di Alfio Mastropaolo
Anche se su di esso in Italia si concentra ossessivamente l’attenzione da all’incirca un quarto di secolo, il sistema elettorale non è tutto. È solo uno dei tanti tasselli di quel complicato edificio che è il governo di un paese. Sono i politici – o gli specialisti del ramo – che alimentano l’ossessione. I secondi con qualche buona ragione, perché è di questi discorsi che campano. I primi perché vogliono distogliere l’attenzione da problemi più seri e dalle loro responsabilità.
Resta il fatto che l’Italia ha al momento il problema di darsi un sistema elettorale. Fino a ieri ne aveva uno democraticamente indecente – la legge Calderoli – che la Corte costituzionale ha potato severamente, ma la legislazione elettorale di risulta non pare la più funzionale. Anzi, potrebbe produrre gravi danni alla luce della polarizzazione esasperata determinatasi negli ultimi vent’anni tra le forze politiche, la quale richiama quella degli anni ‘20 dello scorso secolo, più che quella degli ‘40-’50, quando alla guida del paese c’erano forze politiche ideologicamente divaricate, antagoniste, ma anche fortemente responsabili, vuoi per intrinseca convinzione, vuoi in ragione delle pressioni esterne.
Proprie questi motivi giustificano rinnovate ipotesi di riscrittura delle legislazione elettorale che agevolino la costituzione di maggioranze stabili e riducano gli eccessi di dispersione del pluralismo partitico, oggidì palesemente fondate non su ragioni ideali – i piccoli partiti nel dopoguerra rappresentavano antiche e nobili correnti politiche ed erano guidati da personalità di altissima caratura politica e morale – bensì da mediocri calcoli opportunistici.
Tra i tanti problemi c’è però il fatto che sull’esigenza di riscrivere la legge elettorale grava un terribile mantra bipolare – e maggioritario, per usare la terminologia di A. Lijphart – che tormenta da tanto tempo la democrazia italiana. Una democrazia vitale può esistere anche senza bipolarismo, senza sapere la sera delle elezioni chi ne è stato il vincitore e consentendo per contro alle forze politiche di discutere e concludere accordi da ratificare in Parlamento. È successo recentemente nel preteso capofila delle democrazie bipolari e maggioritarie, che è il Regno Unito, così com’ è accaduto nella Repubblica federale tedesca, dove la conclusione di un accordo di governo tra i due maggiori partiti ha richiesto quasi due mesi di accaniti negoziati. In ambo i casi ci si è ricordati che il regime era parlamentare e non altro.
Siamo il paese del melodramma tanto quanto siamo il paese degli accomodamenti: a volte virtuosi, a volte truffaldini. La Costituzione repubblicana fu frutto di un accordo virtuoso. Ultimamente, a quanto pare, la vocazione melodrammatica e quella truffaldina sembrano volersi incrociare a tutti i costi e di qui sono scaturiti i ripetuti tentativi di cavare dall’intrico di tradizioni, culture, appartenenze politiche in cui la storia ha diviso l’Italia una fenice bipolare e maggioritaria.
Perché si sia utilizzata la leva elettorale è presto detto. Perché è manovrabile con legge ordinaria, senza le complicazioni previste dalle leggi costituzionali. Va tuttavia aggiunto che le democrazie maggioritarie sono più il prodotto dei risultati elettorali che non della legislazione. Perfino nel caso francese, è molto dubbio che de Gaulle avesse in mente in partenza il dualismo che i risultati elettorali hanno determinato dal 1958. Così come è dubbio che chi scrisse la legge elettorale in Germania avesse un simile obiettivo. In Italia del resto al bipolarismo ci siamo andati assai vicini, come ha a lungo argomentato Giorgio Galli.
