di Mario Dogliani
1.- Ringrazio dell’onore che mi è stato fatto invitandomi a questa audizione davanti alla Commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati.
I tempi strettissimi della convocazione mi hanno impedito di stendere una relazione ampia che affrontasse tutti i problemi giuridici e politici che la preparazione di una nuova legge elettorale implica.
Mi limiterò dunque a poche considerazioni prendendo spunto dalle motivazioni della sentenza della Corte costituzionale che questa notte abbiamo avuto occasione di conoscere.
La sentenza presenta molti aspetti problematici sotto il profilo processuale: innanzi tutto, la confusione tra pregiudizialità ed incidentalità, il limite temporale alla cd. retroattività, le contraddizioni sui presupposti della parte “additiva” del dispositivo.
Ma in questa sede tali problemi non sono di immediato interesse (lo saranno all’interno di una auspicabile riflessione che il Parlamento vorrà intraprendere sulle cause dell’espansione del ruolo delle giurisdizioni interne, internazionali e sovranazionali, a discapito del principio della certezza del diritto, e sulla parallela compressione del ruolo e della legittimazione della decisione politico-rappresentativa). Quel che qui interessa è mettere in luce i vincoli (i divieti) che secondo questa decisione derivano dalla Costituzione all’esercizio del potere legislativo in materia elettorale.
2.- La sentenza – costruita sui principi di proporzionalità e di ragionevolezza – si presta ad una duplice interpretazione.
La prima – enfatizzando il dato testuale della non esistenza di «un modello di sistema elettorale imposto dalla Carta costituzionale, in quanto quest’ultima lascia alla discrezionalità del legislatore la scelta del sistema che ritenga più idoneo ed efficace in considerazione del contesto storico» – intende i principi predetti – di proporzionalità e di ragionevolezza – solo come lo strumento di un controllo di razionalità interno al sistema legislativamente adottato. La proporzionalità e la ragionevolezza riguarderebbero cioè solo il rapporto tra i fini dichiarati dalla legge e i mezzi approntati dalla medesima. Seguendo questa interpretazione, dunque, i principi fissati dalla Corte riguarderebbero solo la legge in esame o altre, di riforma della predetta, che si muovessero nello stesso impianto. Ma il legislatore avrebbe la possibilità di mutare radicalmente l’autoqualificazione del modello, modificando conseguentemente il parametro del giudizio. In sostanza, la sentenza non limiterebbe la libertà del legislatore di scegliere un modello anche radicalmente non proporzionale, purchè internamente coerente.
La seconda interpretazione sottolinea invece come il principio di proporzionalità sia inteso nella sentenza in due modi diversi (purtroppo non sempre accuratamente distinti, nel corso della motivazione, con gli opportuni accorgimenti lessicali). Il passo più esplicito, che chiarifica la diversità dei due significati, è il seguente: “il test di proporzionalità evidenzia, oltre al difetto di proporzionalità in senso stretto della disciplina censurata, anche l’inidoneità della stessa al raggiungimento dell’obiettivo perseguito” (par. 4 della motivazione). E’ chiaro dunque che la “proporzionalità” viene intesa sia come qualità costituzionale intrinseca dei sistemi elettorali per così dire “autorizzati” dalla Costituzione stessa: qualità che collega la quantità del consenso (dei voti) alla quantità dei seggi assegnati a chi quel quantum di consenso ha raggiunto; sia, d’altra parte, come criterio che valuta la idoneità dei mezzi al raggiungimento dei fini. E questo, a sua volta, sotto due profili: tanto sotto quello della razionalità rispetto allo scopo, quanto sotto quello dell’equo bilanciamento tra il valore cui i mezzi sono preordinati e il valore che essi comprimono (bilanciamento che deve assestarsi, trattandosi di valori costituzionali pariordinati, sul minor sacrificio possibile del secondo: par. 3.1 della motivazione).
