di Carlo Galli
Prima di tutto è necessario comprendere che i modelli elettorali sono collocati dentro i sistemi politici reali, e che sono fattori interni alla dinamica del sistema politico, e al più generale rapporto fra politica, partiti e società.
1. Sui sistemi politici
Per dare una lettura sistemica dei sistemi elettorali reali con i quali abbiamo interesse a confrontarci, vediamone un sintetico elenco– quello inglese, quello francese, quello tedesco, quello spagnolo e quello statunitense –; per ciascuno dei quali si può fare emergere il significato della legge elettorale in relazione alla forma di Stato, alla forma di governo, al sistema partitico, e indicare l’obiettivo e i prezzi.
Nel modello inglese (maggioritario di collegio a un turno) l’obiettivo è il controllo parlamentare del governo e, al tempo stesso, la piena agibilità politica del premier in Parlamento (che però lo può cambiare in itinere); il prezzo è il bipartitismo forzato (ma quando nacque questo sistema elettorale i partiti erano solo due). Il modello francese (a doppio turno) è invece costruito sull’obiettivo dell’esercizio centralistico interno e della proiezione esterna della sovranità: ha alle spalle una storia che dà un grande ruolo al potere amministrativo, e si caratterizza per la doppia e parallela legittimazione elettorale del capo dello Stato (che è anche capo dell’esecutivo) e del Parlamento; il prezzo è, oltre alla possibile “coabitazione”, che il Parlamento è sempre stretto fra il Presidente, da una parte, e il potere amministrativo, dall’altra. Il modello tedesco – parlamentare, perché è lì che si forma il governo, e proporzionale corretto quanto alla procedura elettorale – ha come obiettivo la stabilità del sistema politico, da una parte, e il controllo parlamentare sul governo, dall’altra. Per realizzare questi obiettivi non basta però la legge elettorale: è necessario quell’elemento decisivo per la stabilità della politica tedesca che è il federalismo, una tradizione storica che soltanto per i dodici anni del nazismo fu interrotta; e servono anche altri istituti, come la sfiducia costruttiva. Il prezzo è la rinuncia al bipartitismo e talvolta al bipolarismo. Il modello spagnolo (liste bloccate in piccoli collegi) ha senso in un sistema politico caratterizzato da forti tensioni regionali che quindi non può permettersi di spezzettare la rappresentanza dei partiti nazionali, ed è quindi congegnato in modo da generare un bipartitismo a livello nazionale e dare rappresentanza ai partiti concentrati nel livello locale. Gli Stati Uniti sono ancora diversi; essi conoscono in realtà una tripla rappresentanza: quella federale del Senato, quella popolare della Camera e quella, simbolica e al contempo politica, del Presidente degli Stati Uniti, legittimato direttamente dal popolo e capo dell’esecutivo. In questo modello di costituzionalismo puro, il governo (di nomina presidenziale) non ha bisogno della fiducia del Legislativo: il cui metodo di elezione è relativamente meno importante dell’obiettivo politico complessivo, che è l’esercizio incondizionato della sovranità all’esterno e il federalismo all’interno, cioè il tentativo di ridurre l’elemento della sovranità accentratrice; il prezzo che si paga è la possibile situazione di conflitto fra l’Esecutivo e il Legislativo. Questi sistemi non affidano la loro stabilità politica solo a una legge elettorale che meccanicamente, a ogni costo, voglia generare governabilità.
Il sistema politico italiano, da parte sua, si articola su quattro aree, di cui due finora relativamente compatte, sotto il profilo della rappresentanza, il Partito Democratico e il Movimento Cinque Stelle; una per ora più frastagliata che è la destra; una ancora più frastagliata e meno numericamente rilevante che è il centro. La caratteristica fondamentale del sistema politico italiano è che tre attori su quattro, cioè i tre attori maggiori (ipotizziamo per comodità che la destra torni in breve a essere un soggetto unitario, anche se politicamente è rilevante che un piccolo pezzo di destra si sia trasformata in un soggetto capace di alleanze verso il centro) si dichiarano e sono di fatto alternativi rispetto agli altri, e non desiderosi né capaci di collaborare a livello parlamentare, se non sotto la spinta della necessità (le larghe intese e anche – benché assai meno ‘necessario’ e molto più liberamente ‘scelto’ – sulla legge elettorale, strutturata in modo tale da favorire i due partiti principali che appunto si sono accordati per redigerla).