Non essendoci riusciti, e essendosi anzi sfaldato il bipartitismo imperfetto, la politica italiana ha puntato sul bipartitismo artificiale. Ovvero su uno stregonesco tentativo di crearlo riscrivendo le regole del gioco, in particolare quelle elettorali. Il tentativo più compiuto è stato quello della legge Calderoli. Il terreno era stato ampiamente dissodato sia dalla riuscita operazione Berlusconi nel 1994, sia dalle leggi per l’elezioni degli organi rappresentativi (e dei capi degli esecutivi) comunali, provinciali e regionali, che appunto prevedono un premio. Lo stesso ha fatto la legge Calderoli, incontrando, conviene ricordarlo, una debolissima resistenza da parte dell’opposizione. La quale ha concentrato le sue critiche sull’impossibilità per gli elettori di scegliere gli eletti.
Non c’è che dire: l’artifizio ha funzionato. Ovvero, la legge Calderoli ha rafforzato il bipolarismo e ha costituito una larga maggioranza di governo. Con risultati però tutt’altro che brillanti. Come poco brillanti non paiono i risultati delle democrazie maggioritarie in giro per il pianeta. Qui di seguito otto argomenti critici sul punto.
Primo argomento. La democrazia maggioritaria (e bipolare) in Italia è fallita. Dobbiamo rassegnarci. Quando si è provato a istituirla il Paese veniva da una situazione di grave difficoltà, di declino economico, civile, morale del paese, ma vent’anni dopo la situazione non è migliorata neanche un po’. Il declino economico, civile, morale del paese s’è aggravato enormemente. La lotta politica si è imbarbarita. Siamo frastornati da insulti, ricatti, volgarità. E l’Italia è stata sottomessa a governi tanto arroganti quanto inefficienti. Non inefficienti per tutti, giacché gli esecutivi di centrodestra sono stati efficientissimi a curare gli interessi privati dei governanti e dei loro amici (talvolta, ahimè, l’hanno fatto pure i governi di centrosinistra, che hanno interrotto la continuità del ventennio). Accertato tuttavia che l’operato dei governi Berlusconi ha consegnato il governo del paese alle istituzioni di Bruxelles, Francoforte e Berlino, occorrerebbe esser ciechi per negare il disastro.
È ben nota la replica dei tifosi (anche di sinistra) della democrazia maggioritaria. La sua versione italiana è mal congegnata e non è maggioritaria abbastanza. Che i governi solidi e stabili siano preferibili ai governi deboli e instabili è un’affermazione lapalissiana. In realtà, solidità e stabilità non si conseguono per legge, né una maggioranza precostituita per via elettorale è il solo modo per averle. Berlusconi ha potuto disporre della maggioranza parlamentare più ampia che si ricordi in centocinquant’anni di storia nazionale. Ma la sua performance è stata indecorosa. Peraltro: cosa sarebbe accaduto se la marcia dei suoi governi non fosse stata almeno un po’ frenata dalle ambizioni di potere dei vari Casini, Bossi, Tremonti e Fini? Gli sciocchi rimproverano a Berlusconi le sue promesse non mantenute. Ove le avesse mantenute, cosa ne sarebbe di questo sventurato paese? Siamo proprio sicuri che la dittatura della maggioranza è solo un rischio consegnato ai libri di storia?
Secondo argomento. La democrazia maggioritaria in Italia è fallita a tutti i livelli. Meglio. Non è andata granché nemmeno a livello locale, sebbene qualcuno pretenda che il sindaco d’Italia sia il modello da adottare. Lì dove c’erano strutture amministrative discrete, l’elezione diretta del sindaco ha funzionato discretamente. Dove tali strutture erano scadenti, la situazione è peggiorata e di parecchio. A esser onesti, occorre distinguere tra amministrazioni di centrodestra e amministrazioni di centrosinistra. Le seconde sono state meglio delle prime. Ma se una regione, una provincia o un comune, magari nel Mezzogiorno, ha avuto la sfortuna di finire nelle mani di un’amministrazione di centrodestra, i danni che ha subito li pagherà per generazioni. E sono danni, purtroppo, che ricadranno su tutto il paese. Il che è capitato pure a qualche amministrazione del centro nord. Un esempio tra tutti: un comune non privo di tradizioni amministrative come quello di Alessandria ha subito l’onta del dissesto, da cui si riprenderà chissà quando. In più. Gli sforzi dell’attuale amministrazione di rimettere le cose in ordine non è detto che siano premiati. Tali sforzi costano gravi sacrifici ai cittadini, i quali non sempre sono comprensivi. Così, magari, quando le cose cominceranno a migliorare, riconsegneranno il comune al centrodestra.
