di Alessandra Algostino
[1] Innanzitutto una premessa. Il discorso sulla riforma costituzionale non può prescindere nel contesto odierno dalla considerazione dell’Italicum. Inoltre, essa va letta come parte di un processo più ampio di degenerazione della democrazia politica, un processo che annovera fra le sue prime tappe il referendum sulla legge elettorale del 1993 e vede nel corso degli anni una progressiva concentrazione del potere. Il disegno di legge Renzi-Boschi dunque è solo una tappa in un processo di verticalizzazione del potere nelle mani dell’esecutivo, con conseguente negazione degli spazi politici, del pluralismo, della democrazia intesa come conflitto, della centralità della discussione, della partecipazione imprescindibile delle minoranze.
Ciò in nome delle parole must di oggi, “efficienza” e “governabilità”. Ma quando si dice efficienza e governabilità, bisogna anche chiarire “per che cosa” e “per chi”, perché non sono principi neutri. La governabilità è declinata nel senso di una razionalità economica neoliberista. Maggiore efficienza e governabilità per il mercato. Almeno questa è la mia interpretazione.
Due sono i punti chiave su cui è possibile impostare una campagna referendaria per il no alla riforma costituzionale: da un lato, sottolineare come costituisca un ulteriore passaggio nell’istituzione di una democrazia di investitura, e, dall’altro, come essa depotenzi i contropoteri, attraverso delle modifiche della Costituzione che conducono ad una concentrazione del potere, in particolar modo nell’esecutivo, nel nome dell’efficacia e della governabilità.
Si modifica la forma di governo parlamentare come è disegnata nella Costituzione, ma si incide anche sulla forma di Stato, perché la concentrazione del potere, oltre un certo livello, incide sulla qualità, sulla permanenza in vita, della democrazia. Non a caso oggi si ragiona di postdemocrazia, di autocrazia elettiva, democrazia dispotica, democrazia senza democrazia, democrazia plebiscitaria, ecc., tutti ossimori che sottolineano il processo degenerativo della democrazia.
La degenerazione, che si può datare dagli anni 80, coinvolge tanto la democrazia politica quanto la democrazia sociale.
La riforma costituzionale va letta come strettamente connessa alla riforma delle pensioni, ai vari Jobs Acts, alla riforma della scuola, ovvero alle varie “riforme” che costituiscono in realtà regressioni. Evidenziare questo legame è molto importante nella campagna referendaria, perché la riforma costituzionale appare come una questione astratta. Bisogna mostrare invece come tutte queste “riforme” siano parte di un unico disegno.
Veniamo adesso allo specifico della riforma costituzionale. Si può muovere dalla sua presentazione: è un disegno di legge di iniziativa governativa, a firma Renzi e Boschi. Già questo non dovrebbe avvenire: una riforma della Costituzione, che tocca il patto sociale, richiederebbe la partecipazione più ampia possibile di tutte le forze politiche e un compromesso, nel senso alto del termine (questo è il senso del procedimento rafforzato dell’articolo 138 Costituzione), il che è negato in radice quando il disegno di legge proviene da una sola forza, quella di maggioranza che sostiene il Governo.
Inoltre le Camere chiamate a pronunciarsi sul disegno di legge sono formate in base ad una legge, la legge n. 270 del 2005, che, come è noto, è stata colpita dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 1 del 2014. Le Camere possono continuare ad esercitare le loro funzioni in base al principio di continuità dello Stato, ma non hanno quella legittimazione forte che sarebbe necessaria per procedere ad una riforma costituzionale.
Si tratta dunque di un contesto viziato in partenza, al quale si possono aggiungere, per tacere delle forzature procedurali in corso d’opera, altri due elementi.
Le riforme costituzionali non dovrebbero essere approvate in situazioni di emergenza – economica, riguardante la sicurezza, il terrorismo, ecc. – come quella attuale. E non dovrebbero nemmeno essere impostate come un plebiscito sul Governo: il referendum costituzionale infatti ha un carattere oppositivo, non confermativo e plebiscitario.
Per questo è importante raccogliere le cinquecentomila firme per promuovere il referendum. E il Governo non dovrebbe indire le votazioni prima che sia spirato il tempo per la raccolta delle firme, secondo la Costituzione, e il buon senso.
Veniamo ora al contenuto delle riforme. Partiamo dal Senato.
