di Federico Repetto
La comunicazione di Renzi
Mentre Berlusconi e Grillo sono divenuti dei politici-star in tempi relativamente lunghi, Renzi ci è riuscito in tempi straordinariamente brevi.
Per poterlo fare, egli ben presto ha creato un proprio brand politico personale, usando tutti gli strumenti più aggiornati del marketing. Ingredienti simbolici di questo brand sono il primato del merito e del talento, l’autenticità, la gioventù, l’innovazione, il cambiamento, le nuove tecnologie, ecc. Lo stesso cognome di Renzi è trasformato in un logo: una r frecciata, indicante appunto la svolta e il cambiamento, che appare nel suo sito personale (cfr Barile Brand Renzi, 2014, p. 26 sgg. e 82 sgg).
Renzi, a partire almeno dalla sua partecipazione alle “Invasioni Barbariche” nel 2008, accumula capitale comunicativo anche grazie alla conoscenza di esperti di immagine e di spettacolo (p.es. Giorgio Gori, già a capo di Canale 5 e il regista Fausto Brizzi). Ma anche grazie alla sua capacità di associare la propria immagine a star come Benigni e Jovanotti.
Anche a causa della sua capacità di fare audience, sia con i contenuti antipolitici che con le sue battute pop, ha subito una buona accoglienza in tv, oltre che da parte della Bignardi, anche da parte di Vespa, Fazio, Maria De Filippi e Barbara d’Urso.
Renzi ha trovato buona accoglienza anche sui media del “nemico”. Oltre alla sua partecipazione nel 2012 ad “Amici”, ancora nel 2016, nella campagna per il referendum costituzionale, i tg di Berlusconi gli dedicano uno spazio che non avevano mai dedicato a nessun capo di governo del centro-sinistra.
Potremmo definirlo un comunicatore ibrido, che mescola tv e social media, discorsi di piazza e libri, messaggi monodirezionali dall’alto e ammiccamenti a una democrazia più partecipata.
Già nel 1999, con Lapo Pistelli, scrisse un libro di divulgazione politica e per un certo periodo ha continuato a sfornare libri autobiografico-politici, in cui si alternano esposizione del suo lavoro, proposte, divulgazione e divagazioni più o meno spiritose. Amante della cultura, fa però dell’ironia sulle regole letterarie, sui “professoroni”, sulle sovrintendenze ai Beni Culturali, esaltando l’iniziativa creativa del genio. Claudio Giunta, studioso di letteratura e attento osservatore del costume, analizzando il suo Il genio fiorentino, insiste sull’infantilismo, sulla superficialità e sull’anti-intellettualismo sostanziale di questo libro (cfr. Giunta, Una sterminata domenica, 2013, p.145 sgg).
Nel complesso il lettore e l’elettore-target di Renzi è, o almeno era all’inizio, non solo più giovane, ma anche più acculturato di quello di Berlusconi.
Ma la Leopolda è la sua idea centrale di comunicazione politica. David Sassoli, del Pd, paragona la Leopolda a un congresso di partito di tipo nuovo, non deprimente come quelli dei partiti socialisti cui partecipa all’estero, coi loro stanchi rituali (www.youtube.com/ watch?v=ChkmVafxUgg). Certo, non è deprimente, ma è solo un evento mediatico, in cui non si delibera niente. Il meeting usa modalità della politica-spettacolo che però non irritino i benpensanti e non paiano ridicole alle persone colte (rilevante base elettorale Pd), pur riuscendo a rivolgersi (attraverso la mediazione della tv) al grande pubblico.
Nelle diverse edizioni della Leopolda la cultura e la scuola hanno un peso significativo. Negli interventi sono sempre presenti sullo sfondo anche le idee di partecipazione e di comunità: gli imprenditori di talento, gli esperti e i ricercatori, i cittadini attivi, i volontari disinteressati vi appaiono come voci di una comunità impegnata nel rilancio del paese. La bellezza delle relazioni tra persone è un leit motiv degli interventi di Renzi. Voglia di cambiamento, ottimismo, coraggio, iniziativa, innovazione, Internet sono i tormentoni.
Gli imprenditori, i manager, i consiglieri delegati ecc., sempre numerosi, nel 2014 rappresentano addirittura la grande maggioranza degli interventi. Buona parte di loro ha anche dichiarato con orgoglio di appartenere a una famiglia di imprenditori. Un’altra categoria consistente è quella degli studenti e dei giovani neolaureati, testimoni della condizione delle ultime generazioni e delle loro difficoltà ad avere un riconoscimento e a farsi strada. La Leopolda è anche un palcoscenico su cui alcuni outsider mediaticamente noti, che hanno condotto polemiche in qualche modo controcorrente rispetto al mainstream di centrosinistra, possono salire ad esprimere il loro sdegno (Zingales, don Antonio Mazzi o la Iena Diliberto).