Altra caratteristica fondamentale del nostro sistema politico è che, dal punto di vista della forma di Stato, non è presente alcun federalismo, in nessuna delle accezioni del termine, ma un regionalismo conflittuale rispetto al centro (le “materie concorrenti”); che la Repubblica è parlamentare, ossia che la Costituzione vuole che il governo si formi in Parlamento, e non, con artifici giuridici, nelle urne elettorali. Certo, il governo si forma dopo che il Capo dello Stato ha incaricato un presidente del Consiglio: questa indicazione però non può essere arbitraria, ma deve riguardare persone che siano capaci di formare una maggioranza, e la maggioranza si forma appunto in Parlamento. Inoltre, fino a pochi giorni fa vigeva una legge elettorale che rendeva molto difficile il formarsi di maggioranze omogenee fra i due rami del Parlamento, mentre rendeva troppo facile il formarsi della maggioranza alla Camera. Non solo, ma questa legge – un proporzionale con premio, a fortissimo effetto maggioritario – non ha eliminato per nulla la frammentazione politico-partitica. Si è limitato, in realtà, a metterla fra parentesi durante la campagna elettorale, e a lasciarla, ovviamente, esplodere nuovamente in Aula.
2. Sul discorso pubblico
Oggi, si dice che una legge elettorale deve garantire nell’ordine: stabilità/governabilità, libera scelta dei rappresentanti da parte dei cittadini, e rappresentatività dell’istituzione rispetto alla società (cioè il concetto di uguaglianza del voto: non ci possono essere voti che sono rappresentati e altri che non avranno mai chance di esserlo). Anche la Corte costituzionale nella sua sentenza accetta queste tre finalità, ma le gerarchizza in modo diverso (prima la rappresentanza, a pari merito la scelta, ultima la governabilità alla quale i primi due obiettivi non possono essere del tutto sacrificati).
Inoltre, il discorso pubblico chiede bipolarismo, che andrebbe realizzato, possibilmente, attraverso una legge maggioritaria o con effetti fortemente maggioritari. E poi, ancora, che è necessario fornire al capo vittorioso (un uso linguistico non particolarmente felice eppure divenuto corrente) la capacità di rendere efficace la propria volontà senza intoppi e mediazioni, dentro il partito e dentro le istituzioni. Infine, parrebbe necessario che i cittadini italiani la sera del giorno elettorale sappiano immediatamente con certezza qual è il governo.
C’è una forte opinabilità di alcuni di quegli obiettivi: soprattutto, che la legge elettorale serva a garantire governabilità; che debba produrre bipolarismo (in realtà si intende bipartitismo: infatti, il bipolarismo si forma sempre, quando ci sono maggioranza e opposizione – come avveniva anche ai tempi della Prima Repubblica, tranne che in momenti di emergenza -); che debba rafforzare l’azione del leader vincente; che debba generare istantaneamente il governo.
In ogni caso, questo è il discorso pubblico, gli idola fori; ma la sostanza del dibattito politico verte primariamente sul tema dell’utilità, della funzionalità della riforma elettorale per ciascuna forza politica, in relazione soprattutto alle dimensioni di ogni partito. La logica politica grande/piccolo è qui determinante.
3. Rappresentanza e partiti
Per problematizzare quegli obiettivi si deve iniziare a chiedersi a che cosa serve un Parlamento, cioè a che cosa serve la rappresentanza politica (si deve lasciare per ora da parte la questione filosofico-politica della validità in generale della rappresentanza come principio politico efficace; nella pratica politica, e a Costituzione invariata, alla rappresentanza si deve anzi restituire il suo intrinseco valore legittimante).
