avviene proporzionalmente ai voti ottenuti a livello nazionale; è prevista una soglia del 3%. Se nessun partito ottiene il 40% i due che hanno ottenuto più voti vanno al ballottaggio, e chi vince ottiene 340 seggi. Ci sono 100 collegi, definiti su base geografica, con un numero variabile di seggi (da 3 a 9). Norme specifiche regolamentano la parità di genere. I capilista sono bloccati, ed è possibile candidarsi in al massimo dieci collegi. La legge sarà in vigore dal 1° luglio 2016, il che implica che eventuali elezioni anticipate che si dovessero tenere fra la sua entrata in vigore e l’approvazione definitiva della riforma costituzionale porterebbero all’elezione della Camera e del Senato con due sistemi diversi. Questo rende ovviamente molto rischioso un’eventuale scioglimento delle Camere, in violazione delle prerogative presidenziali. Si tratta di una delle molte violazioni della costituzione che accompagnano l’iter dell’Italicum, e non delle più importanti; ma di questo aspetto non mi occuperò, non essendo io un giurista.
3. Argomenti a favore dell’Italicum, 1: generalità
Come detto più sopra, lascerò ad altri la polemica con i Costituzionalisti autorevoli favorevoli all’Italicum. Anche perché l’unico di cui abbia sentore è Augusto Barbera, e i suoi argomenti sono molto simili a quelli che verranno discussi più sotto, almeno a quanto risulta da un suo articolo del 20 aprile 2015 su Il Mulino; e si tratta di un articolo con cui per me è molto difficile polemizzare, data la sua inconsistenza sul piano logico (per esempio, l’argomento che l’Italicum limita i contrappesi istituzionali è respinto con l’osservazione che nel Regno Unito ce ne sono ancora di meno). Prenderò invece in considerazione gli argomenti addotti dagli studiosi seri di Scienza della Politica, e più precisamente da Roberto D’Alimonte dell’Università LUISS (Roma). Lui (e i suoi allievi) sono probabilmente gli unici che troviamo all’intersezione dell’insieme “politologi seri” con l’insieme “favorevoli all’Italicum“. Come è noto, d’Alimonte è uno degli artefici del disegno di legge (su cui peraltro, come vedremo, ha alcune riserve). Le sue opinioni sono riprese da un’intervista – video al Sole-24 ore del 6 maggio 2015; testualmente quando sono comprese fra virgolette. Vediamo uno per uno i suoi argomenti.
4. Argomenti a vantaggio dell’Italicum, 2: il presunto vincitore unico
“L’Italicum consente di determinare un vincitore certo, che non sarà una coalizione di liste raffazzonate, ma un partito (o tutt’al più un rassemblement)”. Due obiezioni.
1. Per definire un partito vi sarà il solo obbligo, puramente formale, di presentare uno statuto. E’ allora logico presumere che i partiti riprodurranno le vecchie coalizioni – chiamarle rassemblement non muta la sostanza. Con due differenze, entrambe negative. La prima è che le trattative fra le diverse correnti del partito-contenitore saranno spostate all’interno di esso, ancora più lontano di quanto non siano oggi dallo sguardo dell’opinione pubblica. La seconda, e più seria, è che ciò espone il Parlamento a un regime di ricattabilità imprevedibile e dagli effetti non valutabili. Supponiamo che il PD ritenga di potere arrivare al ballottaggio solo con i voti della sinistra; questo darà alla sinistra un potere di ricatto enorme (ci si può riferire al testo classico di M. Olson, La logica dell’azione collettiva, per una discussione teorica di questo punto). E non basta che il partito ritenga di essere in grado di fare a meno di apporti esterni: sarà esposto anche al ricatto di un partito di centro che può far vincere un rassemblement diverso se non ottiene abbastanza. E comunque anche le correnti interne avranno un enorme potere di ricatto, dato che piccole defezioni possono causare danni immensi. Gli equilibri interni si definiranno non sulla base della composizione democratica di interessi diversi, ma sulla base della redistribuzione del potere di ricatto. E dal momento che tutto ciò avverrà del tutto all’oscuro dell’opinione pubblica, è ovvio che si apre un’autostrada per la corruzione. E’ vero che come dimostra l’ultimo (al momento di scrivere questo articolo) scandalo, quello Guidi-Boschi-Total, abbiamo già fatto molti passi su questa strada; ma non c’è limite al peggio.
