Concorrenza fra partiti e sistema elettorale[1]
Guido Ortona, Università del Piemonte Orientale, guido.ortona@uniupo.it
Febbraio 2017
1. Premessa. Molto schematicamente, una democrazia parlamentare funziona così. Fra i cittadini esistono diversi gruppi di interessi ed opinioni; questi vengono rappresentati in un Parlamento, incaricato di stabilire le leggi. I parlamentari vengono eletti e per stabilire una legge contrattano in base agli interessi e alle opinioni loro e di coloro che rappresentano fino a che non si forma una maggioranza su un testo finale. Questo è il loro lavoro, e possono farlo più o meno bene. Cosa è che li spinge a farlo bene? Varie cose, come il senso di responsabilità, lo spirito civico, e il patriottismo: ma ciò che soprattutto conta è il timore di essere penalizzati alle elezioni successive, non venendo rieletti. A seconda del sistema elettorale adottato la rappresentanza può essere più o meno perfetta, raggiungere il compromesso può essere più o meno difficile, e così via; ma lo schema generale è questo.
Quanto sopra credo che sarà giudicato assolutamente ovvio da qualsiasi lettore. Ma altrettanto ovvia dovrebbe allora essere una conseguenza fondamentale, che invece viene sovente ignorata.
Si tratta di questo. Dire che un parlamentare è indotto a fare bene il suo mestiere dal timore di non essere rieletto (o, che è lo stesso, dalla speranza di esserlo) equivale a dire che ciò che lo induce a lavorare bene è la concorrenza con gli altri politici[2]. Un buon sistema elettorale deve allora propiziare la concorrenza fra i parlamentari, ovvero, a contrario, un cattivo sistema elettorale limita oltre misura la concorrenza fra i medesimi. E’ questo un argomento fondamentale -e, ripeto, sovente indebitamente trascurato- a favore di un sistema altamente proporzionale, come ora vedremo.
2. Concorrenza fra forze politiche[3]. Esiste un livello ottimale di concorrenza fra le forze politiche, e questo livello non è il massimo di concorrenza. Un’eventuale clausola che stabilisse che un candidato non eletto viene fucilato la sera stessa del giorno delle elezioni non indurrebbe i politici a dare il meglio di sé: li indurrebbe a non candidarsi, e si resterebbe senza Parlamento. Tuttavia sembra lecito pensare che oggi in Italia la concorrenza sia molto più bassa del livello ottimale; e quindi che essa vada stimolata. Come si presenta un sistema politico fortemente concorrenziale? Esso dovrebbe avere, mi pare, le seguenti caratteristiche:
a) in primo luogo, deve far sì che l’elettore possa scegliere fra diversi partiti, anche all’interno dello stesso grande orientamento. Se ci sono un solo partito di sinistra e un solo partito di destra entrambi saranno in realtà esposti molto poco alla concorrenza.
b) in secondo luogo, occorre che nessun voto vada sprecato. Se ci sono soglie di sbarramento elevate il voto per un piccolo partito rischia di andare sprecato; per conseguenza molti elettori potenziali di quel partito preferiranno votare un partito meno appetibile ma più sicuro, e il partito piccolo -un potenziale concorrente di partiti esistenti- potrà addirittura non nascere.
c) infine, occorre che la concorrenza fra partiti vada tutelata (così come più o meno bene viene tutelata la concorrenza fra imprese sui mercati): quindi che i partiti piccoli abbiano adeguati strumenti per farsi conoscere.
3. Maggioritario, proporzionale e concorrenza. Che un sistema maggioritario sia nettamente inferiore a uno proporzionale su tutti e tre questi punti dovrebbe essere evidente. Il ricatto del voto utile induce gli elettori a votare non il partito preferito -ammesso che si sia- del proprio schieramento, ma quello che ha maggiori probabilità di successo (punto a). Questo ricatto sarà tanto più forte quanto più l’eventuale voto per un partito piccolo rischia di andare perduto (punto b), e ovviamente ancora di più se il partito piccolo sarà sconosciuto o addirittura inesistente (punto c). Non a caso una legge empirica (non sempre valida) dovuta a Duverger afferma che un sistema maggioritario tende a diventare bipartitico. L’eventuale introduzione di un doppio turno (il cosiddetto Sistema francese) attenua questi limiti ma non di molto, dato che rimane il ricatto del voto utile; come del resto indica l’abisso che si sta aprendo sempre di più in Francia fra volontà degli elettori e rappresentanza politica.