E per chiedersi a che cosa serve un Parlamento si deve articolare la domanda: chi rappresenta che cosa, come, a quali fini, e in quale contesto istituzionale.
Il “chi” sono gli eletti in Parlamento, ciascuno rappresentante dell’intero popolo sovrano. Se infatti ci si interroga su che cosa i rappresentanti rappresentano, si deve rispondere che, sotto il profilo teorico fondamentale, la rappresentanza è un trasferimento di volontà, un’autorizzazione radicale; da qui l’articolo 67 della Costituzione, che prevede, come in tutte le Carte moderne, il mandato libero. La volontà politica del rappresentato passa nel rappresentante, così che la volontà politica dei rappresentanti (la legge) è a priori la volontà politica dei rappresentati. E’ questo il motivo per cui non è logicamente possibile alcun ‘diritto di resistenza’ contro la legge: questa va senz’altro obbedita perché emana non da una volontà altra e diversa dalla nostra ma dalla nostra stessa volontà, rappresentata ed elaborata attraverso procedure certe. E proprio per questo il rappresentante non può mai essere per legge “richiamato” (diverso è il giudizio politico e morale sull’opportunità delle sue scelte), anche se cambia partito dopo essere stato eletto: non può infatti esistere una volontà politica superiore a quella di chi rappresenta la sovranità del popolo. E’ questa l’essenza logica della rappresentanza moderna, che è in primo luogo la “volontà di unità politica” dei cittadini.
Ma questa volontà di unità, espressa nella rappresentanza, si colora nella politica reale di altri elementi: la specifica fiducia verso la persona del rappresentante, e soprattutto la presenza pluralistica nella società di diverse opinioni e ideologie, di interessi contrapposti, che dell’unità politica danno interpretazioni diverse. Quindi, oltre a rappresentare la volontà unitaria dei rappresentati, la rappresentanza serve anche a consentire il dialogo e l’integrazione istituzionale fra entità e istanze diverse fra di loro, e in conflitto fra loro. E’ qui che subentra l’istituzione parlamentare, in cui la logica dell’unità e quella della pluralità si compenetrano, attraverso il dialogo e la parola. Ancora: la rappresentanza può essere dei territori, e questa è anzi una delle legittimazioni più forti del deputato; oppure può essere delle etnie. Rappresentanza, infine, può essere l’atto con il quale il rappresentante raccoglie la deferenza (prima ancora che la volontà politica o la fiducia personale) del rappresentato: è questa la forma moderna della clientela.
Queste idee e queste logiche di rappresentanza, anche contraddittorie tra di loro, sono simultaneamente presenti, in diversa misura, nella teoria e nella pratica politica; e coesistono in una istituzione, il parlamento, che ha il compito di portarle a unità non ideale ma reale, il che avviene, lo si è detto, idealmente attraverso la parola, ma operativamente attraverso il principio di maggioranza: ciò che la maggioranza decide vale anche per la minoranza.
Se poi ci si chiede qual è lo strumento della rappresentanza si deve rispondere che all’epoca del parlamentarismo liberale era il deputato come singolo, ma da quando esiste la democrazia di massa sono i partiti.
I partiti possono porsi l’obiettivo di includere la più vasta area possibile della società: sono i partiti a vocazione maggioritaria, ovvero «pigliatutto», il cui obiettivo è individuare i principali, pochi, semplici problemi dell’oggi, e presentare a tutto lo spettro della cittadinanza una proposta politica volta a risolverli. Una idea di politica molto estesa, quindi, e inevitabilmente superficiale. Oggi, in questo modello, il baricentro è sull’offerta (di slogan, di soluzioni a breve), presentata però come risposta a domande della ‘gente’ (domande che in realtà vengono selezionate e semplificate da un accorto uso dei media). Se queste caratteristiche si estremizzano si entra nel modello plebiscitario, in cui il predominio della domanda (le pulsioni emotive della gente) è solo apparente, mentre il predominio dell’offerta, cioè della volontà del leader, è assai reale. Il partito pigliatutto, in questo caso, si trasforma in partito del leader, in strumento passivo della sua politica.