Questo meccanismo infernale di ricatti è ostacolato efficacemente dal sistema proporzionale. Il motivo è il seguente. In un sistema proporzionale il ruolo delle correnti è ridotto rispetto a quello dei partiti. I soggetti (eventualmente) ricattatori sono quindi i partiti piccoli. Ma proprio perché questi partiti godono di un eccesso di potere tenderanno a proliferare fino al punto in cui la rendita di potere non sarà interamente dissipata. Chi vuole approfondire questo discorso, sia sul piano teorico che su quello empirico, può leggere Competition among parties and power, di Migheli, Ortona e Ponzano (Annals of Operation Research, 2015; scaricabile dal sito http://polis.unipmn.it/pubbl/RePEc/uca/ucapdv/ortona197.pdf come working paper. Mi scuso per l’autocitazione). C’è comunque un dato incontrovertibile a suffragio di quanto sopra: in tutta il periodo in cui l’Italia ha adottato un sistema proporzionale non è mai successo che un partito piccolo (definito come un partito con meno del 10% dei voti) potesse togliere alla coalizione di governo i voti necessari a raggiungere la maggioranza.
2. Non è affatto detto che in una situazione di difficoltà economiche e sociali , in cui le contrapposizioni fra interessi diversi si fanno sempre più acute, sia opportuno avere UN vincitore certo. Questo vincitore rappresenterà facilmente non più del 20-25% degli elettori; è ben difficile che in queste condizioni, e tenendo conto di quanto al punto precedente, possa essere in grado di comporre adeguatamente i diversi interessi. A parere di chi scrive sarebbe invece opportuno un governo che corrisponda a un’alleanza sociale più vasta. Chi opta per la prima ipotesi fa una scommessa molto azzardata, cioè che sia meglio rinunciare a una buona parte del dialogo politico in cambio della rapidità delle decisioni (che come vedremo è altro dalla governabilità). Su questo tornerò alla fine.
5. Argomenti a favore dell’Italicum, 3: i vantaggi del maggioritario
D’Alimonte prferirebbe un sistema a doppio turno alla francese; ma accetta l’Italicum come second best in quanto comunque introduce i vantaggi tipici del maggioritario. Ora, la polemica sui vantaggi relativi del sistema maggioritario e di quello proporzionale (in entrambi i casi sarebbe meglio parlare di sistemi, ma non complichiamo il discorso) è stata da tempo chiusa nella dottrina a favore del proporzionale; anche per questo non la riprendo qui, cosa che richiederebbe troppo spazio. Mi limito a ricordare che i presunti vantaggi del sistema maggioritario in termini di governabilità non esistono (basta citare un solo autore: Lijphart); che un sondaggio condotto qualche anno fa dal Journal of Elections, Public Opinion and Parties a livello internazionale fra i politologi, perlopiù anglosassoni, indica che il sistema preferito da tre quarti dei rispondenti è un sistema proporzionale; e che tutti le cosiddette “nuove democrazie” europee nate dopo il 1989 hanno adottato, spesso sulla base di autorevoli consulenze, un sistema proporzionale (l’unico paese dell’ex blocco Sovietico a scegliere un sistema maggioritario è stato il meno democratico di tutti, la Bielorussia).
D’Alimonte però commette un ulteriore errore quando ritiene che l’Italicum sia una proxy del maggioritario francese a doppio turno. Infatti l’Italicum rende possibile, e anzi probabile, un risultato che contrasta palesemente con qualsiasi definizione sensata di democrazia: e cioè che la maggioranza assoluta dei seggi venga data a un determinato partito, anche quando la maggioranza assoluta dei votanti preferirebbe darla a un altro partito. Mi spiego con un esempio. Supponiamo che ci siano tre partiti, S (sinistra), C (centro) e D (destra), più o meno con la stessa forza. Al primo turno ciascuno voterà il partito preferito; supponiamo che l’esito sia S 34%, C 32% e D 34%. (Che i partiti più estremi abbiano più voti di quelli più centristi è quanto ci si può aspettare in una situazione di crisi). S e D andranno al ballottaggio, e uno dei due avrà il 54% dei seggi. Mettiamo che sia D. Ora. è chiaro che una maggioranza assoluta dei votanti (tutti gli elettori di C e quasi tutti quelli di S) avrebbero preferito C a D. Il sistema elettorale francese manda al ballottaggio non i primi due, ma tutti i partiti che hanno almeno il 12.5% dei voti, e quindi di fatto esclude, sia pure a livello di collegio, questa eventualità. Tecnicamente, l’Italicum non solo non propizia, ma tende a contrastare la scelta del vincitore di Condorcet: che è quella opzione preferita a maggioranza a ciascuna delle altre, e che come tale dovrebbe essere la scelta giusta.
