di Francesco Pallante
Sul movimento di Beppe Grillo in queste settimane se ne sono sentite di tutti i colori. Che è il riflesso speculare del berlusconismo. Che punta solo allo sfascio del sistema. Che è la reincarnazione del fascismo. Che è anticostituzionale e/o antieuropeo. Che è l’ultima deriva del populismo. E simili.
Molte di queste accuse hanno trovato eco tanto nel Pdl, quanto nel Pd. A sinistra (Pd e SeL) si sono invece levate voci diverse, che hanno provato a ragionare intorno alla possibilità di individuare, se non un’intesa complessiva, quantomeno alcuni temi intorno ai quali impostare un dialogo politico.
Chi ha ragione? Chi sostiene che Grillo è un pericoloso (s)fascista o chi sostiene che è un potenziale interlocutore della sinistra?
Per provare a rispondere, mi soffermerò brevemente su due punti: il programma del M5S e il comportamento tenuto dai gruppi parlamentari “grillini” dopo le elezioni.
Il programma del M5S
Beppe Grillo ha reso noti i 20 punti essenziali del programma dell’M5S in una “Lettera agli italiani” postata sul suo blog il 7 febbraio scorso.
Alcune proposte tradiscono smaccatamente l’intenzione di “lisciare il pelo” al corpo elettorale (dunque non meritano di essere prese seriamente in considerazione):
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istituzione di un “politometro” per verificare arricchimenti illeciti dei politici negli ultimi 20 anni;
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referendum sulla permanenza nell’euro;
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abolizione dell’Imu sulla prima casa;
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non pignorabilità della prima casa;
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abolizione di Equitalia.
Altre misure rispecchiano il culto dell’M5S per internet e la democrazia diretta:
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abolizione dei contributi pubblici ai partiti;
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referendum propositivo e senza quorum;
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obbligo di discussione di ogni legge di iniziativa popolare in Parlamento con voto palese;
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abolizione dei finanziamenti diretti e indiretti ai giornali.
Alla base di queste proposte c’è una concezione della democrazia volta a colpire l’idea stessa della mediazione politica. Nella visione dei fautori della partecipazione informatica i cittadini devono essere messi in condizione di far valere direttamente i propri interessi, sicché rappresentanti e partiti diventano inutili (ciascuno rappresenta se stesso, rendendo superfluo ogni sede di raccordo tra società e istituzioni). Di qui la polemica contro il finanziamento pubblico a partiti e giornali (che dei partiti sarebbero il megafono mediatico) e la valorizzazione degli strumenti di democrazia diretta (referendum e iniziativa popolare).
Si tratta di una concezione della democrazia che, nell’attuale frangente storico, mette in difficoltà soprattutto le forze politiche di sinistra, in particolare per la proposta di abolire il finanziamento pubblico all’attività politica, ma che non può essere considerata un fungo venuto fuori dal nulla. L’idea della necessaria introduzione di elementi di direttismo nel nostro sistema democratico rappresentativo risale culturalmente alla metà degli anni ‘70, per opera di uno degli intellettuali che più hanno avuto influenza sul Pd e sulle formazioni che l’hanno preceduto (Giuliano Amato); e anche la sua (parziale) realizzazione – dovuta alla trasformazione in senso maggioritario del sistema elettorale – si è avvalsa del decisivo sostegno delle maggiori formazioni politiche succedutesi al Pci. Naturalmente, immediatezza e leaderismo sono stati a gran forza sostenuti anche dalla destra berlusconiana, ma non va dimenticato che hanno trovato convinti fautori anche nella classe dirigente del Pd, vecchia (qualcuno ricorda il “partito leggero” prefigurato da Veltroni? E, ancor prima, lo smantellamento dell’organizzazione del Pci realizzato da D’Alema?) e nuova (si vedano le recenti aperture di Renzi al presidenzialismo).
In quest’ottica la concezione grillina della democrazia rappresenta niente più che l’estremizzazione di quanto già diffuso nella cultura politica comune dalle forze politiche tradizionali. Per quanto possa sembrare paradossale, sotto questo profilo l’M5S si pone non in rottura, ma in forte continuità con il passato.
Restano le proposte programmatiche di “merito”:
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reddito di cittadinanza;
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ripristino dei fondi tagliati alla sanità e alla scuola pubblica;
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accesso gratuito alla rete per cittadinanza;
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misure immediate per il rilancio della piccola e media impresa;
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legge anticorruzione;
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informatizzazione e semplificazione dello stato;
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una sola rete televisiva pubblica, senza pubblicità, indipendente dai partiti;
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elezione diretta dei parlamentari alla Camera e al Senato (cioè reintroduzione delle preferenze);
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massimo di due mandati elettivi;
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legge sul conflitto di interessi;
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eliminazione delle province.
Sono proposte che possono essere tacciate di irrealismo (dove si trovano i soldi per il reddito di cittadinanza?), di eccessiva vaghezza (cosa sono in concreto le misure immediate per il rilancio della piccola e media impresa?), di distorsione delle priorità (davvero l’accesso gratuito alla rete è così importante?), di lacunosità (quali politiche del lavoro, tanto per dirne una?). Ma – siamo onesti – quale programma politico è immune da questi difetti?