Un partito può al contrario servire a formare, a indirizzare. Mentre il «partito pigliatutto» si adegua alla realtà, un partito formativo, invece, opera, sulla parte di società che rappresenta, una Bildung cioè una formazione e una educazione. Qui c’è un apparente predominio dell’offerta (la linea decisa dagli organi del partito, che è un’organizzazione forte e autonoma) ma in linea di principio la bilancia pende verso la domanda, ovvero verso bisogni reali e profondi della società, che il partito interpreta con maggiore precisione dei cittadini. Qui, soprattutto, il partito è parte: esprime la parzialità e la complessità plurale della società, e anche la sua fisiologica conflittualità.
Dal punto di vista della qualità della sua azione, poi, un partito può servire a rassicurare, a mandare il messaggio che la società o lo Stato (secondo i casi) sono capaci di produrre ordine, appunto attraverso il partito. O al contrario può essere un partito di lotta, di mobilitazione, il cui messaggio è che la società è in disordine, e questo disordine va accentuato attraverso la mobilitazione del partito. Il carattere rassicurante o mobilitante può appartenere a entrambi i modelli sopra esposti: anzi, ciascun modello può essere al contempo, e secondo le circostanze, interno all’uno o all’altro registro.
Questi due schematici modelli di partito corrispondono, o almeno vi si approssimano, a due modelli di democrazia: la democrazia d’investitura (che, se il modello si estremizza, si trasforma in democrazia plebiscitaria), e la democrazia di mediazione (che può degenerare in partitocrazia): insomma, la democrazia dei capi e la democrazia delle istituzioni (e anche dei partiti). Nella pratica possono non escludersi, e compenetrarsi in forme intermedie, ma obbediscono a logiche diverse: la decisione e la discussione, la celerità e la lentezza, l’immediatezza e la mediazione, la semplicità e la complessità, la vocazione maggioritaria e la vocazione alle alleanze, l’orientamento alla guida personale e il predominio della funzione organizzativa. Nel primo modello ‘democrazia’ significa che tutti votano per scegliere tra offerte diverse, fra capi diversi (in una logica schumpeteriana). La politica si consuma nella campagna elettorale, nel duello sotto i riflettori dei media, per essere poi concentrata nel leader (con possibili tendenze autoritarie); e il partito è la macchina elettorale del capo, ovvero il suo fedele supporto, lo strumento di raccolta maggioritaria del suo consenso. Nel secondo modello democrazia significa che la politica permane, invece, dentro la società, appunto attraverso i partiti; non si esaurisce nello scontro finale ma permea la vita e la struttura del corpo sociale. Il partito, qui, è un cervello collettivo, e una struttura parziale e permanente (il rischio e’ dato dalle possibili tendenze oligarchiche), non una macchina da guerra. Da una parte c’è il duello, dall’altra il conflitto ma anche la logica del confronto e delle alleanze fra partiti.
4. Tre fallimenti
A quale partito, a quale democrazia, si fa riferimento quando si parla di legge elettorale?
Prima di rispondere si deve prendere atto non solo della situazione del sistema politico italiano che sopra si è brevemente delineata, ma anche del modo fallimentare in cui quel sistema funziona.
Tre, infatti, sono i fallimenti che caratterizzano la politica italiana, oggi. Il primo è il fallimento del principio della parola, cioè del Parlamento. Se mai oggi si parla di politica (posto che se ne parli senza gridare e senza trasformarla in uno spettacolo) ciò avviene in televisione, nei talk show, che sono di fatto – mentre il Parlamento pare il relitto dell’epoca liberal-democratica – la forma adeguata della parola politica oggi, quella che in qualche modo legittima la politica. I cittadini non specialisti sanno poco di ciò che si dice e si fa in Parlamento, ma seguono (non tutti, certo) le trasmissioni di dibattito politico.