Se il maggioritario non offre una maggiore governabilità (al massimo una maggiore rapidità nelle decisioni, ma non è detto), è però naturalmente possibile adottare dei sistemi che la riducono ulteriormente: è questo il caso dell’Italicum, che lo fa in un modo particolarmente pericoloso. Abbiamo visto che questo sistema dà un enorme potere a un piccolo gruppo di vincitori, in cui ogni lobby dotata di un minimo potere contrattuale sgomiterà per entrare, e i cui interessi il partito di governo sarà lieto di soddisfare, dato appunto il loro potere e il pericolo costituito da una loro opposizione. Del resto è quanto sta già succedendo nei confronti del PD, dato per vincitore, auspicabilmente con troppo anticipo: come testimonia il vasto movimento migratorio verso di esso. Ma cosa capiterà nelle elezioni successive alla prima? Ovviamente il PD (ammesso che abbia vinto alla prima) punterà sul “salto nel buio” che sarebbe prodotto dalla vittoria di un partito che “non sa come si amministra”, visto che è stato totalmente escluso da ogni minima partecipazione di governo. E avrà ragione: la scelta sarà facilmente fra un partito al servizio delle potenti lobbies che lo appoggeranno, e quindi dotato di ben scarsa governabilità a vantaggio dei cittadini, oppure un partito del tutto privo di esperienza. Quanto sopra vale nell’ipotesi, che mi pare difficile confutare, che qui e ora, gli interessi delle lobbies contrastino con quelli del popolo. E’ del resto è quello che è successo in Grecia, dove un sistema simile all’Italicum pensato per propiziare il primo esito ha prodotto invece il secondo, con effetti pesanti sulla governabilità.
6. Argomenti a favore dell’Italicum, 4: i contrappesi
D’Alimonte ritiene che i pericoli di un eccessivo potere dell’esecutivo sono efficacemente contrastati dai contrappesi esistenti (che lui ritiene anzi eccessivi); e cioè l’Europa e le norme che richiedono il 60% dei voti (e quindi il contributo delle minoranze) per l’elezione degli organi di garanzia, vale a dire i giudici costituzionali e il Presidente della Repubblica. Che l’Europa possa fungere da garanzia della democrazia è probabilmente solo una boutade che non vale la pena prendere in considerazione. Ma anche il discorso sugli organi di garanzia è insostenibile. L’esperienza ci insegna che l’acquisto dei voti necessari a passare dal 54% al 60% è agevole: se ai 340 avuti a seguito dell’Italicum si aggiungono quelli avuti dall’estero, basterà comprarne una trentina. Quindi un partito che abbia il 20-25% di consenso fra i cittadini potrebbe nominare gli organi di garanzia (oltre a potere cambiare ulteriormente la Costituzione, ma questo è un altro discorso). La logica della nostra Costituzione, e di qualsiasi Costituzione sensata, è che le norme costituzionali possono essere cambiate solo con il consenso di una larga maggioranza di cittadini: cosa che corrisponde a una larga maggioranza di voti in Parlamento solo se il sistema è proporzionale. A parziale scusante di D’Alimonte va detto che l’intervista precede gli ultimi scandali e le ultime polemiche sulla riforma costituzionale; è possibile che su questo punto si sia ricreduto, ma non ho trovato indicazioni in questo senso.
7. Conclusioni
Come scrivevo all’inizio, è del tutto comprensibile che i cittadini siano fortemente irritati con il loro sistema democratico, quando le cose vanno male; e che lo siano particolarmente quando quel sistema è inaffidabile, corrotto e crudele coi deboli, come è oggi il caso dell’Italia. In queste condizioni si deve scegliere fra due scommesse: ridurre gli spazi democratici a favore di un potere forte, che possa decidere senza farsi bloccare dalla palude dei partiti, o difendere la democrazia così come è, come condizione per poterla cambiare in meglio. La prima soluzione gode logicamente di un vasto favore popolare; la seconda mette in imbarazzo i suoi sostenitori, perché li obbliga a difendere un sistema che non va bene. Ma rimane il fatto indubitabile che la prima soluzione, storicamente, ha quasi sempre fallito (l’unico caso di successo in una nazione paragonabile all’ Italia è stato quello di De Gaulle), e in modo tragico. Il fallimento, naturalmente, è tanto più probabile quanto meno il potere forte sarà interessato al benessere del suo popolo e quanto più lo sarà a quello di lobbies e gruppi di potere i cui interessi sono in contrasto con quelli del popolo. D’Alimonte, e chi sostiene l’Italicum, sceglie la prima scommessa: ritiene che dare i pieni poteri a Renzi sia una buona soluzione. Non dubito che abbia effettuato questa scelta in assoluta buona fede, ma ciò implica che ritiene che Renzi abbia la volontà, la capacità e la forza di andare contro i poteri forti per propiziare la rinascita del paese; oppure che gli interessi dei potenti gruppi che lo appoggiano, dal Monte dei Paschi di Siena alla Banca Etruria e alla Total, coincidano con quelli del popolo italiano. Io penso che entrambe le ipotesi siano campate in aria; temo che presto sapremo chi avrà avuto ragione.