Il dato più rilevante mi sembra l’idea di società che traspare da questi interventi: una società che garantisce una maggiore tutela dei diritti sociali (scuola, sanità, indigenza), che mira alla modernizzazione dell’apparato amministrativo pubblico (informatizzazione, semplificazione, abolizione delle province, lotta alla corruzione), che procede – finalmente! – a colpire i conflitti di interessi (in generale e con riferimento specifico al sistema televisivo), che vuole correggere le distorsioni della legge elettorale vigente, che sostiene l’economia diffusa e non i grandi potentati. Poi, nello specifico, la bontà delle singole proposte può essere discussa. Ma non si può non riconoscere la loro appartenenza a un sostrato culturale quantomeno “vicino” a quello proprio della sinistra (basta dare un’occhiata al programma del Pd per rendersene conto).
In definitiva, depurato dalle proposte più smaccatamente demagogiche, il programma di Grillo sembra tutt’altro che d’ostacolo a un dialogo con le forze che si richiamano, più o meno apertamente, alla tradizione della sinistra politica.
Il comportamento tenuto dai gruppi parlamentari “grillini” dopo le elezioni
Occorre allora interrogarsi sul perché M5S e Pd non siano riusciti a trovare un’intesa in Parlamento, né sulla nascita del governo, né sull’elezione del Presidente della Repubblica.
Partiamo dal risultato elettorale: al di là dei meri numeri, il Pd ha perso le elezioni, l’M5S e il Pdl le hanno vinte. Il Pd però ha la maggioranza relativa e, visto che un’alleanza tra l’M5S e il Pdl sarebbe impossibile, deve scegliere con chi allearsi.
Mettiamoci dal punto di vista di Beppe Grillo: comunque vada, ha solo da guadagnarci: se il Pd si allea con il Pdl, lui può gridare all’inciucio e aumentare il suo consenso; se il Pd si allea con il M5S, lui detta le condizioni (tra cui la testa di Berlusconi) e aumenta, in ogni caso, il suo consenso.
Mettiamoci ora dal punto di vista del Pd: si è trovato in una situazione difficilissima fin da subito: se si accorda con il Pdl la sua base si rivolta; se si accorda con il M5S deve andare alla guerra contro Berlusconi e rischia di spaccarsi in due (perché una parte del partito non è affatto ostile a Berlusconi, anzi).
In questa situazione cosa fa Bersani?
Inizialmente si avvicina al M5S, scegliendo due presidenti delle Camere che potrebbero piacere ai grillini (e infatti al Senato riesce a metterli in difficoltà).
Poi – illudendosi di aver guadagnato credito sufficiente o (dopo quanto accaduto al Senato) di poter erodere una parte dei voti grillini – cerca di fare il governo con il sostegno, diretto o indiretto, dell’M5S, riconoscendone la maggiore vicinanza programmatica rispetto al Pdl, ma ponendo come condizione che sia lui stesso a guidarlo. L’M5S non può che dire di no: come potrebbe far digerire ai suoi elettori la partecipazione a un governo guidato da uno dei principali esponenti di quella classe politica contro cui ha impostato tutta la campagna elettorale? E perché mai dovrebbe fidarsi delle promesse programmatiche provenienti da chi, negli ultimi vent’anni, ha più volte tradito le promesse programmatiche fatte ai suoi elettori?
Di fronte al rifiuto grillino, Bersani non propone né nomi né formule alternative e finisce con l’andare a scontrarsi contro il discutibile atteggiamento di Napolitano che, anziché mandare il Presidente incaricato a verificare l’orientamento delle Camere – così dandogli almeno una chance – lo affossa con la balzana invenzione del comitato dei saggi.
Così, momentaneamente sterilizzata la questione del governo, si apre la partita della presidenza della Repubblica. E qui diventa davvero difficile seguire la logica delle mosse bersaniane (a meno di voler dar credito alla ardita teoria del gioco spregiudicato su Marini per arrivare in realtà a Prodi). Inizialmente il segretario del Pd propone una rosa di nomi al Pdl (cosa che non aveva fatto con Grillo per il governo, perché?) e trova l’accordo con Berlusconi, rinnegando così tutto quel che aveva fatto fino a quel momento (e dimostrando a posteriori che il M5S, dal suo punto di vista, aveva fatto bene a non fidarsi). Poi, di fronte al naufragio di Marini, cerca di ricompattare il partito sul nome di Prodi, ma senza premurarsi di cercare una sponda nel M5S e dunque andando alla guerra contro Berlusconi – che non può accettare Prodi – privo della forza necessaria a sostenere lo scontro. Risultato: il Pd va in pezzi rovinosamente.
L’M5S, dal canto suo, assume una posizione lineare e realistica: potrebbe tranquillamente arroccarsi sui nomi di Gabanelli o Strada, e invece punta tutto su Rodotà, un candidato che lancia evidentemente un ponte verso il Pd. Bersani, però, non lo prende in considerazione nemmeno per un momento, ritrovandosi alla fine costretto ad accodarsi alla destra nell’acclamazione di Napolitano.
Qual era, insomma, l’obiettivo di Bersani? Allearsi con Grillo (e dunque, inevitabilmente, fare la guerra a Berlusconi) o allearsi con Berlusconi? È l’ambiguità che il Pd e le formazioni che l’hanno preceduto si portano dietro da vent’anni e che Bersani ha provato, del tutto irrealisticamente (dato il risultato elettorale), a non risolvere per l’ennesima volta. Eppure, l’impressione è che se avesse trovato il coraggio di prendere apertamente la strada che portava alla rottura con Berlusconi, forse allora Grillo avrebbe potuto trasformarsi in un compagno di viaggio.