Il Senato diventa la camera di rappresentanza degli enti territoriali. I suoi membri vengono ridotti da 315 a 100. Fra questi 100, vi sono 74 consiglieri regionali, eletti dai consigli regionali di appartenenza, “in conformità – recita il ddl – alle scelte espresse dagli elettori”, quindi dovrebbero riflettere la proporzione dei gruppi, ma non è chiaro come (appare indispensabile una legge di attuazione che disciplini le modalità concrete). Vi sono poi 21 sindaci, eletti sempre dai consigli regionali (e dai consigli delle Province di Trento e di Bolzano). A questi membri dovrebbero aggiungersi 5 senatori nominati dal Presidente della Repubblica: “alte personalità, che hanno illustrato la patria per meriti scientifici, artistici, letterari, ecc.” Essi dovrebbero essere eletti non a vita, come adesso, ma per 7 anni. Le critiche che sono state fatte in proposito si appuntano sia sul fatto che così si crea un partitino del Presidente sia sulla considerazione che questi senatori non sono congruenti rispetto ad una Camera di rappresentanza degli enti territoriali (dovrebbero piuttosto sedere nella Camera bassa, che rappresenta la Nazione).
La diminuzione del numero è uno degli aspetti vantati dai sostenitori della riforma: diminuisce il numero e diminuiscono i costi – e diminuisce la casta. Secondo me, invece, la diminuzione del numero è un elemento negativo. Diminuendo il numero, si diminuisce di fatto la rappresentatività di un organo, si dà meno spazio alle forze di minoranza, e si diminuisce così anche l’identificazione potenziale dei cittadini nell’organo rappresentativo. Invece di contrastare la crisi della politica e dei partiti, la si incoraggia. Inoltre in questo modo diminuisce il peso del Senato nelle votazioni in seduta comune: 100 senatori a fronte di 630 deputati (eletti con l’Italicum). Ricordo che in seduta comune si elegge il Presidente della Repubblica e un terzo dei membri del Consiglio Superiore della Magistratura.
La sua debolezza impedisce al Senato di giocare un ruolo come contropotere. Come abbiamo già detto, le principali caratteristiche della riforma sono: 1) di procedere sulla via dell’istituzione di una democrazia di investitura e 2) di ridurre i contropoteri. Per esempio, il Senato degli Stati Uniti gioca un ruolo efficace in funzione di contropotere. Le funzioni del Senato riformato invece sono piuttosto confuse, nel senso che non è un vero organo di controllo, non ha delle funzioni omogenee.
Ha delle funzioni tipiche della rappresentanza, nel senso che interviene sulla legislazione costituzionale e può intervenire su quella ordinaria, senza però avere una legittimazione diretta: questo viola la sovranità popolare (art.1 della Costituzione).
Al Senato sono quindi attribuite confusamente svariate funzioni: per esempio, elegge due membri della Corte Costituzionale, sui cinque di nomina parlamentare. Non si riesce a capire bene il perché. Si rischia di creare un elemento corporativo all’interno della Corte Costituzionale: si tratterebbe di due giudici degli enti territoriali, che ne difendono gli interessi?
Inoltre i senatori eserciterebbero le loro funzioni part-time, essendo anche consiglieri o sindaci: questo indebolisce il Senato, anche a livello simbolico. E quindi diminuisce la sua funzione di contropotere.
Altro aspetto: il Senato è escluso dalla votazione sullo stato di guerra, che è riservata alla Camera, eletta con l’Italicum. Non è un elemento secondario in un periodo in cui si assiste continuamente a missioni militari all’estero e si prospetta concretamente la possibilità di guerre: concentrare nella Camera il potere sullo stato di guerra è un elemento che indebolisce il principio del ripudio della guerra scritto nell’art. 11 della Costituzione.
Altri compiti del Senato: “il Senato valuta le politiche pubbliche e le attività della pubblica amministrazione e verifica l’attuazione delle leggi dello Stato”. Si tratta di una funzione nuova e occorre capire come sarà esercitata e come le leggi di attuazione la disciplineranno. Per esempio non è chiaro se essa riguardi solo l’impatto delle politiche pubbliche sui singoli territori o se sia di carattere più generale. Ciò anche perché un’altra funzione del Senato è quella di valutare l’impatto sui territori delle politiche legate all’Unione Europea, e quindi la prima funzione potrebbe essere interpretata in analogia con la seconda. Questo per dare un’idea di come siano confuse le funzioni del progettato nuovo Senato.