Nuovamente, quanto sopra dovrebbe essere ovvio; e a riprova di ciò la dottrina politologica giudica molto severamente i sistemi maggioritari, e la grande maggioranza dei paesi democratici adotta un sistema proporzionale[4] [5]. Forse meno ovvio è che anche le correzioni da molti invocate per correggere le (presunte) inefficienze del sistema proporzionale in termini di governabilità possono avere effetti deleteri in termini di concorrenza.
La correzione più usata è la soglia di sbarramento. Se essa è troppo alta potrà impedire la nascita di partiti che potenzialmente potrebbero avere un seguito sufficientemente vasto da esercitare una salutare concorrenza sugli altri (e indurre i portatori degli interessi del potenziale partito a diventare invece una corrente di un partito esistente, con effetti negativi sulla governabilità; ma questo è un altro discorso). Non esistono dati sufficienti a consentire un’analisi comparativa sul livello sensato di soglia, che potrebbe benissimo essere zero. Nei Paesi Bassi non esiste una soglia legale e quella effettiva è prossima a zero[6], e non ci sono particolari disfunzioni. Il mio suggerimento è che in Italia la soglia non dovrebbe essere superiore al 2%, pari a un milione di elettori circa.
La seconda correzione, adottata in realtà solo in Italia e in Grecia (e nel non confrontabile San Marino) è il premio di maggioranza. Questo sistema è esposto allo stesso difetto che abbiamo visto parlando dei sistemi maggioritari, e cioè il ricatto del voto utile. Dal momento che “chi vince prende tutto” (o meglio, prendeva tutto, con l’Italicum) o ha “un’elevata probabilità di prendere tutto” (come in Grecia e oggi in Italia, auspicabilmente solo fino all’approvazione di una nuova legge) l’elettore sarà indotto a votare non il partito preferito -che rischia quindi di estinguersi o di non nascere- ma il meno peggio fra i partiti che hanno una possibilità di vincere.
Quanto sopra è stato espresso molto bene da un importante economista e politologo americano, R. B. Myerson, premio Nobel nel 2007[7]: «L’abilità delle organizzazioni politiche nello sfruttare il loro ruolo istituzionale per ottenere profitti dovrebbe essere un punto fondamentale nella politica economica, così come un problema analogo riguardo alle imprese oligopolistiche lo è nella organizzazione della produzione. (…) Se i leaders eletti usano il loro potere politico per il loro profitto abbiamo corruzione o abuso di potere, e nel caso estremo tirannia. Una delle motivazioni principali per la democrazia è la speranza che la concorrenza elettorale riduca questo abuso politico del potere (…) così come la concorrenza di mercato riduce i profitti oligopolistici. Ma se ciò che vogliamo dalla democrazia è questa deterrenza contro la corruzione, allora questo deve essere un criterio nel confronto fra diversi assetti istituzionali. (…) I vari sistemi elettorali hanno effetti diversi su questa caratteristica. I politici consolidati, come classe, favoriranno dei sistemi che pongono barriere all’entrata di nuovi partiti».
L’ultima osservazione (enfatizzata da me) è la più importante per il nostro discorso. Le imprese oligopolistiche (o monopolistiche) cercano solitamente, e comprensibilmente, di ostacolare la concorrenza, e le imprese concorrenziali cercano, se possibile, di organizzarsi in oligopoli. Analogamente possiamo aspettarci che i politici operanti in un sistema protetto contro la concorrenza cerchino di mantenere, e se possibile rafforzare, questa protezione; e che dei politici operanti in regime di concorrenza cerchino di instaurare un regime oligopolistico. Questo dovrebbe essere di nuovo ovvio; e di nuovo ha un’importante conseguenza che ovvia non è.
Infatti, è evidente che nessun politico potrà dire che vuole -per esempio- una soglia elevata o un premio di maggioranza perché vuole limitare la concorrenza: affermerà che la vuole perché ciò è utile per la democrazia, tipicamente perché ciò aumenta la governabilità. Ma allora abbiamo quanto segue: quando un politico invoca una riduzione della rappresentatività non sappiamo -in assenza di altre informazioni- se lo fa perché vuole davvero una maggiore governabilità o perché vuole cautelarsi contro la concorrenza.