La bicicletta è una presenza ricorrente sul palco: simbolo di una generazione leggera ed ecologica, serve anche a ricordare l’uso democratico che ne ha fatto il sindaco Renzi per le vie di Firenze. Anche la Vespa, simbolo del genio italico e del primo boom economico, è apparsa alla Leopolda (nel 2010). Il vecchio televisore invece appare come rottame.
La Leopolda è anche rivolta al grande pubblico. Già la prima edizione del 2010 fruisce di una lusinghiera presentazione a Porta a Porta, e gode sempre di un’ampia copertura mediatica. L’assenza di simboli di partito, una certa dominanza del colore azzurro, un linguaggio che si vuole chiaro e popolare ma trendy, i gesti enfatici degli oratori e l’immagine giovane, gioviale e decisa del leader rottamatore rendono il messaggio del meeting adatto a tutti i pubblici. In particolare Renzi, di solito su sfondo azzurro e senza i simboli del Pd, appare già come un leader nazionale fuori dal tradizionale gioco dei partiti.
Nonostante questo importante versante televisivo, la comunicazione alle Leopolde e sui social network di Renzi (in particolare su Twitter) ha puntato molto sugli opinion leader e non solo direttamente sugli elettori (Barile, pp. 120-121). Egli ha cercato inoltre di creare un consenso specificamente intorno alla sua persona da parte di un ceto di imprenditori che si vogliono innovatori, creativi e tecnicamente e culturalmente preparati. Quello di Renzi sembra il progetto di una specie di blocco sociale soft, capace di includere, a partire dalla leadership imprenditoriale, strati sempre più ampi di cittadini– e anche il loro passaparola (e il loro finanziamento) lo ha aiutato a vincere le primarie per il Comune di Firenze e quelle per la segreteria del Pd. In questo quadro, a Renzi insieme ai suoi diretti collaboratori (non al Pd come partito) resterebbe la guida politica, garantita dal suo brand e dalla sua attrattiva elettorale. L’Italicum e le riforme costituzionali avrebbero dovuto rafforzarla.
In effetti Renzi, grazie al suo brand e alle lobby che lo sostengono, dopo il suo lancio iniziale, non è dipeso strettamente dal PD per la sua carriera politica, e ci si può anche chiedere se forse non avrebbe potuto provare a creare per esempio un rassemblement centrista, alleandosi con Berlusconi. La conquista della segreteria ha significato per lui anche la conquista del simbolo del PD, da usare eventualmente come brand in avventure politiche anche lontane dalla storia e dalla cultura del partito. Ma le sue notevoli risorse esterne al partito sono state il punto di forza che gli ha permesso di trattare la sinistra parlamentare PD come una forza subalterna, priva di un’adeguata organizzazione elettorale propria.
Con il referendum costituzionale, Renzi ha adottato una strategia di comunicazione d’emergenza, che ha fatto uso, in modo anche isterico, di tutti i possibili mezzi e di tutti i possibili appoggi. Nella lunga campagna referendaria i tg di Berlusconi gli hanno riservato uno spazio che non avevano mai dedicato a nessun capo di governo del centro-sinistra. E questo mentre egli batteva ogni record precedente di presenza nei tg Rai da parte di un presidente del consiglio, superando anche Berlusconi stesso e violando le norme della par condicio in periodo pre-elettorale, come gli è stato contestato dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni.
Renzi: un populismo soft?
Giovanni Orsina pensa che, dopo che le élite dirigenti dall’Unità d’Italia in poi avevano cercato di “fare gli italiani” a forza, considerandoli immaturi, pigri e indisciplinati, e sottoponendoli a una coercizione “ortopedica e pedagogica”, il messaggio vincente di Berlusconi era stato: gli italiani vanno bene come sono, è lo Stato che deve mettersi da parte (Orsina 2014, p.97 sgg.). E anche Renzi ha dichiarato, difendendo la sua partecipazione ad “Amici”: “Io voglio cambiare l’Italia, mentre una parte della sinistra vuol cambiare gli italiani”.
In effetti la sua “svolta buona”, come anche la “Buona Scuola”, non sono presentati come un progetto politico e culturale di ampio respiro, come una nuova alleanza sociale, ecc. Partito da una contrapposizione tra generazioni e non tra interessi sociali o visioni del mondo, Renzi ci propone novità che si situano soprattutto sul versante dell’innovazione tecnologica e organizzativa, tipico della cultura egemone.