Terzo argomento. La democrazia maggioritaria non funziona granché neanche fuori d’Italia. Ovvero, i tempi non sono propizi ai cosiddetti leader: La capacità di governo di Hollande è modestissima, lo era quella di Sarkozy e pure quella di Chirac. La presidenza Obama è impantanata. Il governo Cameron è un governo in negativo: disfa e non agisce (benché pure disfare sia un modo di agire…). La signora Merkel è tuttora ostaggio dei suoi alleati bavaresi, che le hanno imposto d’imporre a mezza Europa un’austerità dissennata. L’uomo solo al comando è un’immagine suggestiva e mediaticamente redditizia, ma l’uomo solo al comando è spesso impotente. Di per sé la democrazia maggioritaria non offre garanzie di efficacia. Quando ha funzionato, c’è riuscita perché chi governava aveva alle sue spalle una robusta macchina del consenso. Che non era personale, ma andava al progetto politico: è stato il caso del New Deal o delle riforme laburiste degli anni ‘40. La forza delle democrazie maggioritarie è una fiaba.
Quarto argomento. La democrazia maggioritaria inquina l’azione di governo e peggiora la moralità pubblica. Quando la dialettica è bipolare, il rischio di esclusione, seppur ciclica, dall’esercizio del potere costituisce un incentivo possente non solo alle politiche demagogiche e particolaristiche, ma anche all’uso distorto delle risorse pubbliche e alla corruzione. Ovunque i partiti si sono arciprotetti dalla sconfitta elettorale tramite il finanziamento pubblico. Ma quando the winner takes all, la posta è enorme. E l’uso delle risorse pubbliche per accattivarsi gli elettori è la soluzione più ovvia. Sovente agli italiani si additano virtuosi modelli stranieri. In realtà, o la memoria è corta, o chi addita è in malafede. Non dimentichiamo le malefatte di Kohl, di Chirac, di Sarkozy, dei parlamentari britannici: malefatte non meno gravi di quelle di casa nostra.
Quinto argomento. La democrazia maggioritaria deresponsabilizza. Non è vero che i cittadini licenziano chi governa male. Capita occasionalmente, ma non è la regola. Il privilegio dell’incumbency è in letteratura arcinoto. In primo luogo la conoscenza che hanno gli elettori delle politiche adottate dai governanti è molto limitata: sanno quel che gli raccontano cantastorie nient’affatto disinteressati. Inoltre, la letteratura dimostra che solitamente non esistono problemi che impongono politiche, ma che sono i fautori di questa o quella politica, che ritengono per sé conveniente, a suscitare i problemi. Che possono capirci gli elettori? Infine: gli elettori sono inerziali. Sono come i tifosi. Un torinista non diverrà mai juventino, neanche se il Toro finisse in quarta serie. Può succedere che un po’ di elettori insoddisfatti della propria parte politica si astengano o si disperdano. Ma è una possibilità troppo erratica per contarci onde migliorare la qualità del governo. Quando non succede che basta promettere una dissennata abolizione dell’Imu per smuovere una modestissima, ma decisiva, percentuale di voti.