Ne esce l’immagine di un Senato debole, nel complesso incapace di controbilanciare il rafforzamento dell’esecutivo. E in più è un organo ballerino, sottoposto a variazioni permanenti in dipendenza dalle elezioni regionali. Oltre alle variazioni che dipendono dalla differenza di data tra le elezioni regionali e quelle nazionali, e al fatto che non tutte le elezioni regionali avvengono nella stessa data, anche i 21 sindaci possono variare. Si può affermare che questo Senato, come il Bundesrat tedesco (che rappresenta i governi dei Länder), è un organo continuo sempre in funzione, che muta di volta in volta i suoi membri, diversamente dalla Camera che si insedia ad ogni nuova legislatura, e che con le nuove elezioni politiche si rinnova completamente.
Infine, riassumiamo le funzioni che il Senato perde. Perde gran parte della sua funzione legislativa, perde la facoltà di votare la fiducia, perde la funzione di controllo sull’operato del Governo.
Passiamo ai punti della riforma che riguardano la Camera dei Deputati. Essa rappresenta la Nazione, è titolare esclusiva del rapporto di fiducia col Governo e della funzione di indirizzo politico (funzioni che il Senato ha perso), condivide col Senato la funzione legislativa, ed è titolare della funzione di controllo sul Governo (funzione evidentemente collegata con la fiducia). L’esclusiva della fiducia alla Camera è, nel panorama delle democrazie parlamentari – Germania, Inghilterra, ecc. -, la regola e non l’eccezione, ed esiste anche in forme di governo semipresidenziali, come la Francia, ma il legame con l’Italicum ne distorce il senso.
La limitazione della funzione legislativa per quanto riguarda il Senato potrebbe essere occasione di conflitti tra le due Camere. Una norma della riforma prevede che in caso di conflitto si dovrebbe addivenire ad un accordo tra il Presidente della Camera e quello del Senato. Ma ciò non elimina la possibilità che il conflitto non venga risolto e ci si debba rivolgere alla Corte Costituzionale, con un conseguente aumento del contenzioso su cui la Consulta dovrà intervenire.
I tipi di procedimenti legislativi sono numerosi e in dottrina non c’è nemmeno accordo sul loro numero: c’è chi ne conta dieci, chi dice otto, chi sostiene siano nove, chi dice tre ma con sottomultipli… Per una riforma che come suoi slogan ha l’efficacia e la semplificazione, non è certo una prova di coerenza. Diventa molto più complicato il procedimento legislativo, e diventa molto probabile che una legge possa essere contestata e oggetto di giudizio di fronte alla Corte Costituzionale anche solo per vizio di forma, oltre i contenziosi tra la Camera e il Senato.
Ci sono alcune leggi bicamerali, che devono essere votate da tutte e due le Camere: le leggi costituzionali, le leggi elettorali riguardanti il Senato e i referendum popolari e le leggi in materia di ordinamento degli enti territoriali. Per tali leggi, il progetto di legge può essere presentato in una qualunque delle due Camere. Nel caso di leggi monocamerali, il progetto di legge deve invece essere presentato alla Camera dei Deputati, anche se poi può pronunciarsi anche il Senato. Quest’ultimo ha un potere di richiamo, con modalità diverse a seconda delle materie. Inoltre il Senato, come istituzione, ha un potere di iniziativa legislativa, mentre i singoli senatori ne sono privi.
Alla fine, comunque, chi decide in via definitiva è la Camera. Il Senato ha poteri maggiori quando si tratta di materie che riguardano le Regioni (art.117). In questo caso la Camera può approvare in via definitiva solo con la maggioranza assoluta – ma non dimentichiamo che si tratta della Camera eletta con l’Italicum, per cui la maggioranza assoluta è creata artificialmente.
In questo insieme intricato di procedimenti legislativi, va citata la possibilità di sottoporre preventivamente le leggi elettorali ad un giudizio di costituzionalità, non obbligatorio ma su attivazione di una parte. C’è da chiedersi se questo sia un modo per evitare un giudizio successivo della Corte stessa, costringendola a pronunciarsi su una legge in astratto, con la conseguenza di indurre una maggior politicizzazione della Corte (anche se è positiva la possibilità di eliminare preventivamente leggi come il Porcellum, o l’Italicum).
Con la riforma cambiano i rapporti Governo-Parlamento, con un generale potenziamento dei poteri del Governo sul Parlamento. Emblema di ciò è il voto a data fissa sui disegni di legge proposti dal Governo. Il Governo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare entro 5 giorni dalla richiesta che un disegno di legge sia iscritto con priorità all’ordine del giorno, con l’obbligo per l’assemblea di pronunciarsi in via definitiva entro 70 giorni (con la riduzione della metà dei tempi, già brevi, a disposizione del Senato per eventuali proposte di modifica). In questo modo sono vanificati i limiti posti al decreto legge: in effetti la riforma recepisce le critiche al decreto legge formulate dalla Corte Costituzionale, o le esclusioni fissate in leggi ordinarie, ma con il voto a data fissa assicura al Governo una facilitazione analoga a quella del decreto legge.