Nella prima fase della sua carriera ha preferito dare di sé un’immagine soft, collocandola saldamente dentro il senso comune. Il richiamo alle novità si coniuga prudentemente con quello della sana tradizione, della mezza cultura, della Buona Scuola e della Buona Amministrazione.
Renzi, che si è formato nella cultura della tv commerciale e che talvolta la rievoca con simpatia nei suoi libri, non la rinnega: la vuole solo rinnovare e aggiornare. Anche la rottamazione è una metafora commerciale, propria della cultura pubblicitaria.
Sono gli imprenditori la guida del blocco sociale renziano. Tale blocco dovrebbe includere naturalmente strati molto più ampi: nei discorsi della Leopolda, in particolare nelle sintesi del leader, troviamo spesso l’affermazione che i lavoratori e i disoccupati hanno gli stessi interessi degli imprenditori (senza troppo distinguere tra grandi e piccoli, multinazionali e locali, ecc.), i quali creeranno posti di lavoro appena lo Stato predisporrà le condizioni amministrative necessarie per poterlo fare. Essi sono dunque sempre presentati come il centro vitale della società, come il modello di tutti i cittadini. Renzi, come Berlusconi, si rivolge a tutti quelli che si considerano “imprenditori di se stessi”, alle partite iva effettive e potenziali.
Egli ha come target anche le generazioni aperte a Internet, quei giovani dei ceti medi impiegatizi che hanno diplomi e lauree, che leggono un minimo, che hanno un atteggiamento critico verso la tv generalista, pur essendone in qualche modo i figli. Questo stesso ceto di cittadini acculturati per quanto riguarda le generazioni precedenti era la base del centro-sinistra.
Renzi si è presentato all’inizio come il giovane e simpatico “sindaco d’Italia”, energico e deciso ma non apocalittico. La sua non è una rivoluzione, né liberale, né digitale. È solo una “svolta buona”, o meglio un colpo di acceleratore, sul cammino della modernizzazione e dell’innovazione. Quando però qualcuno ha provato ad ostacolare il conducente nel suo cammino verso il progresso, il tono è cambiato.
La fase dell’“estremismo di centro”
La campagna per il Sì al referendum segna una nuova fase. Renzi, che subito dopo il suo insediamento al governo aveva già occupato le reti Rai per un tempo eccezionale con l’esposizione delle sue slide, nei mesi precedenti alla campagna ha una presenza “di parola” e “di notizia” superiore a quella di Berlusconi presidente del consiglio (secondo i dati dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni). Per dilagare poi durante la campagna, tanto da farsi sfottere da Berlusconi stesso perché poteva essere preso per un conduttore dei tg.
Renzi da bonario-deciso diventa ultimativo e aggressivo. A novembre 2016 l’ultima Leopolda diventa un momento conflittuale. Non si trova una mediazione che permetta la partecipazione degli esponenti dei “truffati di Banca Etruria”, degli insegnanti scontenti, dei comitati anti-inceneritore, dei terremotati, ecc. Le ragioni del No al referendum sono prese in esame alla convention e scartate, ma senza contraddittorio. Non solo, ma il “popolo della Leopolda” grida “fuori, fuori”, chiedendo l’espulsione dal partito della sinistra del Pd. E Renzi la aveva appena attaccata nel suo discorso. Tutto questo mentre per le strade c’erano scontri tra polizia e dimostranti.
Lo spettacolo era sfuggito di mano ai suoi registi, solitamente abili? Oppure Renzi più che in precedenza si rivolge a un pubblico moderato e di destra, sensibile al problema dell’ordine?
Nonostante la sua duttilità, il governo decisionista soft di Renzi ha dei punti di debolezza, che richiedono ora questo indurimento. Per quanto alzi la voce contro l’Europa, di fatto non mostra di avere una chiara strategia contro le regole europee. Quindi non può far tornare al voto categorie di cittadini che hanno perso ogni speranza nella politica e rischia di perdere altri voti in direzione dell’astensione, come è avvenuto alle comunali del 2016. E tra gli astenuti recenti non ci sono più solo gli impolitici tradizionali, ma anche molti cittadini delusi prima politicamente attivi.
Questa debolezza gli deriva dalla sua sostanziale accettazione dello spirito neoliberale dei rigidi vincoli europei e dall’oggettiva limitazione della sovranità nazionale.