4. Governabilità o rendita di potere? Dove possiamo trovare le altre informazioni necessarie a capire le vere motivazioni di chi invoca una riduzione della rappresentatività in nome della governabilità? Un indizio ci viene fornito dal confronto fra diversi paesi. In Europa l’Italia non è certo il solo paese che soffre di seri problemi di malfunzionamento del sistema politico. Ci sono anche la Francia, il Regno Unito, la Spagna e la Grecia. Sono paesi assai diversi fra loro, sia pure all’interno di una compagine abbastanza omogenea (quella dei paesi sviluppati e compiutamente democratici europei). E’ lecito quindi sospettare che ci sia qualche fattore comune che spieghi come crisi simili possano verificarsi in paesi diversi. Ora, un fattore comune è proprio il sistema elettorale. Francia e Regno Unito (oltre alla Lituania, che adotta un sistema misto) sono gli unici paesi democratici europei non minuscoli che eleggono il loro parlamento mediante un sistema maggioritario. Italia, Spagna e Grecia sono i tre paesi che hanno il sistema proporzionale meno proporzionale: in Italia e in Grecia la proporzionalità è distorta dal premio di maggioranza e in Spagna dalle dimensioni troppo diverse dei collegi. Tutti gli altri paesi democratici europei adottano un sistema proporzionale normale, o puro o con una soglia non superiore al 5%; compresa (contrariamente a quanto alcuni credono) la Germania, in cui la quota di parlamentari da assegnare ai vari partiti è determinata dal voto proporzionale e il voto nei collegi uninominali svolge il ruolo di voto di preferenza[8]. Nessuno di essi soffre di difficoltà politiche paragonabili a quelle dei paesi citati. Abbiamo quindi che la presenza di un sistema meno proporzionale corrisponde a maggiori problemi di governabilità.
Nei paesi che a buon diritto vengono considerati normali il sistema elettorale è proporzionale; il che implica naturalmente governi di coalizione, senza che ciò costituisca una difficoltà insormontabile. Questo tuttavia è un punto importante, e su ciò torneremo; ma lo faremo alla fine (nel par. 6), per non interrompere il filo logico del discorso
Un secondo indizio ci viene fornito dalla specifica vicenda italiana. L’abbandono del sistema proporzionale, nel 1993, è stato giustificato, come previsto in base a quanto sopra, dalla necessità di garantire la governabilità, e in particolare di evitare il potere di ricatto dei piccoli partiti; e tuttora la possibilità di questo ricatto viene sbandierata per esorcizzare il ritorno al proporzionale. Tuttavia, fra il 1946 e il 1993, con un sistema proporzionale puro, in Italia si sono avuti 49 governi non di minoranza, e la possibilità di ricatto da parte di un piccolo partito si è avuta in 6 di essi; mentre dopo il 1993, con vari sistemi non proporzionali, si sono avuti 14 governi e la possibilità di ricatto è stata presente di nuovo in 6 casi (non considerando i cambiamenti di partito successivi alle elezioni)[9].
Un terzo indizio è fornito da altri paesi. Il cambiamento in senso meno proporzionale instaurato in Ungheria con la riforma del 2012 ha facilitato la deriva antidemocratica in atto in quel paese, e la soglia del 10% adottata in Turchia col ritorno alle elezioni nel 1982 ha sicuramente contribuito non poco a ostacolare l’instaurarsi di una vera democrazia, cosa di cui vediamo le conseguenze in questi mesi.
Si tratta appunto solo di indizi, certamente insufficienti a fornire un risultato significativo. Ma non esistono indizi che suffraghino l’ipotesi contraria, che cioè la riduzione della proporzionalità abbia incrementato la governabilità. In effetti ci sono motivi teorici e dati empirici molto validi che indicano che questo mancato incremento è ciò che ci si può attendere[10], ma non è questo il tema di questo scritto. Ciò che qui interessa è questo: abbiamo visto che un politico al potere affermerà che vuole ridurre la proporzionalità del sistema politico sia se ciò che vuole è rilanciare la governabilità sia se ciò che vuole è invece mantenere o ottenere rendite di potere riducendo la concorrenzialità del sistema elettorale. La mancanza di indizi che suffraghino che la riduzione di proporzionalità aumenti la governabilità, e la diffusa presenza di indizi di segno opposto, indicano che la seconda motivazione è probabilmente quella prevalente[11].