Un altro fallimento è quello del principio del conflitto, anch’esso centrale in una prassi democratica, mentre oggi è stato rimosso dalla fisiologia della politica ed è stato trasformato in avversione radicale (inimicizia è parola che fa riferimento a un ambito teorico troppo alto, inadeguato a questo contesto). L’avversione radicale, bene alimentata dalla propaganda, spacca la società in campi contrapposti, che si delegittimano a vicenda senza interagire, neppure dialetticamente. Su di essa possono fiorire solamente scontri urlati (una pseudo-mobilitazione) e pratiche parlamentari di collaborazione per ‘necessità’ (una pseudo-alleanza).
Il terzo fallimento è quello della rappresentanza. Di fatto, la forma di rappresentanza più sentita, e più praticata in Parlamento, è quella dei territori: una idea di legame semplice e intuitivo fra la società e il ceto politico. Ma a fronte di questo trionfo del particolare (a volte inevitabile, e anche giusto), il ben più oneroso compito universale della rappresentanza, di cui si è detto, non ha ha rilievo pratico, né è parte significativa del discorso pubblico. È a tal punto fallita la rappresentanza che i politici eletti si sono trovati schiacciati dalla definizione di «casta», che è l’esatto contrario della rappresentanza. Rappresentanza vuol dire che ‘quelli là’ siamo noi; casta vuol dire che ‘quelli là’ sono ‘loro’.
Questi tre fallimenti dipendono poco dalla Costituzione e dalla legge elettorale, e molto dai partiti e dalla loro crisi. In questo momento due dei tre attori principali della politica italiana sono interpreti di avversioni furiose. Sicuramente il Movimento 5stelle modula in questa chiave il conflitto generazionale e il conflitto anti-casta, realizzando un buon esempio di populismo. Mentre la destra rappresenta come invincibile avversione il conflitto pubblico-privato, a tutto favore del privato. Non parti ma fazioni, quindi.
Il PD è il partito della Costituzione e delle istituzioni, cioè dell’universale. E interpreta non un’avversione ma un conflitto politico contro chi è animato da istinti anti-costituzionali; ma il Pd è, soprattutto, un partito che vuole rassicurare (altra cosa è che la crisi glielo permetta), che vuole mandare un messaggio di ricostruzione e di riforma sociale e civile. Anche se la nuova segreteria ha assunto toni più mobilitanti, non fa certo evolvere il Pd nella direzione di un partito di lotta: semmai, verso un dinamico partito pigliatutto a impianto leaderistico e mediatico.
Per un verso o per un altro, insomma, mancano in Italia partiti del conflitto, formativi e capaci di alleanze politiche; cioè partiti autorevoli e radicati. Ciò è avvenuto perché, dagli anni Ottanta, la diffusa corruzione da una parte, e dall’altra le politiche e le ideologie neoliberiste, apparentemente spoliticizzanti, hanno generato una debolezza, una passività, ma anche un’aggressività, dei partiti di cui oggi patiamo le conseguenze. Che ciò sia il problema principale della politica italiana non è facilmente ammesso.
5. Sulle leggi elettorali
E’ chiaro a questo punto che la legge elettorale non può essere il sostituto della capacità del sistema politico di stabilizzarsi, cioè di ridare il primato alla politica. A questo fine sono semmai indispensabili la riforma della Costituzione (non necessariamente della forma di governo), ma molto di più l’auto-riforma politica dei partiti, che devono riacquistare forza organizzativa riscoprendo una parzialità non populistica e una rinnovata presenza sul territorio, e devono riprendere la loro funzione formativa attraverso una nuova autorevolezza dei dirigenti (una parte notevole della questione delle élites); devono cioè trasformare l’avversione mobilitante (o al contrario la rassicurante tendenza ‘pigliatutto’) in vero conflitto politico – che implica anche la capacità di alleanze; così come la ricerca dell’egemonia richiede la capacità di sostenere anche posizioni critiche –; il che può avvenire se all’analisi politica superficiale e propagandistica si sostituisce un’analisi più radicale, fondata sulla complessità sociale e sulle sue contraddizioni. Solo a queste condizioni si formerà in Italia un sistema dei partiti in grado di fare politica, cioè di sviluppare robuste azioni di indirizzo delle dinamiche sociali, legittimate dalla fiducia dei cittadini.