E tale valore solo ragionevolmente comprimibile altro non è che la “proporzionalità in senso stretto” come qualità costituzionale (del modo di formazione) delle assemblee. Se le norme censurate «consentono una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali»; se determinano «un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto»; se non rispettano «il vincolo del minor sacrificio possibile degli altri valori e interessi costituzionalmente protetti … determina[ndo] una compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea, nonché dell’eguale diritto di voto, eccessiva e tale da produrre un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente», non c’è dubbio che il terminus ad quem cui è volto il test di proporzionalità non è solo l’autoqualificazione che il sistema elettorale adottato abbia fatto di se stesso, ma il principio di proporzionalità in senso stretto, come principio costituzionalmente presupposto (seppur suscettibile di assumere «sfumature diverse in funzione del sistema elettorale prescelto» (par. 3.1. della motivazione).
E così, per esser chiari, il sistema elettorale inglese, per quanto sia onusto di storia e di benemerenze democratiche, non sarebbe compatibile con la Costituzione italiana dal momento che consente che ottenga la maggioranza assoluta dei seggi un partito che ha ottenuto meno voti del partito concorrente, o addirittura che consente – in ipotesi estrema – che un partito che abbia perso in tutti i seggi per un solo voto, pur avendo raccolto un consenso pressoché coincidente con quello del partito, o dei partiti avversari, non ottenga neanche un seggio.
Libertà del legislatore, dunque, ma per definire allontanamenti dal principio di proporzionalità che siano “sfumature”.
3.- Non mi soffermo con considerazioni di tipo politico sulla dichiarazione di incostituzionalità delle norme che prevedono liste bloccate “lunghe” per «determinare per intero la composizione della Camera e del Senato». Mi limito a rilevare come desti qualche perplessità la assimilazione delle liste bloccate “corte” ai collegi uninominali, non sotto il profilo della conoscibilità dei candidati (ovvio), ma sotto quello della soddisfazione del requisito consistente nella necessità del «sostegno della indicazione personale dei cittadini», e dunque della assimilazione delle liste bloccate corte al voto di preferenza, che tale necessità di “indicazione personale” realizza. Sul punto la motivazione è meno precisa, e non del tutto corrispondente alla ricostruzione “in fatto” della eccezione dei ricorrenti.
Tale eccezione non toccava il problema della conoscibilità dei candidati (direbbe Vittorio Alfieri: uno, o pochi, o troppi), ma sosteneva che dagli artt. 48, 2° c. – 56, 1° c. – 58, 1° c. deriva il principio secondo cui il voto – «personale ed eguale, libero e segreto», da esprimersi «a suffragio universale e diretto» – deve essere dichiarato «dalla persona che vota … e ricevuto direttamente dalla persona che si è candidata». E proseguiva: «Attribuendo rilevanza esclusiva all’ordine di inserimento dei candidati nella medesima lista, già deciso dagli organi di partito, ed eliminando ogni potere dell’elettore di incidere direttamente sulla composizione dell’Assemblea, la legge [trasforma] le elezioni in un procedimento di mera ratifica dell’ordine di lista deciso dagli organi di partito, conferendo a costoro l’esclusivo potere non più di designazione di una serie di nomi da sottoporre singolarmente alla scelta diretta degli elettori, ma di nomina». La Corte ha trasformato invece un problema concernente il significato della qualificazione del voto come “personale e diretto” in un problema empirico di “conoscibilità” dei candidati, dipendente dal loro numero.
In ogni caso dovrebbe restare fermo che se la Corte ha pronunciato una sentenza additiva, è perché – come sempre, nelle pronunce di questo tipo – ha trasformato in norma “addenda” la norma la cui precisa mancanza era stata individuata come la causa diretta dell’incostituzionalità. La norma la cui precisa mancanza: non “una delle possibili norme” la cui mancanza generava l’incostituzionalità. Se, infatti, è prospettabile una pluralità di norme atte a rimuovere l’incostituzionalità (ad esempio la previsione di un voto di preferenza oppure la previsione di liste “corte”), è compito solo del Parlamento effettuare tale scelta (a meno che la norma stessa non possa essere tratta in via interpretativa dalla legge ordinaria: il che nel caso di specie non è). Ma se la Corte si fosse fermata dinnanzi alla discrezionalità del legislatore non avrebbe potuto confezionare una normativa di risulta autoapplicativa, e dunque ha conchiuso la dichiarazione di incostituzionalità individuando direttamente la “regola” mancante e fissando il punto di diritto secondo cui è la mancanza della possibilità di esprimere una prefeenza la causa della incostituzionalità della disciplina.