5. Un’obiezione non valida. Si potrebbe obiettare che in realtà un sistema maggioritario può essere più concorrenziale di un sistema proporzionale: la concorrenza in ogni collegio di un numero limitato di candidati credibili (di solito due) individuabili dagli elettori come persone fisiche riduce bensì il numero di contendenti ma aumenta la loro qualità. Non è così.
La scelta fra un sistema maggioritario e uno proporzionale non è solo tecnica: corrisponde a due concezioni radicalmente diverse della democrazia rappresentativa. Nel primo caso si assume che esistano gruppi di cittadini con interessi fondamentalmente comuni, che devono scegliere ciascuno un suo rappresentante. Nel secondo si assume che la società sia divisa fra gruppi con interessi diversi, e che occorra nominare un’assemblea di dimensioni gestibili che rappresenti in scala questi interessi. Quale sistema sia migliore dipende allora da quale è lo stato del mondo. Di solito, almeno in questo secolo (e in quello precedente) e in Europa, è il secondo. L’adozione di un sistema maggioritario fa sì allora che il rappresentante di un collegio rappresenti in realtà solo una parte degli elettori, mentre gli altri non saranno rappresentati affatto. In queste condizioni la concorrenza impone al candidato di uno schieramento non di essere il migliore possibile, ma di essere abbastanza credibile da evitare un passaggio significativo di elettori all’altro schieramento o all’astensione.
Anche su questo punto i dati disponibili vanno presi con cautela, ma sono comunque indicativi, in effetti più significativi di quelli citati sopra. Un attendibile indicatore della concorrenza è la partecipazione elettorale: è lecito supporre che la partecipazione sarà tanto più bassa quanto meno appetibile sarà la scelta offerta. La partecipazione alle ultime elezioni è stata del 75% in Italia e in Olanda e del 72% in Germania, paesi proporzionali, contro il 65% del Regno Unito e il 57% della Francia, paesi maggioritari. Ancora più interessanti sono i dati sul turnover dei politici. Nel paese europeo proporzionale per eccellenza, l’Olanda, nel 2010 i parlamentari eletti per la prima volta sono stati il 42% (e nel 2012, nonostante che si trattasse di elezioni anticipate, il 35.3%; mentre nel paese maggioritario per eccellenza, il Regno Unito, i parlamentari eletti per la prima volta sono stati il 29.5% nel 2010 e il 28.5% nel 2015.
6. Un’obiezione ancora meno valida. Rimane un’ultima obiezione possibile, a mio avviso molto tenue, e cioè che nonostante tutti i pericoli derivanti dalla mancanza di concorrenza la situazione che si verrebbe a creare con un sistema proporzionale potrebbe essere talmente ingovernabile da rendere comunque necessario un sistema più maggioritario. Questo argomento è quello sostenuto, a volte -credo- in buona fede, da parte di chi enfatizza l’impossibilità di formare una maggioranza se si votasse oggi in Italia con un sistema proporzionale.
Questo ragionamento credo che sia sbagliato, per tre motivi. Il primo è il seguente. Una situazione di stallo, con più partiti grandi con posizioni diverse, si ha evidentemente quando un paese è fortemente diviso al suo interno. In queste condizioni un sistema di tie-breaking che dia tutto il potere a uno di quei partiti non solo darebbe il potere a un partito con poco seguito nel paese: renderebbe in realtà assai difficile a quel partito potere governare, dato che tutto il malcontento, presumibilmente elevato data la situazione complessiva e lo scarso seguito di quel partito, ricadrebbe su di lui. Una grosse koalition, viceversa, consentirebbe una ripartizione più equa del malcontento e quindi consentirebbe una maggiore governabilità.
Il secondo motivo è che i dati confermano quanto sopra, anche se nuovamente le osservazioni possibili sono troppo poche per potere effettuare confronti statisticamente significativi: oggi in Europa i paesi meglio governati e più capaci di assumere decisioni all’altezza dei problemi sono quelli in cui operano governi di coalizione, nominati da un Parlamento eletto con un sistema proporzionale; mentre i governi nominati da un Parlamento maggioritario o poco proporzionale (come Francia, Regno Unito e Italia) sono visibilmente vittime di un diffuso malcontento della popolazione e dell’incapacità di proporre politiche adeguate.
Infine. In una situazione di conflitti sociali acuti la democrazia richiede per essere tale che i politici sappiano trovare un compromesso. Un politico che dica «un compromesso è impossibile, quindi cambiamo le regole» è un politico che non sa fare il suo mestiere, e che ha una concezione inadeguata della democrazia: occorrono regole che escludano politici siffatti dalla gestione del potere, non che consentano loro di gestirlo lo stesso.