Affidare il peso della rinascita della politica alla legge elettorale significa, in pratica, assecondare la politica dell’avversione o dell’eversione (quindi, indirettamente, anche indebolire l’azione di difesa delle istituzioni); significa adeguarsi alla pigrizia intellettuale e morale di una società che, abituata ormai a detestare la politica, a diffidarne, non ne vuole sentir parlare e non la considera una presenza fisiologica all’interno della propria complessità, e, al più, se ne interessa episodicamente come a un duello spettacolare che si esaurisce una volta per tutte la sera del giorno elettorale, a cui deve seguire un’indisturbata azione amministrativa del capo vittorioso.
Che la stabilità di governo e di sistema politico non sia raggiungibile attraverso una legge elettorale lo dimostrano, del resto, gli anni della seconda repubblica, quando leggi elettorali iperstabilizzanti sulla carta in realtà hanno prodotto un Paese sgovernato e un parlamento frammentato; più si è rafforzato artificialmente il lato della stabilità più si è indebolito il lato della legittimità e dell’efficacia. E oggi, quando una società sfibrata dalla crisi economica – già, quindi, poco propensa alla lealtà repubblicana e alla partecipazione elettorale – non viene, in nome della governabilità, neppure adeguatamente rappresentata, in molte sue parti, si stanno mettendo le basi per un possibile disastro.
Naturalmente, ciò non significa che non ci si debba dotare di una buona e ragionevole legge elettorale. Significa però che non le si deve chiedere troppo, per non ritrovarsi poi con troppo poco in mano. E che si deve avere presente che la legge elettorale può essere una via per ridare un po’ di vitalità alla politica (al sistema dei partiti) senza però che le si debba chiedere di produrre immediatamente governabilità.
Pertanto, al di là della disputa tecnica sui sistemi elettorali maggioritari proporzionali, misti – i primi ottocenteschi, i secondi novecenteschi, mentre i terzi sono il presente e il futuro – si deve avere riguardo al risultato finale e complessivo, a livello di sistema politico, di una riforma della legge elettorale: si devono portare alla luce le idee di partito, di società, di democrazia, e anche il grado di fiducia nel futuro, che vi sono sottese.
Da questo punto di vista, in primo luogo non pare il caso che la legge assecondi gli umori anti-politici del Paese; mentre al contrario alcuni degli obiettivi che il discorso pubblico affida oggi alla legge elettorale sono appunto anti-politici almeno in quanto nascono dall’interesse a semplificare e a neutralizzare la politica, a minimizzare il ruolo dei partiti, attraverso la costruzione di leaderismi iper-politici. Non è un paradosso: nella democrazia d’investitura coesistono il partito pigliatutto e la figura del leader, la rassicurazione e la mobilitazione; ancor più nella sua degenerazione plebiscitaria iper-politica e anti-politica stanno insieme senza difficoltà.
E per evitare di alimentare con la legge elettorale le tendenze alla semplificazione della politica e del quadro politico – tendenze anti-politiche, fondate sulla presunzione che la complessità del reale debba essere ridotta in ogni modo, purché non col dialogo tra forze diverse – è necessario che si ritorni, almeno finché la forma di governo prevista dalla Costituzione resta invariata, a far sì che il governo si formi in Parlamento, e a non pretendere che si formi nelle urne. Deve nascere, invece, dentro l’istituzione rappresentativa, da alleanze, da trattative, dalla parola.