Le votazioni per il referendum costituzionale hanno mostrato un ritorno significativo dei cittadini al suffragio rispetto alle ultime elezioni politiche e amministrative. Il ritorno alle urne sembra collegato alla drammatizzazione dell’evento da parte prima di tutto della propaganda renziana, che ha perso il tono soft della prima fase. Si è passati da “è la svolta buona” a “è l’ultima occasione”.
La politica-spettacolo di Renzi è passata da un populismo soft ad una specie di estremismo di centro. Il populismo soft corrispondeva ad una fase in cui egli pensava di poter conquistare abbastanza facilmente il centro dell’elettorato, consolidandosi come leader fattivo e responsabile grazie anche allo spauracchio dei populismi estremistici di Salvini e di Grillo.
I media mainstream lo aiutavano sbattendo i mostri in prima pagina. È difficile distinguere il loro appoggio a Renzi dalla loro convenienza in termini di audience: lo spettacolo granguignolesco comunque fa audience.
Una maggioranza di centro in prospettiva avrebbe potuto sostituire per un lungo periodo l’alternanza, cominciata col governo Prodi, tra centrodestra e centrosinistra. Ma il nuovo centrismo avrebbe avuto bisogno del robusto premio di maggioranza dell’Italicum, combinato con la riforma del Senato. Per questo Renzi è stato costretto a difendersi con ferocia nella campagna referendaria.
Renzi alla prova del pubblico
Partiamo dall’appariscente trionfo del suo Pd alle europee del 2014 – il 40,8% rispetto al 25,4% delle politiche del 2013. Per capirlo meglio, è bene esaminare l’analisi dei flussi elettorali tra i diversi partiti tra le prime e le seconde, per stabilire qual è la destinazione degli elettori in uscita dal Pd.
In effetti il non voto, in una competizione come quella del 2014 in cui ha votato solo il 58,7%, è la prima destinazione. Secondo la SWG, sono 1 milione e 400.000 gli elettori del partito che sono passati all’astensione. Per l’Ispo, si tratterebbe di una percentuale del 13%. Beninteso, ci sono stati molti voti in entrata dal centro e dalla destra.
A ciò si aggiunga il dato impressionante del crollo al 37% dei votanti in Emilia Romagna nelle regionali del 2014. Il quadro delle regionali del 2015 non è confortante, con una media nazionale dei votanti del 52% e il crollo del Pd in Liguria. Le comunali del 2016, con la perdita di Roma e di Torino, completano il quadro.
La ragione del successo (relativo) del 2014 non era stata probabilmente solo l’efficacia della campagna renziana in prima persona. C’erano anche la perdurante fedeltà al partito di molti elettori, la fedeltà dell’opposizione interna che ha fatto ancora campagna, e la mancanza di alternative democratiche convincenti (vedi la scarsa visibilità della lista Tsipras, la paura che questa non raggiungesse il quorum, la litigiosità della sinistra, l’inconcludenza politica dell’opposizione del M5S).
Ci si può chiedere se Renzi prevedesse o no le caratteristiche singolari del suo successo elettorale: astensione generalizzata, modesta adesione dei giovani e voto Pd prevalentemente anziano. Infatti il Pd nel 2014 è votato dal 57% dei pensionati e dal 56% degli over 65, ma dal 38% degli under 29 e degli studenti (cfr. Bordignon Dopo Silvio, Matteo? «Comunicazione Politica », n° 3, 2014, p.449, Fig.1). La seduzione dei giovani attraverso un brand ben confezionato oggi è sempre meno facile.
Bordignon sostiene che Renzi abbia mutuato da Grillo «l’idea del coinvolgimento dei cittadini nella formulazione delle scelte politiche». La sua «concezione bottom-up della democrazia… fa leva sulla partecipazione (individualizzata) dei cittadini». Ma, a mio avviso, questa partecipazione è molto più “narrata” da Renzi («è con te, Gianni, che io cambierò l’Italia […] è con te, Maria, che riuscirò ad entusiasmare le persone») che realizzata. Quanti i giovani sono così ingenui da abboccare a questa retorica?
Che dire poi dell’idea di una “partecipazione individualizzata”, e non solo nella versione renziana, ma anche in quella grillina? La partecipazione è tanto più efficace e utile quanto più è cooperativa e collettiva. Partecipare in modo cooperativo vuol dire costruire mediazioni e compromessi al livello di discussione nel quale ci si trova, che potranno essere ridiscussi e sintetizzati al livello superiore (dalla singola scuola al Miur, dalla fabbrica al sindacato nazionale, dalla sezione alla segreteria nazionale, ecc.). È un’altra cosa invece il rapporto dalla moltitudine all’uno, per cui tutti i cittadini possono scrivere direttamente a #matteorisponde o a matteo@governo.it. Esso sarà necessariamente gestito da un apparato tecnico centralizzato secondo una strategia di marketing.