7. Conclusioni e riassunto. Un buon funzionamento della democrazia implica che la concorrenza fra i partiti politici venga adeguatamente promossa (se insufficiente) e tutelata. Condizione necessaria per ciò è che il sistema sia proporzionale. Un’eventuale soglia di sbarramento deve essere molto bassa, e un premio di maggioranza è quasi sicuramente dannoso.
[1] Il presente articolo è stato anche pubblicato su Micromega on-line.
[2] La letteratura empirica che suffraga l’ipotesi che la qualità di un parlamentare sia tanto più alta quanto maggiore è la concorrenza è vasta e conclusiva. Il lettore interessato può leggere V. Galasso e T. Nannicini, Competing on Good Politicians, American Political Science Review, febbraio 2011 e M. De Paola e V. Scoppa, Political Competition and Politician Quality: Evidence from Italian Municipalities, Public Chocie, 2011, per quanto riguarda l’Italia; N. Gavoille e M. Verschelde, Electoral competition and political selection: An analysis of the productivity of French deputies, 1958-2012, Economics Working Paper from Condorcet Center for political Economy at CREM-CNRS, 2016, per la Francia; e A. Bernecker, Do Politicians Shirk when Reelection Is Certain? Evidence from the German Parliament, European Journal of Political Economy, 2013 per la Germania.
[3] In realtà sarebbe più adeguato, in tutto questo testo, parlare di contendibilità anziché di concorrenza. Un mercato è tanto più concorrenziale quanto più numerose sono le imprese che vi operano; ed è tanto più contendibile quanto più è facile per un’impresa nuova entrare su quel mercato. Tuttavia il termine contendibile (e derivati) sono poco usati al di fuori del contesto economico, e le differenze fra i due concetti sono abbastanza piccole da rendere preferibile qui ragionare in termini di concorrenza.
[4] S. Bowler, D. M. Farrell e R. T. Petitt, Expert Opinion on Electoral Systems: so which electoral system is “best”?, Journal of Elections Public Opinion and Parties, 15, 1-3, 2005; S. Bowler e D. M. Farrell, We Know Which One We Prefer but We Don’t Really Know Why: The Curious Case of Mixed Member Electoral Systems, Brit. Journal of Pol. and Int. Relations, 8, 2006.5.
[5] Escludendo gli stati minuscoli (Andorra, staterelli soggetti alla Corona Britannica e San Marino), e includendo la Turchia, in Europa vi sono 39 stati democratici. Di questi 30 adottano un sistema proporzionale.
[6] Vi è un solo collegio nazionale che elegge 150 deputati.
[7] R. B. Myerson, Theoretical Comparison of Electoral Systems, European Economic Review, 1999, p.684. Traduzione mia.
[8] Una non rilevante eccezione è il Liechtenstein, che adotta come soglia l’8%. Un’altra è la Turchia, di cui diremo nella nota successiva.
[9] Per possibilità di ricatto intendo la situazione in cui un partito piccolo è necessario per formare la maggioranza di governo (e quindi la distrugge se passa all’opposizione); e per partito piccolo intendo un partito che abbia meno dell’8% dei voti. Si tratta ovviamente di una soglia indebitamente alta, che scelgo sia per “tenermi sul lato sicuro” che perché è la soglia più alta adottata in un paese democratico europeo, come abbiamo visto. In Turchia la soglia è del 10%, ma è stata esplicitamente adottata per escludere un partito ritenuto grande, il PKK.
[10] Si veda A. McGann, J. Ensch e T. Moran, The surprisingly majoritarian nature of proportional democracy, studio presentato alla conferenza annuale della APSA, Toronto, 2009; M. Migheli, G. Ortona e F. Ponzano, Competition among parties and power: an empirical analysis, Annals of Operations Research 2013.
[11] Il fatto che molti politici siano convinti in buona fede di stare propiziando la governabilità quando invece cercano di garantirsi una rendita di potere è irrilevante. Credere che ciò che convenga a sé stessi sia utile per tutti è una caratteristica diffusa così universalmente da rendere molto improbabile che i politici ne siano immuni. Come ha scritto genialmente Upton Sinclair, «è molto difficile far capire qualcosa a qualcuno il cui stipendio dipende dal non capirla».