Non è vero che ogni accordo è un «inciucio»: dirlo è segno di pigrizia intellettuale, di facile populismo. Finché resta dentro le istituzioni, la politica è fatta anche di compromessi. Il compromesso tra forze politiche diverse – non si pensi sempre alle larghe intese, che nascono sotto il segno della necessità: piuttosto, ad alleanze tra forze compatibili culturalmente e politicamente – è un fatto politico di prim’ordine: si tratta semmai di capire se lo si stipula prima o dopo le elezioni (ma in ogni caso nella chiarezza). Quindi una legge elettorale non deve avere sistemi premiali troppo orientati a semplificare il pluralismo del quadro politico, a de-cespugliarlo, in nome di due miti, o meglio di due idola fori: che i partiti debbano avere una vocazione maggioritaria, e che sia opportuna la verticalizzazione della politica, la spinta ad accentuare la figura e il potere del leader. E invece deve rafforzare il Parlamento come luogo dove il governo si forma e si legittima; dove, oltre al governo, si controllano anche le potenti burocrazie pubbliche. E il Parlamento è legittimato e forte non quando qualche partito è gonfiato in modo abnorme e artificiale, ma quando il sistema dei partiti rappresentati in Parlamento ha qualche cosa a che fare con le strutture profonde della società.
No dunque al Mattarellum che costringe a coalizioni assurde e instabili; no allo ‘spagnolo’, troppo poco rappresentativo; e molta diffidenza anche verso il doppio turno di coalizione che è troppo facilmente trasformabile, davanti all’opinione pubblica, in una elezione diretta del premier, in un plebiscito per lo pseudo ‘sindaco d’Italia’. Si’ invece a un proporzionale di tipo tedesco, opportunamente adattato. Che in un contesto partitico, istituzionale, economico, ben diverso dal nostro come quello germanico (e senza che il Modell Deutschland venga mitizzato e universalizzato), ha dimostrato una discreta capacità di rappresentare in modo non troppo distorcente il pluralismo della società. Si dirà che tale modello espone, in linea teorica, al «rischio» che si debba ricorrere a governi di coalizione. Ma forse la Germania si è dimostrata poco efficace politicamente perché ha e ha avuto governi di coalizione? E forse le maggioranze gonfiate del parlamento italiano hanno dato invece buona prova? La governabilità nasce dalla buona politica, da partiti legittimati, strutturati, non effimeri, e non da artifici giuridici.
Si dirà anche che scommettere sulla rigenerazione dei partiti, sul loro radicamento, sulla loro autorevolezza, sulla loro capacita’ di alleanze, per garantire la stabilità delle istituzioni e anche la governabilità, e’ un eccesso di ottimismo, o un anacronismo irresponsabile: e che tutta l’evoluzione della società degli ultimi trent’anni va nella direzione opposta, con un trend irresistibile e irreversibile di semplificazione, leaderismo, logiche maggioritarie. Forte argomento, certo. Ma al tempo stesso si può sostenere che leggi elettorali troppo sbilanciate su quel trend sono troppo pessimiste, e spingono il realismo, necessario all’azione politica, fino al cinismo di costruire lo scenario politico del futuro sui lati peggiori del presente, sulla spoliticizzazione reale e sulla ri-politicizzazione spettacolare.
6. Addendum. La legge attuale
L’impianto della legge nata dall’accordo fra Renzi e Berlusconi – dalla loro sintonia culturale, dalla loro condivisione di una politica come decisione, azzardo, appello al popolo; dalla loro insofferenza per la mediazione e per le alleanze – asseconda troppo corrivamente, anziché contrastarli costruttivamente, tanto il discorso pubblico quanto soprattutto gli interessi reali dei due maggiori partiti. Da una parte, infatti, offre alla società pervasa di anti-politica l’emozione del duello finale e la prospettiva del grande decisore, dell’uomo solo al comando, che toglie peso ai partiti – visti come “paludi” e quindi opportunamente trasformati in obbediente “seguito” -; quell’impianto prevede insomma un modello di democrazia d’investitura con prevedibili effetti plebiscitari. Dall’altra realizza il sogno iper-maggioritario e bipartitico del disboscamento del quadro politico, togliendo rilevanza a forze politiche piccole ma non infime, a cui si addebita, del tutto incongruamente, l’instabilità politica italiana.