In sintesi: o la determinazione per intero della composizione della Camera e del Senato attraverso liste predeterminate, lunghe o corte che siano, da ratificare attraverso il voto, elimina ogni potere dell’elettore di incidere direttamente sulla composizione dell’Assemblea ed è quindi, per questo specifico motivo, incostituzionale; oppure ciò non è vero. Ma per rispondere che non è vero bisogna affermare che la determinazione per intero della composizione delle camere attraverso liste predeterminate e bloccate non trasforma le elezioni in un procedimento di mera ratifica dell’ordine di lista deciso dagli organi di partito, e non conferisce a tali organi l’esclusivo potere non più di designare una serie di nomi da sottoporre singolarmente alla scelta diretta degli elettori, ma un esclusivo potere di nomina. Dimostrazione evidentemente impossibile.
4.- Avendo avuto l’onore di esser stato chiamato a partecipare alla Commissione di studio cd. “dei trentacinque”, presieduta dal Ministro Quagliariello, vorrei manifestare in questa sede il mio stupore per il fatto che i lavori di quella Commissione – che in meno di due mesi ha prodotto materiali raccolti in un volume di oltre ottocento pagine – offerti alla politica con estremo rispetto, come studi preliminari, non abbiano ricevuto dalla politica stessa alcuna attenzione, neanche quella minima, consistente nel ricordo di quell’avvio di riflessione. La politica evidentemente non riesce a liberarsi del vizio di presentare tutte le proposte che avanza come nate istantaneamente nel cervello di chi le enuncia, come Minerva dalla testa di Giove, senza dover dunque riconoscere nulla a nessuno.
Ribadisco il mio favore per la proposta di sistema elettorale – strettamente legata a quella relativa alla forma di governo neo-parlamentare, avanzata in quella sede – e che ho sostenuto anche con un “approfondimento” (pagg. 238 ss. del volume citato) e puntualizzato, assieme al prof. Olivetti, in una “riserva” (ivi, pag. 71).
Tenuto però conto del fatto che quella proposta era il risultato di un compromesso tra sostenitori del sistema parlamentare e propugnatori di quello semipresidenziale – e che per questo valorizzava il secondo turno (reso pressoché necessario dall’alta soglia necessaria per conseguire il premio di maggioranza) e prevedeva che portasse all’assegnazione di un numero di seggi variabile, atto a garantire in ogni caso il conseguimento della maggioranza assoluta: strumenti volti entrambi a produrre quella elezione “nazionale” che i sostenitori del semi-presidenzialismo richiedevano – oggi, tenuto conto del mutato clima politico, penso che quella risposta possa essere, per così dire, “ammorbidita”.
Ripercorrendo la lunga discussione che si è svolta intorno alla proposta di una elezione a due turni: un primo a base proporzionale e un secondo di “spareggio” (risultata maggioritaria in seno alla Commissione, e a suo tempo avanzata da Pasquino, Violante, D’Alimonte, e ora da Ferrajoli), penso che, ad evitare le critiche, e i rischi, di una “curvatura presidenzialistica”, si potrebbe prevedere di assegnare, con il secondo turno, reso praticamente obbligatorio, una quota di seggi non variabile, ma fissa. Questa, foss’anche del 20%, sarebbe democraticamente legittimata da una elezione (e non dal superamento di una opinabile soglia aritmetica) e garantirebbe probabilisticamente, ma non matematicamente a priori, il raggiungimento della maggioranza assoluta. Solo favorirebbe, e in modo sostanziale, la affermazione di un partito-pivot, caricandolo dell’onere – eventuale – di allargare la propria maggioranza. Si genererebbe così una situazione simile a quella tedesca, e il Governo continuerebbe, almeno potenzialmente, a nascere dal Parlamento e non, come adesso si dice con espressione funeraria, “dalle urne”.