Il Governo esce dalla riforma come dominus della politica: lungi dall’essere il comitato esecutivo del Parlamento, ne è il comitato direttivo.
Un altro aspetto della riforma riguarda l’opposizione all’interno del Parlamento. Essa non è garantita: nella riforma è presente una norma che fa riferimento ai diritti dell’opposizione, ma rimanda tutto ai regolamenti parlamentari, che saranno scritti dalla maggioranza artificiale prodotta dall’Italicum.
Anche il contrappeso costituito dagli istituti di partecipazione popolare non è seriamente considerato. Vengono previsti referendum propositivi, referendum di indirizzo e altre forme di consultazione, ma il tutto è rinviato alle successive leggi di attuazione. Per quanto riguarda le leggi di iniziativa popolare, è aumentato il numero di firme da raccogliere, da 50.000 a 150.000, rendendo più difficile la partecipazione. Per il referendum abrogativo sono stati introdotti due quorum differenti, a seconda che si raggiungano 500.000 firme o 800.000 firme. Nel primo caso occorre la maggioranza degli aventi diritto al voto, con 800.000 firme è sufficiente la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera.
Nel complesso, dunque, gli istituti di iniziativa popolare non sono potenziati come contropotere rispetto all’esecutivo e semmai sono indeboliti.
Veniamo ora alla riforma del Titolo V. Si può notare come nemmeno le Regioni possano essere considerate un adeguato contropotere. Ad una prima lettura questa parte mi era parsa positiva, perché a mio avviso il ritorno di competenze allo Stato centrale costituisce un miglioramento. Ritornano allo Stato: l’istruzione, la formazione professionale, la sanità, la tutela della sicurezza del lavoro, l’energia, la rete dei trasporti, la navigazione, la comunicazione, la promozione della concorrenza, il coordinamento della finanza pubblica, ecc. C’è una forte espansione del ruolo del legislatore statale e una netta inversione di tendenza rispetto alla riforma costituzionale del 2001, che era in senso regionalista forte, e vantata come federalista. Oltre a quanto detto, viene limitata la competenza concorrente delle Regioni, cioè i casi in cui intervenivano sia lo Stato che le Regioni. Viene introdotta la clausola di supremazia statale: quando è necessario, ai fini della tutela dell’unità giuridica o economica, o dell’interesse nazionale, su proposta del Governo la legge statale può intervenire in materie di competenza esclusiva delle Regioni. In sostanza lo Stato può avocare a sé la competenza di una Regione. Tuttavia, se il Titolo V prima era piuttosto confuso, adesso non è più chiaro, e resta un notevole spazio per sovrapposizioni di competenze e contenziosi di fronte alla Corte Costituzionale.
Sono escluse dall’applicazione della riforma le Regioni a statuto speciale, introducendo un ulteriore elemento di differenziazione e confusione.
Vi sono poi altri punti, che è sufficiente qui richiamare: l’abolizione delle Province e l’abolizione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro.
Concluderò invece con qualche osservazione sul depotenziamento del ruolo del Presidente della Repubblica, un altro contropotere rispetto al Governo. Esso risulta depotenziato nel suo ruolo di garante e di organo neutro, super partes. La congiunzione fra l’elezione in seduta comune (con la netta prevalenza del peso dei deputati), gli effetti perversi sulla composizione della Camera prodotti dall’Italicum e maggioranze che dal settimo scrutinio sono ridotte ai 3/5 dei votanti, rende possibile alla maggioranza parlamentare eleggere da sola il Presidente. Esso quindi appare fortemente legato alla maggioranza di Governo.
Il quadro complessivo dunque è caratterizzato dalla centralità del Governo e della sua maggioranza, gonfiata dal sistema elettorale: il Governo si configura quale comitato direttivo del Parlamento, mentre tutti i possibili contropoteri sono indeboliti. È quanto mai importante, dunque, respingere questa riforma e – ripeto – è necessario legare la battaglia contro la revisione della Costituzione con quella per i referendum sociali, nella consapevolezza che questa riforma è parte di un unico processo di dismissione della democrazia politica e sociale, del quale costituisce una tappa significativa.
[1] Trascrizione, rivista dall’autrice, di una relazione tenuta su invito dell’Associazione per il rinnovamento della sinistra (Ars) di Torino nel marzo del 2016.