In realtà in questa legge nulla è ciò che sembra. Sembra strutturata su piccoli collegi, ed è invece fondata su circoscrizioni regionali e su un super-premio calcolato a livello nazionale. Sembra incentivare le coalizioni e invece espone i piccoli partiti coalizzati a essere portatori di voti per le forze maggiori. Sembra diversa dal Porcellum ma in realtà ne riproduce i difetti, ne asseconda le logiche: il capo è il dominus del partito e delle liste; i cittadini non hanno alcuna facoltà di scelta; la distorsione della rappresentanza (e il vulnus al principio di uguaglianza del voto) è analoga, cioè enorme (un partito egemone in una coalizione di “cespugli” che non varcano il 5 per cento, può raggiungere il 35 o il 37 per cento, ossia grazie al premio il 53 per cento, avendo in realtà il 25/30 per cento dei voti validi e mettendo quindi all’opposizione due terzi degli italiani votanti).
Gli obiettivi anche di questa legge, come del Porcellum, sono far nascere il governo dalle urne, la sera stessa delle elezioni, e assecondare la spoliticizzazione della società depauperandola della sua complessità e del suo pluralismo (anche il divieto di apparentamento fra i due turni va in questa direzione); insomma, le elezioni sono strutturate non come un processo politico ma come un gioco d’azzardo (alle elezioni i partiti “se la giocano”, si dice), e di da’ vita una democrazia dei capi, che si lascia alle spalle la democrazia dei partiti e dell’attività politica reale. Obiettivi iper-politici e spoliticizzanti al contempo, perseguiti dai due partiti maggiori, potentissimi (nel redigere le liste) e impotenti (nell’ottenere legittimazione dalla società, se non nel parossismo del voto). L’unico elemento positivo è che la legge non nasce dalla corte costituzionale ma da un’iniziativa politica. Non è poco, ma non basta a farne una buona legge. Come non basta la previsione che solo per questa via il Pd possa finalmente vincere le elezioni – previsione ottimistica, a dir poco, perché non fa conto della debolezza che deriva al Pd dal perseguire una logica maggioritaria che rinuncia alle alleanze, o che le scoraggia di fatto -.
Certo, qualche aggiustamento sulle soglie (più che sulle preferenze, alle quali è preferibile il collegio uninominale) può migliorare la legge; a questo aggiustamento si possono aggiungere forme di scorporo dei voti dati alle liste perdenti, e l’eliminazione dei divieti di apparentamento. Ma, data questa legge, non si esce dall’effetto combinato della logica maggioritaria e della logica leaderistica: per evitare il leaderismo implicito nel doppio turno si dovrebbe infatti alzare la soglia minima prevista per il primo, e cadere così nella logica del partito pigliatutto. Oppure, si può anche alzare la soglia di accesso al premio, e abbassare molto la soglia di accesso alla rappresentanza. Nel complesso, però, questi interventi finirebbero per snaturare la legge, cambiando la cultura politica che la informa.
Che è la cultura della democrazia d’investitura curvata verso la democrazia plebiscitaria; una cultura che, per recuperare credito alla politica, per dare ai tempi ciò che chiedono a gran voce, per far nascere la terza repubblica, dove vige il corso forzoso della stabilità e della decisione, rischia invece di ridursi a essere una politica che insegue i tempi, e anziché formarli e dar vita a tempi nuovi, alimenta e perfeziona i vizi del presente e li proietta, come fossero virtù, nel futuro prossimo.
[1] Testo riveduto della relazione svolta nel seminario “Ripensare la cultura politica della sinistra” Roma, 15 gennaio 2014.