Oltre alle iniziative governative di ascolto on line dei pareri dei singoli cittadini, Renzi ha lanciato anche una fallimentare “campagna di ascolto degli insegnanti della scuola pubblica”. Essa, dopo varie discussioni on line, si è conclusa con un questionario rivolto sia ai lavoratori della scuola, sia ai suoi utenti. Su 720.000 docenti hanno risposto al questionario on line circa 70.000, un numero non esaltante (erano comunque il 54% dei circa 130.000 rispondenti). Ciò potrebbe forse essere in relazione con la scarsa propensione degli insegnanti all’uso di Internet. Ma nemmeno gli studenti delle superiori sono stati molto numerosi (su 2.600.000 ragazzi oltre 30.000 risposte) e neppure i genitori (oltre 25.000). Invece ci sono state forti proteste e contestazioni organizzate contro il merito della legge, e proprio da categorie abbastanza legate al Pd che da anni aspettavano un intervento positivo.
Ma il vero disastro della comunicazione di Renzi è stata, ovviamente, la campagna referendaria a favore della riforma costituzionale. I sondaggi gli erano favorevoli prima dell’estate 2016, quando la sua campagna doveva ancora iniziare. Man mano che essa si è venuta delineando e che la gente è stata non solo progressivamente messa al corrente sulla questione, ma anche bersagliata dalla propaganda multimediale per il SÌ, l’opinione si venuta orientando in senso inverso. La diminuzione dei “non so-non risponde” si è accompagnata al consolidamento dei NO. La fascia d’età in cui il NO è più forte è, significativamente, quella degli under 30, mentre il SÌ più forte è over 65. Le età rispettivamente di Internet e della tv.
La differenza tra i renziani e gli antirenziani non è solo anagrafica e mediale. Carlo Buttaroni, il responsabile dei sondaggi Tecné, che lavora per la Rai, attualmente considera sempre più il Pd come il partito dei ricchi. A votarlo sarebbero soprattutto le fasce socioeconomiche più benestanti, mentre i partiti di centrodestra rappresentano la classe media e i 5 stelle le fasce più povere.
Gli elettori del M5S si collocano prevalentemente nella fascia bassa e nei confronti della situazione economica sono più pessimisti. Sono stati portati a votare M5S in parte per la loro situazione economica, in parte perché hanno una visione più pessimistica del futuro […]
Renzi funziona benissimo tra gli elettori della fascia alta, Salvini invece in quella medio-bassa. Di Maio è più rappresentativo della fascia bassa (www.ilsussidiario.net)
Le distinzioni non sono solo di reddito attuale, ma anche di prospettive di lavoro. La carta geografica del Sì e del No ricorda un po’ quella del XVIII° Rapporto Almalaurea del 2016 sulle condizioni di studio e di lavoro dei giovani. Le regioni del sud che hanno dato un’ampia maggioranza al No sono anche quelle nelle quali
1) dal 2003-2004 le iscrizioni universitarie sono scese del 30% (a fronte di un -3% nel nord)
2) i laureati che lasciano la propria residenza per finire gli studi sono il 20% (2% del nord)
3) i laureati che lasciano la propria area di residenza per cercare lavoro sono il 26% (a fronte del già rilevante 7% del nord).
L’analisi territoriale del voto referendario mostra poi che il No è correlato, oltre che con un basso reddito medio pro capite, con un alto tasso di disoccupazione giovanile (18-29 anni) e un alto tasso di disoccupazione generale.
Oltre a ciò negli ultimi anni l’astensione ha sempre più incorporato cittadini competenti ed informati. Si può immaginare che molti di essi siano tornati a votare non sull’onda emotiva anti-Renzi della tv e dei social, ma proprio sul merito del quesito costituzionale e contro il rafforzamento dell’esecutivo, di cui si è comunque ragionato sui media, nei teatri e nelle piazze.
In conclusione, notiamo che la campagna elettorale del referendum costituzionale (che dovrebbe essere per definizione l’atto istituzionale più impersonale possibile) è stata lo stadio estremo della personalizzazione della politica. La sua iperbolica copertura televisiva evidentemente non ha dato molti frutti, in assenza di politiche economiche, sociali, scolastiche, ecc., soddisfacenti. O, meglio, ha sortito l’effetto contrario. Questo referendum va dunque a rinforzare il senso di quelli del 2011, segnando forse uno spartiacque, oltre che nella storia politica, nella storia della cultura popolare, e sancendo la crisi della cultura pubblicitaria televisiva.