Sesto argomento. La competitività della democrazia maggioritaria peggiora la qualità del personale politico. Non è affatto detto che la migliori. Né facilita il ricambio. Siamo seri: la qualità del personale politico dipende da tanti fattori, indipendenti dagli assetti istituzionali. Dipende dai meccanismi di formazione e selezione delle classi dirigenti, che lasciano a desiderare dappertutto. Per come sono fatti i partiti attuali, è difficile che la carriera politica sia appetibile per i migliori. Se poi, come capita oggidì, è decisiva la visibilità mediatica e la disponibilità di risorse finanziarie per sostenere una campagna elettorale, l’esito è disastroso. La competizione propria della democrazia maggioritaria non agevola neppure il turnover. Non facciamoci abbacinare dall’uscita di scena dei premier (o candidati premier) sconfitti in Inghilterra. In tutto il mondo i politici che sono andati a casa dopo una sconfitta elettorale sono una minoranza. Al momento, i frutti della competitività accresciuta della lotta politica sono solo frutti avvelenati. Oltre al decadimento della moralità pubblica, c’è da citare l’imbarbarimento della lotta politica: sotto gli occhi delle telecamere, neanche il linguaggio trova più restrizioni. Ridotta la lotta politica a bellum omnium contra omnes, anche i partiti ne sono gravemente danneggiati. L’Italia è sempre esagerata, ma le aggressioni a Obama dimostrano come anche fuori non si scherzi.
Settimo argomento. La democrazia maggioritaria offende il senso di giustizia. Le idee di giustizia sono tante. Anche la selezione competitiva della leadership può esser spacciata come pubblico vantaggio. Ma le elezioni si sono trasformate in lotteria, in cui vince chi ha maggiori disponibilità finanziarie o più gode del favore dei media. Tant’è che la partecipazione elettorale è in declino dappertutto. Il principio su cui si fonda la democrazia maggioritaria – the winner takes all, seppur temporaneamente – è scandaloso. Anche perché il temporaneo, coi tempi che corrono, è diventato lunghissimo e chi governa pro tempore può provocare gravissimi danni. Una cosa era la democrazia maggioritaria praticata al tempo delle generose politiche di inclusione del welfare. Un’altra lo è di questi tempi. Ove se resti escluso patisci danni gravissimi. In tempi di risorse scarse, la democrazia maggioritaria ha esasperato la sua vocazione esclusiva.
A sinistra ci si commuove parecchio intorno all’idea di uguaglianza. Ebbene, niente come la democrazia maggioritaria la oltraggia, giacché comprime severamente il pluralismo politico, squilibra la rappresentanza e consente disastri per alcuni e sovrapprofitti per altri. La democrazia maggioritaria all’italiana, figlia della legge Calderoli, è un abominio. Ma ovunque capita che governi espressi dal 30 per cento dell’elettorato, e sgraditi all’altro 70 per cento, decidano del destino di tutti. Ma che accidenti di democrazia è codesta? Quanto sono legittime le scelte dei governi che ne risultano? Specie: quando si raccattano voti come capita, non sulla base di disegni politici, ma di qualche brillante battuta pronunciata in tv, in fondo non si rappresenta, né vuol rappresentare, nessuno: si cerca solo il favore dei sondaggi.
Ottavo argomento. Si fanno sforzi enormi per metterci una pezza ma con poco risultato. I limiti della democrazia maggioritaria sono ormai acclarati e ovunque riconosciuti. Tant’è che tutte le democrazie che per semplificare chiamiamo maggioritarie hanno da tempo introdotto dispositivi complementari di concertazione e inclusione: la governance e le procedure deliberative rientrano tra questi. Senza soffermarsi su virtù e vizi di questi dispositivi, perché come tutte le cose umane hanno le une e gli altri, il loro limite in un quadro maggioritario è la delegittimazione delle istituzioni della rappresentanza, anzi dello stesso principio di rappresentanza. La democrazia è asfissiata da una morsa per la quale da un lato c’è l’acclamazione plebiscitaria del leader, dall’altra c’è il popolo che finge di autogovernarsi. Perché comunque affannarsi così tanto a promuovere inclusione e concertazione alle periferie del sistema e non ammetterle invece apertamente al centro?
Perché non rassegnarsi all’idea che l’Italia è un paese culturalmente e politicamente composito? In fondo, è una ricchezza. E perché non investire perciò più energie nella comprensione, persuasione e cooperazione tra diversi? Si può vivere benissimo senza leadership personale e senza bipolarismi sconclusionati. Il cambiamento occorso nel 1994 aveva i suoi motivi. Ma visto che ha prodotto solo inconvenienti, e visto che l’uomo solo al comando è un’illusione – lo hanno appreso a loro spese Berlusconi e Bersani, lo apprenderà presto pure Renzi – qualche passo indietro sarebbe consigliabile. Meglio il confronto aperto tra chi la pensa in maniera diversa che non gli agguati alle spalle: a conti fatti si perde anche meno tempo. Un regime non maggioritario ben temperato, un sistema elettorale proporzionale adeguatamente corretto, qualche azzeccato aggiustamento ai regolamenti parlamentari, che alzi il prezzo dei cambiamenti di casacca, potrebbero non già farci tornare indietro, ma piuttosto andare un poco avanti.
Post scriptum (o post Italicum). Le ultime novità sulla scena nazionale, perennemente in movimento, sono la sentenza della Corte sulla legge Calderoli e la proposta dell’Italicum. Il resto va rubricato sotto etichette più modeste (congiura di palazzo, ambizioni spartitorie, deliri di onnipotenza, ecc.). L’Italicum è una bruttissima proposta di legge, non più democratica e, probabilmente, non più costituzionale della legge precedente. Che in più conferma con singolare caparbietà il disegno di inventare una democrazia bipolare per via elettorale, a dispetto dalla conformazione politico-culturale del paese. Eppure, lo si è detto in partenza, i sostenitori non diciamo di questo orribile progetto, ma dell’introduzione di un premio di maggioranza, stante l’attuale condizione delle forze politiche e dei loro devastanti rapporti reciproci, qualche ragione ce l’hanno.
Se si tornasse a un regime proporzionale, seppur molto attenuato (tedesco o spagnolo), o se si adottasse un regime a doppio turno alla francese, e perfino a un turno all’inglese, difficilmente un partito, o una coalizione preelettorale, sarebbero in grado di ottenere tanti seggi da dare a questo paese un governo stabile e funzionale. Ciò legittima l’ipotesi del premio di maggioranza (ci sarebbe a dire il vero anche quella del presidenzialismo: ma chi, con un po’ di buon senso, si sente di consigliarla?). È vero che i governi Berlusconi, malgrado il premio, sono rimasti paralizzati, ma faute de mieux ci si potrebbe riprovare.
Ma, magari, non proprio nei termini proposti dal progetto Renzi-Berlusconi. Se premio ha da essere, che sia un premio attribuito con doppio turno, di dimensioni ragionevoli e, soprattutto, in tutti quei casi in cui nessun partito, o coalizione, raggiunga la metà più uno dei voti. Ragioniamo. Un doppio turno cosiffatto allevierebbe gli effetti di sottorappresentazione di parte dei votanti che il premio comporta. Tutti infatti avrebbero l’opportunità di esprimersi. Anche coloro che al primo turno non hanno votato. Rafforzando la legittimità del vincitore. Se i seggi assegnati al primo turno lo fossero secondo un criterio proporzionale (ragionevole), sarebbe anche una soluzione non troppo ingiusta. È più o meno quel che capita alla elezioni comunali. Con una considerazione per concludere. Non ci sono santi che tengano. Riconosciamo che questi sono tutti espedienti. Finché i partiti resteranno progettualmente inconsistenti, e coesi quanto una banda di predoni, non ci sono santi che tengano. Se ci va bene, seguiteremo a essere governati da fuori.